Scopro Gerhard Tersteegen sfogliando un numero di “Conoscenza religiosa” del 1976. Tra un articolo di Guido Ceronetti (Postille a una versione del “Cantico dei Cantici”) e uno studio di Seyyed Hossein Nasr su L’Islam e la musica, spiccano, appunto, le “traduzioni da Gerhard Tersteegen” di Elémire Zolla. Il “mistico e poeta tedesco” – così la scarna nota di Giuseppe Zamboni nell’Enciclopedia italiana Treccani – è pressoché ignoto in Italia: lo si conosce di riflesso; secondo Kierkegaard, che scrive di lui nei diari, “Tersteegen è sempre incomparabile. Trovo in lui pietà vera e nobile e una sapienza semplice”. In particolare, Kierkegaard si sofferma su una distinzione che il mistico tedesco sancisce in uno dei suoi sermoni: tra un cristianesimo “della Legge”, pago e immobile, e un altro, più nobile, eccitato, sempre in moto (riassunto nei magi, i “tre re che corrono dietro a un vago indizio”), si opti per quest’ultimo. Dio appare per “vaghi indizi”, non certo per visioni esclamative; l’esclusivo esclude, l’ombra si abbarbica su muri in crollo.
Rifiliamo i fatti. Gerhard Tersteegen nasce a Moers nel tardo novembre del 1697, in una famiglia riformata, di commercianti. Il padre muore quando Gerhard compie sei anni; ha sette fratelli. Impossibilitato a proseguire gli studi teologici – bisogna vivere & guadagare –, pratica come mercante, in società con il cognato. Fa esperienza dei morsi del mondo, dell’avidità dell’uomo; non riconosce Dio tra i formalismi clericali, gli pare che il luteranesimo sia caduto nello stesso errore che intendeva condannare, sia scaduto. La fede gli sembra esangue, cattedratica, in afasia, una appendice della prassi politica.
Tersteegen, così, sprofonda nei gradi di una propria personale ascesi. Prima studia i mistici renani, poi molla l’attività mercantile, impara a tessere il lino. Intreccia al lavoro la preghiera, comincia a isolarsi, preferisce una vita di stenti: sogna – ricorrente utopia di fare di questa crudeltà un eden – il cristianesimo delle origini, una vita frugale, la felicità dei poveri di tutto, oltre il lutto. Lo studente si fa insipiente, crede che la grazia sia perpetua, opera nei cardini della preghiera incessante (che dice “continua dipendenza da Dio, abitudine a inchinarsi in Lui, anche nelle più piccole cose”): dal 1728 abbandona ogni lavoro, vive mendicando, in una purezza che atterrisce i concittadini. La gioia di Tersteegen è marziale: per sé solo edifica una regola minima, si muove tra gli scarti; per sé scrive preghiere che altri, più tardi, musicheranno; come il pellegrino russo, si ciba del Vangelo e della sorridente ostilità di cui lo ammanta il mondo. Crede nel cristianesimo del ‘focolare’, intorno al fuoco, miserrimo, più che quello che si professa in abbazie e basiliche. Si nasconde tra i gangli di Dio, proprio lì, nel luogo dove Dio ha le doglie: trova nella lettura di Teresa d’Avila e di Giovanni del Croce un conforto. Cadetto della granitica, pia società mercantile tedesca, Tersteegen desidera cadere: nell’estrema spoliazione non germina il tarlo apocalittico, ma una libertà più vasta, le forme caste.
“Tersteegen vedeva nella vita fraterna una forma di nascondimento in Cristo conforme all’insegnamento neotestamentario sulla vita cristiana. Con gli anni il suo affinato discernimento divenne un patrimonio condiviso con moltissime persone, che gli scrivevano o andavano a trovarlo per ricevere consigli spirituali. Consapevole dell’esigenza di risveglio religioso che emergeva ormai in tutta la Germania e nei Paesi Bassi, Gerhard accettò di alternare alla propria solitudine un servizio itinerante di predicazione”.
La latitanza da ogni gerarchia, l’assenza del tempio in vece del vento, la veglia al posto del sacerdozio, la sparizione rispetto alla paratia dei paramenti (o al loro ipocrita falò). Via ardua e bellissima quella di Tersteegen, sulla soglia del sacro solipsismo, del cuore glossolalico. Spesso i sermoni di Tersteegen, che ritiene il cristianesimo appena agli albori, nel suo primo albume, spiazzano chi li ascolta:
“In pochissimi credono nel segreto della presenza di Dio, altrimenti il mondo sarebbe pieno di santi e la terra si muterebbe in Paradiso. Se gli uomini avessero davvero fede, non ci sarebbe bisogno di nulla, si getterebbero, cuore e anima, nel Dio amorevole. Ma Egli è nascosto ai loro occhi. Per questo, dobbiamo pregare che Dio si manifesti ai cuori, così che alla luce della presenza divina le tenebre della mera vita umana si dissipino, sia fuori che dentro di noi. Nella pratica cristiana nulla è più necessario, semplice, dolce e utile che realizzare la presenza amorosa di Dio”.
A chi lo ascoltava, predicava “lo stato di costante serenità e umiliazione interiore al cospetto di Dio”, la necessità di ritrarsi dal mondo senza disprezzare il mondo, di “cercare la solitudine, coerente alla propria vocazione”.
