“Non ho più idoli”: dialogo con Davide Tura, pianista e compositore
Dialoghi
Clery Celeste
Anni ’70 Exit
Com’era la storia che durante il governo della Thatcher, la Lady di ferro, in Inghilterra i poveri diventavano sempre più poveri, gli operai sfruttati, i capitalisti gongolavano, le guerre, l’impero, il consumismo kattivo… gli anni ’80 e lo sperpero, e gli scioperi e l’IRA, e la ricchezza e la frivolezza…? Qui siamo a Bushey, poco ridente cittadina di 24.000 abitanti nella contea dell’Hertfordshire, vicino Watford. Londra è lontana. Ci addentriamo nelle casette proletarie e in parte piccolo borghesi di due famiglie di immigrati: la famiglia Panayiotou, e la famiglia Ridgley. I primi vengono dalla Grecia, il capo famiglia fa il ristoratore e ogni tanto George, il piccolo George nato nel 1963 gli va a dare una mano. L’altra è una famiglia dove il padre è cresciuto al Cairo e ha sposato una italiana, e dove Andrew, anche lui classe 1963, già bellino da piccolo col suo fascino esotico dalla carnagione scura e il naso aquilino, cresce fra i libri di scuola della mamma insegnante e le fotocamere della Canon dove il padre lavorava. Voi direte, e allora? Niente, i due di Bushey, della ridente cittadina, si conoscono a scuola e amano la musica di Elton John e dei Queen. Rimangono folgorati, of course, da “Sheer Heart Attack”, album del 1974 dove Mercury e May inseriscono le portentose Killer Queen e Stone Cold Crazy e, ovviamente da “A Night at The Opera”, del 1976 dove c’è il singolo Bohemian Rapsody che Freddy ha imposto alla sua casa discografica e che conosciamo tutti abbastanza bene. E questa storia ci insegnerà che sull’Inghilterra della Thatcher si sono dette un sacco di cazzate. George è bruttino rispetto ad Andrew a cui vanno appresso tutte le ragazze della scuola. È cicciottello e ha l’apparecchio ai denti. Ma non dimenticatevi che siamo nel 1978, il crinale di quel decennio che si aprirà a strapiombo su benessere, lustro, ricchezza, Jane Fonda che fa le sue lezioni di aerobica in Tv, moda italiana, vacanze lunghe, settimane bianche e la musica, la musica sì, che inizia a voler apparire per suonare. Apparire per suonare? George ed Andrew si incontrano per suonare la chitarra e la batteria, a casa di uno e dell’altro, e compongono canzonette che ancora stonano un bel po’ col mainstream brit. Periferia, cittadine di provincia, grigiore industriale, scioperi, Ian Curtis che si suicida con un cappio al collo e voi… voi davvero volete farci ballare?
The Executive
No, non ci siamo proprio ragazzi, ripassate poi, rivedete le vostre canzoni, dicono loro i produttori di provincia un po’ pecioni e dallo sguardo incarognito che sentono Jonny Rotten e sprofondano nella prima eroina della lunga strage che verrà. George non vuole diventare ricco; vuole solo essere famoso. Lui lo sa di avere una bella voce, a casa non glielo dicono, glielo dice però Andrew. Pensate, amavano andare in discoteca. Andrew rimorchiava col fratello e George era intimidito. La classica storia dell’adolescente che vede gli amichetti sparire nei bagni delle feste con le ragazzine e lui rimane solo in corridoio a guardare il disco che gira sul piatto e i festoni strappati, o il dj che gli fa ciao con la manina… un bicchiere di aranciata in mano.
