
Contro la pornografia letteraria del dolore
Politica culturale
Maura Baldini
Georg Trakl va sempre portato con sé, in pieno petto: la purezza di quei versi – aghi di cristallo, piuttosto: il sole in nuce – santifica perfino il giorno più truce.
“Nelle ore deserte dello spirito
è bello nel sole camminare
lungo le mura ingiallite dell’estate”.
E poi:
“Sgomenta il declino della stirpe.
In quest’ora colma lo sguardo stupefatto
l’oro delle sue stelle”.
E poi:
“Nel petto di Elis dolce risuona una campana
a sera,
il suo capo affonda nel cuscino nero.Un azzurro animale
sanguina lieve nel roveto”.
Cito dalla traduzione di Roberto Carifi – Canto del dipartito e altre poesie, Le Lettere, 1992 – non so se il più bravo (Trakl è stato tradotto, tra gli altri, da Giaime Pintor, Leone Traverso, Ervino Pocar, Ida Porena, Dario Borso), ma il più congeniale dei traduttori, imitandone a tratti i toni – irripetibili per levità e vigoria di sogno – nella propria opera.
Ne era certo perfino Ludwig Wittgenstein: Trakl “rende felice”, ma non va capito, a torto si leverebbe l’incanto dal collo di quei versi-ghepardi, rapaci e leggiadri assieme. Trakl, per sempre inerme di fronte alle economie del mondo, studi, d’obbligo, in farmacia, preferì fare a meno della somma – non esigua – che gli aveva donato il filosofo (Wittgenstein elargì denari in eccesso a lui, a Rilke, a pochi talentuosi altri, con il desiderio di liberarsi di tutto, finanche del proprio destino). Girò il denaro alla sorella, amata fino alla perdizione, Grete, quando era a Cracovia, poco prima di finirsi, era il novembre del 1914, aveva ventisette anni.
Martin Heidegger riconobbe in Trakl l’ultimo poeta dotato di crisma profetico; nel discorso La parola nella poesia (1953; 1959), dice, tra l’altro, il pensatore:
“La poesia di Trakl intona il canto dell’anima, che, quale ‘indole estranea sulla terra, consegue, in migrazione, la terra stessa nel suo tratto d’origine, riconoscendola come la più ferma e silente patria e casa della progenie rimpatriante. Trasognato romanticismo, lontano quindi dal mondo tecnico-economico del moderno esistere di massa? Oppure – il chiaro sapere del ‘dissennato’, il quale vede e sente altro rispetto ai cronisti dell’attuale?”
(in: Georg Trakl, Il canto dell’esule; Martin Heidegger, La parola nella poesia, Christian Marinotti Edizioni, 2003, a cura di Gino Zaccaria)
Poeta della dissoluzione per eccesso di candore: il ragazzo dallo sguardo smagliante fa presto a sminarsi in foglia, a smaniarsi in ombra, scheletrica fonte, elettrizzata dal canto. Ladislao Mittner vide il lui, in luogo della stanca didascalia (“espressionismo”)
“un classico, il solo vero classico della poesia tedesca del Novecento… Egli è un ‘classico’ alla maniera di Hölderlin; e lo è non per imitazione, ma per effetto dell’essenza più profonda dell’anima. Dopo Hölderlin, soltanto Trakl seppe maturare lentamente un proprio mondo poetico altrettanto coerente, denso e compatto e creare con ciò anche un proprio linguaggio”.
Poesia di elementi primi, ricorrenti, e di soggetti astrali – Elis, Helian –, di frasi che ricorrono, con sapienza da miniatore e da custode di dighe. Trakl forgia l’icona – il soggetto è sempre lo stesso per eccesso di profondità, per vertigine; il verso è sorgivo, ‘semplice’, e per questo enigmatico, solerte al mistero – laddove Rilke, confratello negli invisibili, si erge e si getta nell’ignoto, con le tigri al laccio. L’uno cura la terra, l’altro ara i cieli. Non era fatto per questo mondo, Trakl: il reame delle banche lo terrorizzava, la metropoli lo atterriva. Con parchi versi, che ammutoliscono per innocenza – ergo: per spietatezza –, intese vincere, e ne fu sopraffatto.
Nella breve prosa Verlassenheit – qui nella traduzione di Tommaso Filippucci – si rivelano i temi centrali di Trakl: il paesaggio, nitido fino all’inquieto, l’inesorabile rosa, l’incapacità di vivere se non come un “pazzo bambino”, nella piena delle cose trasfigurate; la percezione che un miracolo sovvertirà le cose – o la stasi, sorella dell’estasi, che tutto tarpa in cenere. La certezza che le nubi sono più concrete della pietra, che l’abbandono è bolo e baluardo.
Materia riflettente, prona alla fiamma, ogni parola va sorpresa, in Trakl: l’estensione del tremore la rende adatta alle unghie, prima che alla fuga.
***
Abbandono
Nulla più interrompe il silenzio dell’abbandono. Le nuvole si protraggono sopra le scure e antiche cime degli alberi e si specchiano nell’acqua verde-azzurra dello stagno, che pare abissale. Immobile, come sprofondata in cupa rassegnazione, riposa la superficie – giorno dopo giorno.