Simbolo, per alcuni, del pietismo radicale, Tersteegen morì nel 1769, di idropisia, dopo anni di mali, dovuti a una vita ‘spericolata’, alla deriva di Dio, sulle Sue falangi dove il sole è perenne. Gli inni di Teerstegen, specie di salterio della mendicanza, dalle saltuarie consolazioni, sono letti e cantati, soprattutto in area nordica; in Italia è solfeggio che strema, questo, ambizione al massacro.
Naturalmente, non esistono ritratti di Tersteegen. L’iconografia postuma lo immagina magrissimo, con i capelli lunghi, gli occhi in un nido lontano.
***
Tu che sei stato servo
del peccatore, umile, amorevole Dio,
purifica la mia via e il mio dire,
pensiero, parola, azione siano uno.
Fammi inginocchiare nel più basso
luogo, che sia il minimo
ai piedi dei miei fratelli:
Amore dice: “Il più misero
compito rende dolce il servizio”.
*
Ti sei donato, Gesù Cristo,
e cosa ne è della mia vita?
Il tuo preziosissimo Corpo
il tuo preziosissimo Sangue
a me offerti?
Oh Dio, eterno cibo
eterna festa – fame
che per sempre si appaga
sete per sempre placata.
*
Addolorato, prostrato
al calice aggrappato;
il merito della mia ira
è il tuo sacrificio.
Dolce volontà divina
per te l’amaro è dolce.
Che possa, ricordando il tuo
amore, soffrire con gioia.
*
Per l’agonia e il pianto
per il sudore di sangue
per la preghiera che riassume
le meraviglie di Dio;
Potente ti sono grato – si arrampica
verso Te l’incessante prece
parola che mai inciampa
incenso dal tempio del mio cuore
dove il sommo sacerdote è assiso:
Dio.
*
Su Te, l’innocente, la sentenza
è stabilita da lingua che pecca –
davanti al Tuo trono resto muto
residuo di errori.
Dalle Tue sante labbra assolto
stordito vado libero:
il passato è morte e giudizio,
sono crocefisso in Te.
*
Cristo Gesù s’incarica della croce
insieme ai ladroni –
laceri, sanguinanti, abbandonati
nella Tua vergogna e nel Tuo dolore.
Afferro la mia croce e ti seguo,
ogni mia gloria è qui:
con te faticare e soffrire;
il tuo rimprovero è la mia benedizione.
*
Chiamami ancora, Signore! Potrò non udirti?
Adorerò ancora i piaceri della terra?
Rapidi sfumano gli anni della vita
e la mia anima è assiderata nel sonno.
Chiamami ancora, Signore! Potrò non alzarmi?
Come posso disprezzare la sua voce
ripagare con la viltà le sue amorevoli cure?
Mi chiama… come posso farlo attendere?
Chiamami ancora, Signore! Egli bussa
e il mio cuore è una serratura occlusa.
Dio attende di ricevermi
oserò addolorare il Suo Spirito?
Chiamami ancora, Signore! Non posso
resistere: il cuore cede senza remore:
addio, vanità del mondo! Da te mi separo
la voce di Dio ha inondato il mio cuore!
*
Nascosto Amore di Dio, la cui vertigine,
gli abissi insondabili, nessuno conosce,
vedo da lontano la tua mirabile luce
e sospiro nell’intimo per un tuo responso;
il mio cuore duole, e non ha riposo
finché non Ti trova.
Misericordia è ciò che spargi:
la mia mente cerca pace in Te;
sono il tuo segugio, ma non ti trovo
non ha posa la mia anima errante.
Se tutti i miei passi a Te tendono
quando finirà questo pellegrinaggio?
Nascondo da me il mio io, che
non possa vivere se Cristo non vive
in me: crocefiggi i miei vili affetti
non lasciare che vinca il disordine;
non vedo più nulla più nulla
desidero tranne Te.
Amore, impartisci il tuo sovrano
aiuto, salvami dalle cure inutili;
caccia dal mio cuore l’ostinazione
dei suoi mille labirinti nascosti;
fai di me il Tuo devoto figlio
che possa gridare “Abba, Padre”.
Allontana in ogni istante il mio cuore
dalla terra: attendo la Tua chiamata,
parla alla mia anima e dille:
“Io sono il Tuo Amore, il Tuo Dio, il Tutto”.
Per assaporare il Tuo potere, la Tua voce,
il Tuo amore, Tu sei il mio voto.
*
Glorioso Padrone, Tu vivi, ora!
Concedi ai Tuoi seguaci di partecipare
alla Tua vita: comprendi il loro desiderio,
inchinati per allevare i Tuoi figli alla lotta
contro se stessi e contro il peccato –
morte e angoscia li allontanano dalla santità.
Non ti conosce la Terra, ma da sempre
vivi in Paradiso, nella pace;
vana mia anima: volerebbe da Te.
Allontanami dalle creature, spezzami,
morto al mondo, noto allo Spirito,
io vivo per Te, Principe della vita, il solo.
Rompi ogni legame, sarchia da me
ciò che non testimonia Te, uccidimi,
consegnami la sola cosa che amo:
risorgere come Tu sei risorto.
Schiavo della morte, resto inerme:
opera Tu in me, Potere della Vita Divina!
Modellami, guida verso i cieli
i miei pensieri affinché il cuore
non vacilli, non si premuri di deviare
ma resti sempre conficcato in Te.
Non sei lontano: chi Ti ama
dimora in cielo, benché abiti ancora la terra.
Gerhard Tersteegen