E poi l’altra storia. L’anno prima aveva passato un esame importante al liceo e il padre voleva che andasse all’università, altro che il cantante. Allora per fare due soldini, George ed Andrew s’inventarono una cosa. Si misero a fare i busker, i suonatori di strada. Se ne andavano in metro a Londra, chitarra e qualche bella canzone del momento. Elton, ovviamente, ma anche i classici Beatles, David Bowie, Freddy. Si mettevano a Green Park Station all’incrocio trafficato con Victoria Station, Jubilee e Piccadilly. Coi soldi guadagnati tornavano la sera nei club. Andrew era più scafatello. S’iscrisse al college, dove però rimase una settimana e provò l’LSD, e alla fine andò da George deciso: facciamo una band seria? George doveva dare il suo esame finale in Teoria della Musica, Arte e Letteratura e il padre non sentiva ragioni. La band seria però alla fine venne fuori, in un modo o nell’altro. Si chiamavano The Executive ed erano in cinque. C’era pure il fratello di Andrew, Paul. (Parentesi: nel frattempo George era in procinto di fare un’apparizione con una band discretamente nota del tempo, The Quiffs, avrebbe suonato la batteria: sapete perché lo scartarono? Perché era bruttino). Che musica avrebbero fatto? Puntavano allo ska. Andava così tanto in quel momento e poi faceva ballare. Ma lo ska lo suonavano quelli calvi, rozzi e pure mezzi teppisti che assomigliavano agli Skin. Figuriamoci. Sarebbero stati in grado di avvicinarsi almeno a una top hit come “One Step Beyond” dei Madness? No way (anche se i Madness di fatto erano dei nerd ante-litteram)
Ehi DJ
Gli Executives fecero un’apparizione a Bushey in una festa comunale locale. Avevano un singolo cui tenevano tanto, “Rude Boy”. Ma i produttori pecioni locali non se lo filavano. Assomigliava troppo ai Madness. Chi cacchio siete voi per imitarli? F**k you kids! Intanto il padre di George non vedeva futuro, diceva al figlio che la sua musica faceva schifo. George per tutta risposta, una volta in macchina, dopo che Jack senior aveva ascoltato la cassetta insultandolo e ordinandogli di andare all’università, era sbottato: io farò il cantante, gli disse, e tu il massimo che potrai fare è darmi supporto morale. Bingo. Rifiuti su rifiuti si susseguirono. Fra questi lo sdegno di un loro vicino di casa, Mark Dean, che aveva cominciato a muoversi nel mondo delle etichette indipendenti. Poi lo scioglimento degli Executive, il suo esame A Level superato, Andrew che conosce Shirlie Holliman (una delle due coriste dei futuri Wham) in un pub. E i tempi che cambiano. Lady Diana sposa il principe Carlo, il matrimonio del secolo è seguito come l’apparizione della Madonna in Tv, lei è la Madonna e lui il rospo ricco e fortunato. L’Inghilterra impazzisce per McEnroe che batte il numero uno del mondo del tennis Bjorn Borg a Wimbledon. Per strada iniziano a comparire i primi spolverini, i capelli cotonati, gli anfibi sopra i jeans stracciati. George non demorde e trova lavoro come DJ in un ristorante di Bushey. La gente cenava fino alle 23 e poi lui partiva con la sua scaletta tutta dance, black, disco funky; la voce al microfono che si autoannunciava. Che tempi. Era il 1980. Una sera, uscito di casa, sale sul bus che lo riporta al ristorante e… folgorazione! In un solo tragitto partorisce “Careless Whisper”. Dice di averla scritta per una ragazzetta con cui si vedeva, Jane, conosciuta l’anno prima. Ma si sentiva in colpa perché nello stesso tempo si era visto con un’altra. Beata adolescenza ingenua e inquieta. Andrew pensava fosse un gran pezzo e aggiunse parti di chitarra. George una sera la suonò al ristorante dove faceva il DJ e la gente si riversò in pista a ballare, cheek to cheek. Di chi era questo pezzo? Pensarono quelli. Cavolo, funzionava! Pensava lui.
Wham
Toc toc, che anno è? È il 1982, l’anno dei mondiali, quelli di Paolo Rossi e del presidente Pertini che saluta gli italiani campioni del Mondo di calcio dalla balconata dello stadio di Madrid. George è dimagrito. Si è tolto gli occhiali da vista e ha le lenti a contatto. Si è depilato. Ha un taglio di capelli tipo a caschetto ma a volte con la frangia che scende laterale. Balla molto. Con Andrew ha iniziato a frequentare i locali giusti di Londra. Tipo il La Beat Route Club dove chiacchierano con Steve Strange dei Visage, con Tony Hadley degli Spandau Ballet; Phil Ockey con i suoi Human League, dopo gli inevitabili esordi dark punk che qualcuno dice migliori, finalmente è arrivato al numero uno della Top of The Pops con “Don’t You Want Me” che ovviamente si balla ovunque. I rapper fanno le prima apparizioni dietro le consolle europee (non americane, dove già dal ’76 furoreggiano), c’è Grand Master Flash & The Furious Five e ci sono un sacco di frasi stupide buttate lì. Una di queste è “Wham Bam I Am the man”. Carina, pensano George ed Andrew. Se la cambiassimo e la facessimo diventare: “Wham, bam, I am, a man…” avremmo la base per un rap. E così fu.