Al centro del taciturno stagno, si erge il castello verso le nuvole con logore e appuntite torri e tettoie. Le erbacce proliferano sulle nere e sgretolate pareti, e sulle rotonde e cieche finestre rimbalza la luce del sole. Nei tetri, oscuri cortili volano qua e là le colombe cercando un nascondiglio nelle fessure delle rovine. Pare sempre che abbiano paura di qualche cosa, perché timide e frettolose volano verso le finestre. Laggiù nel cortile gorgoglia lieve, raffinata la fontana. Di tanto in tanto si rifocillano le colombe assetate alla bronzea sorgente.
Per gli stretti e polverosi corridoi del castello, soffia a volte un cupo e febbrile refolo che fa frullare spaventati i pipistrelli. Null’altro disturba la profonda quiete.
Le stanze sono però di nero impolverate! Alte e spoglie e gelide e ricolme di oggetti morti. Dalle cieche finestre entra talvolta un piccolo e impercettibile barlume che l’oscurità assorbe di nuovo. Qui è morto il passato.
Qui, un giorno, si è raggelato in un’unica, distorta rosa. Noncurante passa il vento accanto alla sua irrilevanza.
E tutto permea il silenzio dell’abbandono.
Nessuno può più entrare nel parco. I rami degli alberi si trattengono in mille intrecci, l’intero parco è ormai un unico, gigantesco essere vivente.
Eterna giace la notte sotto l’enorme baldacchino di foglie. E profondo è il silenzio! E satura di fumi putrefatti è l’aria!
Talvolta, però, il parco si risveglia da pesanti sogni. E allora defluisce un ricordo di fresche notti stellate, di segreti luoghi profondamente reconditi, dove egli ha origliato febbrili baci e abbracci, di notti d’estate, infuocate di splendore e magnificenza, ove la luna evocava confuse immagini sul nero sfondo, di persone che aggraziate e galanti camminavano con movenze ritmiche sotto il suo baldacchino di foglie, sussurrandosi dolci e folli parole con fini sorrisi lusinghieri.
E poi il parco sprofonda nuovamente nel suo sonno mortale.
Sulle acque si cullano le ombre di faggi rossi e abeti e dalle profondità dello stagno giunge un cupo e triste mormorio.
Cigni si muovono tra le brillanti acque, lenti, inerti, sollevando rigidamente i propri esili colli. Si muovono! Intorno al castello morto! Giorno dopo giorno!
Pallidi gigli si ergono ai bordi dello stagno tra sgargianti erbacce. E le loro ombre nell’acqua sono ancora più pallide di loro stessi.
E quando alcuni muoiono, altri emergono dalle profondità. E sono come piccole mani di donna morte.
Grandi pesci nuotano curiosi, con occhi fissi e vitrei, intorno ai pallidi fiori, per poi rituffarsi nelle profondità – in silenzio!
E tutto permea il silenzio dell’abbandono.
Di sopra, in una screpolata camera della torre, siede il conte. Giorno dopo giorno.
Egli osserva le nuvole scivolare sulle cime degli alberi, luminose e pure. Lo entusiasma vedere il sole brillare tra le nuvole, la sera, quando esso tramonta. Origlia i rumori sulle alture: il grido di un uccello che vola davanti alla torre o il roboante mugghio del vento che avvolge il castello.
Vede come dorme il parco, cupo e pesante, e scorge i cigni muoversi tra le brillanti acque nuotando attorno al castello. Giorno dopo giorno! E l’acqua riluce di blu-verdastro. Ma nelle acque si specchiano le nuvole che sorvolano il castello; e le loro ombre brillano sulla superficie, radiose e pure, come loro stesse. Le ninfee lo salutano, come piccole mani di donna morte, e ondeggiano al soffice suono del vento, tristi e sognanti.
Il povero conte osserva tutto ciò che lo circonda, morente come un piccolo, pazzo bambino sul quale incombe un destino, e che non ha più la forza di vivere, che svanisce come l’ombra del mattino.
Origlia solo la piccola, triste melodia della sua anima: il passato!
Quando cala la sera, accende il suo vecchio, fuligginoso lume e, in possenti e ingialliti libri, legge la grandezza e la magnificenza del passato.
Legge con un febbrile e altisonante cuore, finché il presente, a cui non appartiene, non sprofonda. E le ombre del passato si innalzano – gigantesche. Ed egli vive la vita, la meravigliosa vita dei suoi padri
Nelle notti in cui la tempesta si accanisce contro la torre, così forte che i muri rimbombano nelle loro fondamenta e gli uccelli stridono impauriti fuori dalla sua finestra, il conte è sopraffatto da una tristezza senza nome. Sulla sua secolare e stanca anima pesa il destino. Ed egli preme il viso alla finestra e guarda fuori nella notte. E lì tutto gli pare enormemente onirico, spettrale! E terribile. E dal castello sente smaniare la tempesta, come se essa volesse spazzare via tutto ciò che era morto e disperderlo nell’aria.
Ma quando la confusa illusione della notte si accascia come un’ombra evocata – di nuovo tutto permea il silenzio dell’abbandono.
Georg Trakl
*La traduzione del testo è di Tommaso Filippucci