Proprio l’anno scorso, in concomitanza con i 90 anni – era nato a Neuilly-sur-Seine, nel 1929 – Garzanti ha ripubblicato alcuni suoi libri decisivi, “Vere presenze”, “Dopo Babele”, “La poesia del pensiero”. Libri pieni di vita, pieni di vento. “Vorrei essere ricordato come un buon insegnante di lettura”, diceva, ritenendo la critica un esercizio che esalta e moltiplica il piacere del leggere senza cannibalizzare l’opera. Iniziò gli studi a Parigi, si trasferì a New York mentre i nazisti invadevano la Francia, grazie all’intuizione del padre – “La mia vita è centrata sulla morte, sul ricordo, sull’Olocausto… Gli alberi hanno le radici, io ho le gambe: devo la mia vita a questo”. Si perfeziona a Chicago, studia a Harvard, nel 1959 pubblica uno dei suoi libri più importanti, “Tolstoj o Dostoevskij”. “So che il mio stupore può apparire ingenuo, ma continuo a meravigliarmi del fatto che con il linguaggio umano puoi amare, costruire, perdonare come torturare, odiare, distruggere, annientare”, scrive. Il critico Lee Siegel – ricordato nel ‘coccodrillo’ pubblicato sul “New York Times”, in onore di “George Steiner, il prodigioso critico letterario” – ha scritto di Steiner: “La sua assoluta virtù è la capacità di vagare da Pitagora a Tolstoj, attraversando Aristotele, Dante, Nietzsche, nell’arco di un paragrafo. Il suo vizio più irritante è che è capace di vagare da Pitagora a Tolstoj, attraversando Aristotele, Dante, Nietzsche, nell’arco di un paragrafo”. Fu un genio. Tra i suoi libri ricordiamo “La lezione dei maestri”, “Il libro dei libri”, “Una certa idea di Europa”, “Nel castello di Barbablù”. Muore poco dopo Harold Bloom. Per ricordarlo, stralciamo alcuni brani dalla straordinaria intervista rilasciata a Ronald A. Sharp nel 1995, per la “Paris Review”.
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Due pagine di Cechov creano un mondo intero, indimenticabile. Il mistero grazie al quale un artista genera una voce, crea un personaggio tridimensionale, con una vita indipendente, ha poco a che vedere con l’intelligenza pura, con i sistemi analitici. Ci sono romanzieri immensamente intelligenti – forse la mente di Proust è stata quella più vertiginosa del secolo – ma molti non lo sono affatto. Non riescono a dare ragione della spontanea unione tra il linguaggio e la genesi della vita, quella cosa che cammina davanti a te, fino a farti dimenticare il nome dell’autore. Questo è il genio, questa è la creatività, e io ne sono sprovvisto. Due pagine di Cechov creano un mondo intero, indimenticabile.
Simenon racconta la Francia come nessuno storico saprebbe fare. Ci sono romanzi grandiosi, che vivono grazie al loro contenuto intellettuale. Molti libri di Thomas Mann, ad esempio. L’uomo senza qualità di Musil è scritto con il piglio di un grande filosofo. Ma sono esempi rari. Il più straordinario sapere nel campo della finzione narrativa lo possiede, oggi, Georges Simenon. Posso prendere dal mio scaffale dieci o dodici Maigret e ciò che Balzac o Dickens fanno in cinque o dieci pagine Simenon lo fa in due paragrafi. C’è un romanzo di Maigret che si apre con un forte rumore. Sono le tre del mattino, Pigalle, l’antico quartiere a luci rosse di Parigi, un proprietario di night club chiude la saracinesca. Da quel singolo rumore – a cui segue il cigolio del carretto del latte, i passi di quelli che vanno a dormire intrecciati a quelli che cominciano a lavorare – Simenon non solo dettaglia una città e il carattere della Francia come nessuno storico saprebbe fare: impone ai tuoi occhi quei due o tre personaggi che animeranno la storia.