Il pezzo che venne fuori e che registrano alla buona fu “Wham Rap” che, guarda caso, tornò nelle mani di Mark Dean, il vicino di casa di Andy, lo sdegnato. Lui nel frattempo aveva lanciato i Soft Cell che erano arrivati al numero uno con “Tainted Love” e gli ABC coi loro tre singoli delle meraviglie “The Look of Love”, “Poison Arrow” e “All Of My Heart”. Tempo di New Romantics, New Wave, ciuffi biondi, synth e leggerezza melodica. Mark lavorava per la CBS e la CBS gli aveva affidato un’etichetta indipendente, la Innervision. George aveva nella testa le parole del padre: “Get a label, get a job, or get out!” Firmarono un contratto con Mark per 500 sterline l’uno che George usò per andarsi a fare un buco alle orecchie. Il primo singolo degli Wham uscì nel giugno del 1982, quando l’Italia scendeva in campo contro il Camerun: “Wham Rap! (Enjoy What To Do)”. Per parlare degli Wham, però, non si può non scendere nei meandri della loro musica. Seguitemi.
Fantastic (1983)
Ci sono svariate immagini simbolo degli anni ’80 del disimpegno. Gli Wham di George Michael e Andrew Ridgley sono una di quelle. In particolare, ci sono due momenti televisivi che iconizzano il decennio musicale; la loro primissima apparizione a Top of The Pops di BBC1 e il video clip di “Club Tropicana”. A Top of the Pops il duo si esibisce sulle note di “Young Guns (Go for it)”, secondo singolo da Fantastic (che esce nel luglio del 1983). Il primo singolo dell’album “Wham Rap! (Enjoy What To Do)”, non era entrato nemmeno nei primi 100. Eppure il buon George, nell’Inghilterra della Guerra delle Falklands, era riuscito a tirar fuori un testo rappato niente male, fra sarcasmo sulla disoccupazione giovanile, sussidio governativo e giovani senza prospettive (altro che disimpegno). “Young Guns” però fa i veri numeri. E questo grazie a quella esibizione.
Il gruppo si presenta in forma smagliante. George è a torso nudo, sopra un giubbino di pelle scamosciato senza maniche, fisico atletico, ciuffo ribelle alla James Dean, abbronzato, jeans ed espadrillas bianche. Un sex symbol che fatichi a pensare possa esser uscito dal ranocchio cicciotto e peloso dell’adolescenza. Andrew è in camicetta anni ’80 a maniche corte, jeans ed espadrillas, abbronzato anche lui. E le coriste, Shirlie e Dee Ce Lee; pregiatissime prezzemoline di sfondo. George è scatenato, si porta appresso lo studio. Il singolo è una bomba tropical funky rappato e col ritornello (falsettato) introdotto e inframezzato dai fiati. Il giorno dopo l’esibizione la Innervision ricevette l’ordine di trentamila copie e il brano salì dal numero 48 al numero 3 della classifica.
E poi “Club Tropicana”. Non c’era You Tube all’epoca. I ragazzi stavano incollati alle rotazioni di MTV e Video Music, i video clip rappresentavano il biglietto da visita con cui un artista si presentava al pubblico. Ricordate: apparire per suonare! Erano gli anni dei 4 mesi di ferie, delle settimane bianche doppie, delle feste di compleanno in discoteca, e il terzo singolo da questo loro primo album rappresentò il segno di quegli anni; nel Club Tropicana, George e Andrew in slippino e fisici da adoni furoreggiano fra ragazze bellissime, fiati, piscine, mare, fuoristrada, ritmi caraibici, Club tropicana drinks are free, fun and sunshine there’s enough for everyone. Sì, ce n’è abbastanza per tutti. Anche per far incazzare gli incalliti del rock, i duri e puri dell’impegno, i residuati incanutiti degli anni ’70 che sbavano bile verde contro il poppetto della perfida Albione che aveva ammazzato il progressive con le armi della seduzione, della bellezza glamour, del belletto di plastica. Noi, che siamo Figli delle Stelle e quindi apprezziamo il belletto, diciamo che “Fantastic” rappresentò davvero il turning point degli anni ’80. Pezzi come “Bad Boys” (numero due in Inghilterra), “Love Machine”, “A Ray of Sunshine”, facevano del divertimento, del ritmo pop dance caraibico e del testo (apparentemente) frivolo il loro vanto. Poi c’erano già i lentoni à la George; “Nothing Looks The Same in The Light” era una ballad ciaciona (eccitante, in romano) e seducente. L’album arrivò al numero 1 in Inghilterra e in Nuova Zelanda. Mark Dean aveva fatto di nuovo centro. George si cominciò a firmare non più col cognome greco del padre, ma Michael, in onore del suo zio preferito. Attenzione a questa dello zio, una storia bella e terribile e atroce su cui torneremo dopo.
Make It Big (1984)
Di quest’album dovete tenere in mente alcune cose. La prima: “Wake Me Up Before You Go Go” fu il primo hit single degli Wham a entrare direttamente al numero 1 della Top of The Pops. La seconda: il titolo è una divertente presa in giro di Andy a un bigliettino lasciato da George ai genitori da cui voleva farsi svegliare il mattino dopo: “Wake me up up before you go”, c’era scritto. La terza: nel 2000 quando parleremo di George e dei suoi guai con la polizia di Los Angeles ricordatevi questo titolo. Che dire, siamo in presenza di un twist travolgente che divenne in breve un inno generazionale. Io li capisco, gli incazzati. Se eri un cacchio di gloomy che ascoltava i Sister of Mercy o Guccini o i CCCP o i trip di Pete Townsend o ti facevi di hard rock dei Saxon e degli AC/DC, come facevi a sopportare due cazzoni che salivano sul palco tutti patinati con una maglietta bianca con su scritto Choose Life? E poi erano belli e fighi e sembrava si facessero due tre ragazze a sera. No, non potevi. “Make It Big” arrivò al numero 1 in: Australia, Canada, Olanda, nella European Top 100, in Italia (chiaro!), Giappone, Nuova Zelanda, Norvegia, Svizzera, Inghilterra e Stati Uniti. Sopra ci sono pietre miliari del pop di quegli anni come “Everything She Wants”, la ballatona marcettistica dove George dà il meglio di sé come performer in un brano dalle nuance soul già più sofisticate. Poi c’è “Careless Whisper”; aveva ragione il nostro DJ, funzionava. Funzionava quel sax struggente, quelle linee melodiche perfette, azzeccate, rabdomantiche. Le luci della città, il sogno di un drink sulla baia di Los Angeles, fare l’amore nudi su un tappeto in montagna davanti al camino, un bacio sul porticciolo, un addio dalla scaletta dell’aereo, now who’s gonna dance with me, please stay! Il pezzo vendette 6 milioni di copie e arrivò al numero 1 in ben 25 paesi del mondo. Ma erano tempi in cui si poteva sognare, era giusto farlo e c’era chi ce lo faceva fare. Bastava una canzone. Nell’album ci sono brani ‘minori’ come “If You Were There”, delizioso affresco pop soul che esalta le doti del George black voice che verrà, la splendida “Heartbeat”, ballatona quasi gridata e trionfale, la spettacolare “Like a baby”, quasi un night jazz da after party, un gioiello di atmosfera e sensualità. Poi “Credit card baby”, questa sì un inciampo minore. Dulcis in fundo c’era “Freedom”, ma per lei dobbiamo aprire un capitolo a parte.
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Freedom!
Altro che oggi che ci lanciano addosso virus pestilenziali e stampano moneta a buffo creando inflazione e hanno mire espansionistiche simili a quelle dei Grandi Imperi. La Cina comunista non ancora “aperta al mercato” dell’aprile 1985 invitò ufficialmente gli Wham, primo gruppo occidentale della storia, a esibirsi nel paese della rivoluziona “culturale” maoista. Sentiamo come racconta quegli anni la studentessa Rose Tang, intervistata dal magazine Quartz e fuggita dal paese dopo i moti di piazza Tiananmen nel 1989: “Registravamo la loro musica sulle cassette dove c’erano pure Bob Dylan, i Beatles e Don McLean… gli Wham erano imprescindibili nelle nostre feste disco/rock underground nelle scuole artistiche. Ma le feste venivano spesso interrotte dalle autorità scolastiche che ci impedivano di suonare musica rock”. Nel video clip ufficiale del brano, tutto girato in Cina e a Shangai, ci sono George ed Andrew che parlano nell’introduzione. George a un certo punto dice: “Non avevamo idea, nonostante fossimo in una posizione privilegiata, cosa aspettarci dal pubblico cinese. Noi non siamo politici siamo musicisti, però eravamo lì per rappresentare non solo la pop music, ma la gioventù del mondo occidentale”. Bei tempi. Tempi in cui l’Occidente faceva sognare i ragazzi che vivevano oppressi sotto dittature (generalmente comuniste) e non si sentiva in colpa, come oggi, di essere quello che, grazie a Dio, ancora è (nonostante i nemici interni, anzi le serpi in seno). Il brano arrivò al numero uno in Inghilterra e al numero tre in America. È tutto un crescendo di archi, trombe, una marcia trionfale che annuncia la libertà e che fa scatenare in un ballo sfrenato. Il testo parla di libertà della coppia, come potrebbe essere altrimenti, figuriamoci se andavano lì a dire loro che dovevano rivendicare l’emancipazione da un regime disumano e feroce. E però l’idea di girare il videoclip con le immagini dei cinesi che fanno arti marziali, di George che prova (goffamente) a giocare a calcio, del concerto al People’s Stadium davanti a 15 mila persone, dei funzionari comunisti in divisa che ridono e si muovono a tempo, della grande muraglia, insomma di una vera western pacific invasion in territorio nemico lasciano il segno. Do do do, whoa, oh oh yeah.