Il romanzo del torturatore. Ho tentato di scrivere un romanzo, ma non sono all’altezza dei temi che mi toccano profondamente. Ho ripetutamente iniziato e distrutto un romanzo che ha questo argomento: siamo su un’isola greca, è l’era dei Colonelli, oppure in Turchia o in Sudamerica, comunque in uno stato di polizia. Un uomo torna a casa dalla moglie e dai figli, e mentre vanno a letto sente l’odore della tortura che gli si avventa addosso. Non ne parla mai, ma la sua donna lo sa: sa che sta condividendo il letto con un torturatore. Una terribile malattia invade l’atto d’amore: le donne non rifiutano l’amore, come nella Lisistrata di Aristofane; iniziano a uccidere i mariti. Ma come faranno a vivere i figli dei torturatori? Questo libro dovrebbe essere scritto da un maestro. Io non sono maestro. Un maestro saprebbe cosa dicono queste persone a cena, conoscerebbe i piccoli rumori che si sentono in quelle stanze. Saprebbe come conquistarti.
L’uomo di lettere, oggi, è visto con sospetto. Ormai il letterato è considerato con sospetto. Un tempo, il letterato rappresentava una specie di consenso del gusto. La gente voleva conoscere l’arte da un esperto, non accademico, pensiamo a William Hazlitt. Il letterato poteva scrivere poesie, racconti, biografie. In Inghilterra questa tradizione non è morta. Critico, biografo, memorialista, ottimo poeta e supremo letterato è, ad esempio, Robert Graves. I miei critici, i miei oppositori mi rimproverano proprio questo: che sono un letterato in un’epoca in cui vincono le specializzazioni. Una delle prime recensioni di Dopo Babele è stata firmata da un insigne linguista, un sommo sacerdote dei mandarini dell’accademia. “Dopo Babele è davvero un brutto libro”, scrisse, “ma purtroppo è un classico”. Ho scritto a questo professore che non avrei potuto attendermi recensione migliore. Lui mi ha risposto che per scrivere correttamente quel libro ci sarebbero voluti almeno sei o sette specialisti. A quel punto gli ho detto che sbagliava. Non voglio raccogliere la polvere sulla scrivania dei tecnici. Preferisco prendermi dei rischi. Certo, in quel libro ci sono degli errori, forse delle inesattezze, che dicono, però, che vale la pena vivere per dare atto a una passione, per censire uno scatto più che una certezza. L’uomo di lettere, come dicevo – ma che cosa sono stati George Orwell e Edmund Wilson? – oggi è visto con sospetto.
Monsieur Derrida? Un genio che ha coniato un aforisma devastante. Viviamo in un periodo bizantino, o alessandrino, in cui il commentatore e il commento troneggiano sull’opera. Saint-Beave morì osservando amaramente che “non esistono statue per i critici”. Mio Dio, quanto aveva torto! Oggi ci viene detto che esiste una teoria della critica che domina la critica: decostruzione, semiotica, post-strutturalismo, postmodernismo. È un clima particolare, riassunto da quell’indubbio genio, Monsieur Derrida, che afferma che ogni testo non è che un “pretesto”. Questo è uno dei più clamorosamente sbagliati, distruttivi, devastanti giochi di parole mai creati. Cosa significa? Che qualsiasi sia la statura di un testo poetico, esso attende il commentatore decostruttivista. Ogni testo, insomma, è semplicemente occasione per un esercizio dell’intelligenza. Questo è ridicolo. Walter Benjamin pensava che un libro può attendere mille anni senza essere letto, finché non arriva il suo lettore, quello giusto. I libri non hanno fretta. Un atto di creazione non ha fretta: ci legge, ci precede, ci privilegia all’infinito. L’idea che non sia altro che un pretesto per stimolare la nostra mente mi riempie di amarezza e di rabbia. L’idea che gli studenti leggano critiche di seconda o di terza mano e che leggano sempre di meno le opere, rappresenta la morte di ogni ordine di valori, del normale, ingenuo, logico criterio di priorità.
George Steiner