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Music From The Edge of Heaven & The Final (1985/86)
Chi gliel’avrebbe detto a George di esibirsi a Wembley davanti a uno stadio colmo fino al limite della capienza, 72 mila persone, ancora prima che si esibisse il suo idolo Freddy Mercury a luglio di quello stesso anno? Le note cadenzate, malinconiche di “Everything She Wants”, urla disumane ad accoglierlo, tutto vestito di pelle nera e giubbotto nero con le frange e occhiali neri, assieme ad Andrew (con lo spolverino anni ’80 d’ordinanza, e le spalline, nero ovviamente) sul palco. Le favole che finiscono. I sogni che svaniscono all’alba. “The Final” è l’album doppio e il concerto d’addio che la band decise di dare nella loro Inghilterra dopo l’ennesimo strepitoso successo del terzo album, “Music From The Edge Of Heaven”. Difficile non riconoscere il genio nella creatività di George.
La title track, “The Edge of Heaven” ci regala un altro twist, incredibile, che affonda le radici negli anni ’60, lo riarrangia, lo trasforma in un pop scatenato di fronte al quale non puoi non muovere il culo. Numero uno in Inghilterra, Olanda, Belgio, il brano riassume la spensieratezza oltraggiosa della band. Così come “I’m Your Man”, altro singolo in cui si fondono rap, dance, synth elettro, rock, boogie, Una babele assurda di ritmi e generi. E poi è un album dove George decide di inserire “Last Christmas”, avete presente, no? Altro inno generazionale. Altro caposaldo che accompagnava i nostri cinepanettoni dove veniva sparato come colonna sonora kitsch per gli inverni piccolo borghesi in settimana bianca. Altro brano odiato dalla Kultura, Ja! Oggi, dicembre 2020, se scorrete le classifiche dei singoli più venduti in Inghilterra scoprirete “White Christmas” di Bing Crosby e “Last Christmas” di George, con buona pace della Kultura, Ja! Tutti gli introiti di questo disco (avete presente?) andarono in beneficienza all’Etiopia che in quel periodo era falcidiata dalla carestia (considerate che dai dati del 2020, il disco ha venduto 1 miliardo e 90 milioni di copie in tutto il mondo, roba da capogiro).
Bisognerebbe scriverci una tesi di laurea su questo brano. Titolo, Come Eravamo? Riguardatevi il video, eravamo così, ed eravamo felici. “Music From The Edge of Heaven” preannuncia il George solista dell’anno successivo. “Where Did Your Heart Go?”, una splendida e straziante ballad come solo lui sa orchestrare. “Blue (armed with love)”, ennesima nuance musicale, soul, easy listening, funky, atmosfera notturna. Il duo inserisce la versione 1986 di “Wham Rap!” che fa ancora la sua porca figura. “A Different Corner” è il George melò tutto lacrimoni e lenti avvolgenti. “Battle Station”, uno pseudo rap campionato, trombato (nel senso con la tromba), ritmo meccanico. Il miglior album, se volete il mio parere, del duo.
Nascita di un grande artista
Ah, se avessi accesso a un archivio giornalistico dell’epoca ve li farei vedere io i giornalistoni musicali impegnati che definivano George una sorta di bambolone etero (etero, sì!) plastificato che portava la gioventù al rincretinimento, ovviamente un prodotto finto del capitalismo (che poi è chiaramente fascismo) che faceva rimpiangere i barboni (e barbosi) artisti concettuosi dei concerti del parco Lambro che non c’erano più (e meno male!). Dopo “Faith”, il suo album d’esordio da solista datato 1987, gliene dissero di tutti i colori, al punto che il secondo, uscito nel 1990, dovette intitolarlo “Listen Without Prejudice” (ascoltate senza pregiudizio). Ma andiamo con ordine.
Già il fatto di intitolare il proprio album di esordio “Faith” è un segnale. Uno schiaffo in faccia al materialismo imperante fra gli “esperti” della carta stampata, fra i conoscitori musicali (e non solo) che un certo progressismo ateo inquadrava e inquadra nei suo ranghi come guerrieri di una battaglia campale. Erano (sono?) ancora loro a plasmare, a tentare di plasmare il gusto con le loro, per lo più, incompetenti e faziose critiche. Sacro e profano in George si sono però sempre dati la mano. L’album si apre con un potente organo di chiesa che fa da intro alla title track, ancora un rock anni ’50, miracolosamente arrangiato, dolcissimo nella sua esecuzione vocale, con tanto di schitarrata old wild west nel mezzo. Una perla. A seguire, una roba che spiazza, un inno alla vita, all’amore per il padre, per Dio, un miraggio di bellezza: “Father Figure”, la sua voce un sussurro, una malia. Probabilmente uno dei pezzi più intensi della storia del pop. Il testo poi: I would be your father figure, put your tiny hands in mine/I would be your preacher teacher/anything you had in mine/I would be the one you love/ till the end of times. Lo schiaffo al materialismo diventa sonoro. Poi, però, il brano dopo eccoci di nuovo negli inferi con il singolo colonna sonora di Beverly Hill Cop II, “I Want Your Sex”. Una delle classiche ballad à la George che spiazzò la ritmica dance giocando sul contro tempo. A proposito di spiazzamenti. Passetto indietro. Prima di “Faith”, George aveva rispiazzato tutta la critica duettando con la leggendaria Aretha Franklin in quello che era stato uno dei singoli più venduti quell’anno in America e in Inghilterra, “I Knew You Were Waiting For Me”. Ops, il bellimbusto di plastica che duetta con una leggenda nera? Oh yeah… Aretha stessa disse di George: “Quando lo sentii la prima volta con gli Wham mi resi conto che aveva una voce unica e quando mi proposero di interpretare I Knew You Were Waiting non vedevo l’ora”. Il pezzo venne prodotto da un gigante della black, Narada Michael Walden. E si sente. Su “Faith” non c’è un attimo di tregua. “Hand To Mouth”, “Look At Your Hands”, “Monkey”, il ritmo travolge. La magia del lento viene da altri due fari: “Kissing a Fool” e “One More Try”. “Faith” fu album dell’anno, nonostante la critica, ai Grammy e vinse due American Music Awards come best male Soul/R&B. Un bianco che vince un premio riservato ai neri. Wow. La plastica dev’essersi trasformata alchemicamente. E ha venduto 25 milioni di copie.
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Ascoltate senza pregiudizio
Anni ’90 maledetti. George li inaugura con “Freedom 90”, secondo singolo tratto da “Listen Without Prejudice”. E il video dice tutto. Siamo di nuovo all’inferno, sesso, modelle nude, il fuoco; il fuoco che brucia il suo giubbotto di pelle iconico degli Wham. My god! Il pezzo spacca. Un funky sensuale che sembra arrangiato da Lucifer infiltratosi nel computer. E che rifà il verso alla grande Aretha col il suo urlo “Freedom!”. Ma io non voglio (solo) parlare della sua (strepitosa) produzione musicale di questi anni da solista. Ci sono dei tarli che rodono la sua anima. L’ossessione per i tabloid che non lo mollano, l’arroganza delle Major discografiche che lui detesta, e la sua sessualità.
Subito dopo “Listen Without Prejudice” George andò in guerra contro la sua etichetta, la Sony, li accusò di schiavismo e mancanza di rispetto nei confronti degli artisti; perse la causa, ma la Sony lo liberò lo stesso dal contratto. Una banda di idioti che si privò del più grande musicista di quegli anni. Dove lo trovavano un altro che componeva affreschi mirabolanti come “Cowboys and Angels”; intro con soffice piano, ingresso di tastiera, charleston, basso, un crescendo in jazz con la sua voce calda, evocativa. O come “Waiting For The day”, dove siamo oltre i Beatles, o forse siamo nei Beatles che sarebbero stati. O come “Heal The Pain”, un menestrello dell’amore e del disincanto con le sue chitarrine che sembrano banjo su un tappeto di percussioni da deserto e falò. O come “Praying For Time”, primo singolo dell’album, una preghiera bellissima e ariosa e laica. I maledetti ’90 sono gli anni in cui la sua omosessualità negli ambienti passa dal si dice al probabile. George si fidanza con un ragazzo brasiliano, Anselmo, che durante un concerto a Rio lo aveva guardato dalla prima fila tutta la serata. Tre anni dopo Anselmo muore di Aids e George ne rimane talmente sconvolto da comporre probabilmente il suo pezzo più bello e struggente, “Jesus to A Child”, che esce nel 1995 e farà parte del suo terzo album “Older”, del 1997. “Older” è sì la maturità complessa che il genio riesce a far quadrare. Ma è anche un momento di totale sofisticazione. Ascoltate “Fast Love”, il suo funky si fa più cadenzato, una tigre guardinga che felpa il passo, avrebbe potuto interpretarla Grace Jones. Ascoltate “Spinning The Wheel”, una danza ipnotica al rallentatore. Non è solo R&B, sono picchi altissimi come sapeva esprimere la grande musica degli anni ’40 e ’50 dell’America ebraica di Irving Berlin. “Older”, la title track, è un cazzotto di grazia che ti attraversa le budella di piacere, con quel pizzico di sax lacrimoso in sottofondo. Ascoltate “You Have Been Loved” e ditemi se il suo non era un estro celestiale. Guidato da un qualche daimon capriccioso, triste, solo. Due soli album in un decennio e di questo livello (se si eccettua “Songs From The Last Century” del 1999 che però è un album di cover) fanno di George un artista vero, punto.
Cruising Outside
Negli anni ’50 Pier Paolo Pasolini venne cacciato dal PCI perché provò a rimorchiare un ragazzo che andava in bicicletta nelle campagne del suo Friuli ancora contadino. Eravamo nell’Italietta bacchettona e catto-comunista del dopo guerra (eravamo?). Nel 1999, negli Stati Uniti, in teoria uno dei paesi più liberali del mondo, George venne arrestato perché beccato in un bagno pubblico di Los Angeles che cercava di rimorchiarsi un tizio che si rivelò poi essere un poliziotto. Che lo denunciò. Perché negli stati Uniti del 1999 l’adescamento fra uomini era ancora un reato. E lo costrinse a rendere pubblica la sua omosessualità. La domanda che a me sorge spontanea è: fu una trappola tesagli apposta da qualcuno? Oppure George fu soltanto così sfigato da beccare la persona sbagliata nel momento sbagliato? Il dubbio rimane. Soprattutto perché, il giorno dopo, i tabloid inglesi, che lo detestavano, come il News Of The World ma soprattutto il Sun uscirono con strilli a nove colonne. Ricordate il titolo del primo singolo degli Wham al numero uno in Inghilterra, Wake Me Up Before You Go Go? Ecco, il Sun lo parafrasò e titolò: Zip Me Up Before You Go Go (Tirami su la chiusura lampo prima di andartene). Fortuna che il nostro è un bel caratterino. E non si perse d’animo. Prima di tutto andò in TV a scusarsi, come di consueto, per essere stato sciocco. Ma, e qui viene il bello, non per giustificarsi. La pratica del rimorchio all’aperto nel mondo omosessuale si chiama Cruising (vedere quel capolavoro di film di William Friedkin, “Cruising”, appunto, del 1980) e lui, disse, non aveva alcuna intenzione di abbandonarla. Non solo, sei mesi dopo, prendendo spunto dalla sua vicenda, fece uscire uno dei pezzi disco funky più belli del decennio. “Outside”, accompagnato dal video clip in cui ricostruiva, a modo suo, la vicenda facendosi beffe della polizia di Los Angeles, degli stereotipi del mondo gay, dei mass media e che, ovviamente, fu un successo planetario che lo portò al numero 1 e al numero 2 in almeno una ventina di paesi del mondo. Un gigante! Che così si espresse: “La mia sessualità in questi giorni è stata più presente della mia musica. Ma la mia musica rimarrà, e quella schifezza sparirà”.
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Patience
“Murdoch è il diavolo”, disse riferendosi a Rupert Murdoch, il magnate dei mass media dell’epoca, proprietario di Sky e di diverse testate che lo avevano preso di mira in maniera pesante, soprattutto perché nel 2004 ne aveva combinata un’altra delle sue. È l’anno in cui, a parare di chi scrive, uscì l’album più bello della sua carriera solista, “Patience”. Ed è l’anno della guerra del Golfo e dell’invasione dell’Iraq da parte delle forze della Nato, guidate da USA e GB che con George Bush e Tony Blair fanno il bello e il cattivo tempo del solito “Occidente Imperialista”. E George non si lascia sfuggire l’occasione per fare un dispettuccio ai due leader più odiati del mondo.
“Shoot The Dog” è il secondo singolo da “Patience” e il video in puro stile cartoon-Simpson (ispirato alla serie inglese 2DTV) prende per i fondelli i due leader con le rispettive mogli nella loro voglia sfrenata di conquista e guerra (cosa per altro già fatta nel 1986 dai Genesis con un altro video cartoon beffa nei confronti dei potenti dell’epoca, Ronald Reagan e signora, “Land of Confusion”). Apriti cielo. Il pezzo è ispirato, anzi quasi una cover riadattata di un altro gioiello della New Wave anni ’80, “Love Action (I believe in Love)”, degli Human League. I giornali di Murdoch attaccano George il rosso che è contro la guerra e percula The Presidents; e lui ci va giù di fioretto: “Sono un patriota ma ho scritto questo pezzo perché credo ci sia bisogno di più dibattito in Inghilterra fra chi governa e il popolo”. Il patriota che fa ballare gli animi per poi cullarli con le sue dolci favole in note musicali. “Patience” parte con il primo singolo, “Amazing”, un’altro torpedine elettro funky dall’atmosfera rarefatta, minimal. Segue “John and Elvis Are Dead”, scioccante ballad dedicata a John Lennon e ad Elvis che sono morti, appunto. Ma che lui riporta in vita con la sua voce stellare, la sua armonia matematica. L’album è un sali scendi soul funky intimista, “Car and Trains” va un po’ su, “Round Here”, un po’ più giù, “Flawless (Go To The City)” il diamante da ballo col video yuppie gayo, anzi frocissimo e deliziosissimo. “Freek 04” è un altro tormentone funky spaziale con cui ha fatto ballare mezzo mondo. Veniamo alla sezione lenti. “American Angel” è una di quelle ballate della “maturità”, dove il soul si fa ragionato e la chitarra insufflata. La stessa title track è una meravigliosa sessione di piano e voce à la Elton John (a proposito, non ve lo dimenticate il duetto col baronetto di sua Maestà, “Don’t Let The Sun Go Down On Me”, no non ve lo dimenticate). Dulcis in fundo venne lo zio.
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My mother had a brother
Ve lo ricordate lo zio, il fratello di sua madre, quello da cui George prese il nome per rimpiazzare il cognome di suo padre? Lo zio Michael. Beh, pare, si vociferi, fosse un ragazzo sensibile, troppo. Sua madre gliene parlava sempre. Figuriamoci crescere negli anni ’50 (quelli del PCI che in Italia buttava fuori Pasolini per pederastia). He took his own life, dice George nel pezzo sublime (“My Mother Had A Brother”) che ha composto per ricordarlo. Si tolse la vita perché era gay, nello stesso giorno in cui nacque lui. Se non è un marchingegno fantastico e terribile del destino questo, io non lo so! Il brano vale da solo tutto l’album, tutta la sua produzione, tutta la meraviglia di emozioni che ci ha saputo regalare. Tutte le speranze che la sua voce evocava. L’oltre che riusciva a farti intravedere con il suo modo scanzonato, birichino, a volte provocatorio, altre dimesso, riservato, triste, come solo un genietto sceso per caso sulla Terra sapeva fare.
White light
Non c’è titolo più indicativo e simbolico per indicare la fine. Quella che si vede in fondo al tunnel dopo la morte. La luce bianca. George nel 2012 esce con “White Light”, un singolo di una potenza house entropica, dove ripete in continuazione “I’m alive, I’m alive!”. Di nuovo spiazzando chi si aspettava chissà cosa. Ma sono anni, questi, in cui George, di fatto, non c’è più. O meglio, non c’è più quel George che abbiamo conosciuto in questi paragrafi. C’è qualcun altro che ha preso il suo posto. Un uomo maturo fidanzato con Fadi, che fuma marijuana, che si fa di crack, che pippa cocaina, che fa incidenti stradali sotto effetto di alcol e droghe, che viene ricoverato a Vienna per una polmonite dopo la prima tappa parigina del suo nuovo tour, Symphonica, un progetto davvero grandioso che lo avrebbe dovuto portare in tutti i teatri accompagnato con una orchestra sinfonica per eseguire i suoi successi. E di cui esiste solo una tappa, quella di Parigi, filmata, per fortuna, dalla BBC. Perché poi venne interrotto. George, come un piccolo Messia che ha compiuto il suo percorso terrestre, muore la notte di Natale del 2016, dopo essersi affacciato alla sua finestra della villa londinese e aver guardato passare la fiaccolata. Last Christmas. Un fottutissimo Last Christmas che ha privato il mondo dell’ennesimo angelo ribelle.
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Beneficenza
Il viaggio si chiude con un post scriptum. Per tutta la sua vita George non ha mai fatto sapere a nessuno di aver donato gratuitamente una marea di soldi in beneficenza. Si è venuto a sapere solo dopo la sua morte. Fra i beneficiari; il centro per la cura della Talassemia, poi donne che non riuscivano a partorire e avevano bisogno di cure costose, a poi al Sistema Sanitario Nazionale, l’NHS, alle suore cui una volta ha dedicato un concerto a porte chiuse. E a tanti altri. Un giorno in preda a una profonda crisi disse a un giornalista suo amico. “Sono un fottuto sballato, un drogato”. No, George, è che avevi un daimon troppo grande per essere contenuto in una piccola anima/mente umana. Un daimon che, se non creava capolavori, scalciava per uscire. Come un maledetto alieno che non si dà pace. Ci manchi George! God Bless You.
Adriano Angelini Sut