In Argentina la fine dell’anno è stata funestata da una polemica demente, del tutto in linea con il nostro tempo. Imbizzarriti dal delirio di cancellare, purificare, emendare ciò che non rientra nei canoni igienico-sanitari, psico-legali dell’oggi, alcuni hanno proposto di espellere Horacio Quiroga dalle antologie scolastiche delle scuole elementari.Quiroga, dicono i censori, è autore violento, muscolare, sottilmente misogino, che proclama un ostinato e infernale ‘ritorno alla giungla’. Soprattutto, parla di morte. Per dire ciò che ha detto Abelardo Castillo, un faro, un segugio, un genio della letteratura argentina recente, Quiroga “non ha scritto altro che della morte… la fascinazione e l’orrore della morte sono il grande tema della sua opera”. Nell’era morbosa, ammorbata dalla paura, che relega la morte a un accidente da argentare con scuse, ammissioni, ipotesi di oblio, è ovvio che Quiroga sia un problema. Tutti i suoi racconti, in effetti, dai Cuentos de la selva (un classico per l’infanzia) ai Cuentos de amor de locura y de muerte, da Anaconda a Los desterrados, costituiscono un problema: costringono a confrontarsi con la bestia, dentro e fuori di noi, con l’acribia delle paure celate, con il selvaggio, con l’irreparabile.
La polemica, per fortuna, si è placata: mettere in discussione Quiroga, però, fa supporre che prima o poi potrebbe essere eliminato per un colpo di mano dei moralisti. Il tema, piuttosto, è interessante: bisogna tutelare i bambini dalla morte, dalla violenza, dall’orrore? Macché! Le storie di Achille e di Odisseo, di Gilgamesh e di Abramo, di Mosè e di Artù sono irte di prove, di mostri, di morti. Chi dice di voler ‘proteggere’ i bambini, in verità, è un vile, protegge se stesso, oppure, peggio, desidera tradurre i bambini in innocui cittadini. Sul punto, comunque, ha detto tutto Isaac B. Singer, straordinario narratore – con un talento per la provocazione, sapiente nel dissigillare segreti nel fango – in un saggio che s’intitola I bambini sono i migliori critici letterari? “Nella nostra epoca, in cui l’arte di raccontare storie è stata dimenticata e rimpiazzata dalla sociologia amatoria e dalla psicologia d’accatto, il bambino è ancora un lettore indipendente che non si fida di altro che non sia il suo gusto… Non importa quanto siano piccoli, i bambini sono assai interessati alle cosiddette questioni eterne: chi ha creato il mondo? Chi ha fatto la Terra, il cielo, gli uomini, gli animali?… I bambini riflettono e si interrogano su questioni come la giustizia, il senso della vita, il perché del dolore”.
Una ramanzina analoga – ed egualmente cretina, brutale, idiota – è toccata a Paul Gauguin, in questo emisfero. I fatti sfiorano l’ipocrisia: il Courtauld Institute of Art, a Londra, mette a disposizione del pubblico una delle sue rarità, il manoscritto di Avant et après, l’autobiografia definitiva di Gauguin, “in parte memoriale, in parte manifesto… scritto nel 1903, l’anno della morte dell’artista, nella sua casa a Hiva Oa, alle Marchesi”. Il testo è un capolavoro contraddittorio – in Italia, come Prima o dopo, lo pubblica Castelvecchi, ma se volete qui lo leggete in originale –, un gioco, una brutale capriola nel gorgo del vivere, costellato da disegni a volte didattici, spesso audaci, sempre azzardati. Ceci n’est pas un livre, attacca Gauguin, dandosi alla domanda capitale: “La realtà non ci basta, per questo non possiamo fare a meno di scriverla?”. Naturalmente, nessuno s’è affannato a pubblicare quelle memorie, intrise di veleno. “Per tutta la vita mio padre ha insultato persone rispettabili, le provocava, deliberatamente”, ha scritto Émile Gauguin (1874-1955), il figlio di Paul, il quale, dal canto suo, non ha mai dimostrato un clamoroso amore filiale. Ora: l’istituto d’arte inglese, in calce alla delicata descrizione del prezioso manoscritto, ci avvisa che il medesimo “è costellato da numerosi esempi che testimoniano il razzismo e la misoginia dell’artista”, fitto com’è di “stereotipi razziali esotici”. Sul tema – l’“eredità ambigua” di Gauguin, fatta di “misoginia, turismo sessuale, pedofilia, appropriazione culturale” – lo “Spectator” ha dedicato un articolo, firmato da Laura Gascoigne, dal titolo esemplare: Is Gauguin redeemable? No. Would he have wanted to be redeemed? Absolutely not. La sola idea di redimere un artista dovrebbe farci rizzare i capelli e girare le palle: nessuno osa discutere l’arte di Gauguin, per altro, che fa incassare (mica incazzare) chi la detiene.
C’è un dettaglio che lega Quiroga e Gauguin, fino a determinare la loro singolare ricerca artistica. Entrambi hanno voltato le spalle alla modernità, all’uomo urbanizzato, alla città. Gauguin, questa specie di Beato Angelico polinesiano, ha messo svariati oceani tra sé e il suo paese; Quiroga si ritira a Misiones, nei pressi del Paraná, tra sentori di giungla. Lo scrittore si costruì una casa a San Ignacio, si prese cura dei figli, Eglé e Darío, insegnandogli a vincere la paura della giungla, di notte, a usare il fucile, ad andare in moto, a guidare una canoa, tra le ripide del fiume. Levigava i racconti con la stessa dedizione con cui costruiva canoe per i figli, Quiroga. La moglie, Ana María, esasperata dalla prossimità con la giungla, si uccise. Quiroga amava le ragazze molto più giovani di lui, morì nel 1937, in febbraio, massacrato da un cancro alla prostata. Gli ultimi anni, punteggiati da rare prostitute, adorate, li aveva vissuti da solo, a Misiones; all’ospedale di Buenos Aires chiese di poter ospitare nella sua stanza Vicente Batistessa, un giovane deformato dall’elefantiasi e rinchiuso nei sotterranei della clinica. Diventarono amici, sul chiavistello del dolore; si fece aiutare da Vicente compilando il proprio suicidio. Scrisse, sempre, di bestie selvagge, di amori maniaci e tristi, di morte e di miracolo, Quiroga, un autentico eversivo. Forse è per questo che l’editoria nostra, fiacca, lo pubblica poco e male: l’antologia Einaudi, Tigre per sempre, assai incompleta, è del 2016.
Quiroga & Gauguin – che sembrano uno l’anagramma dell’altro – sbeffeggiano per eccesso artistico il nostro mondo; non lo fuggono: lo sovrastano; non ne sono succubi: lo vincono. La loro arte, per nulla ornamentale, è una risposta alla frustrazione odierna, alla reiterata obbedienza.
“Paul Gauguin aveva considerato una prigione della natura umana l’edificio del pensiero razionalistico della società. La nostalgia per il primordiale, il barbarico, il primitivo lo costrinse ad abbandonare l’Europa e a cercare rapporti mitici e un’unione con le divinità e la natura nelle remote isole dei Mari del Sud. Al principio meccanico della civiltà contrappose lo spirito della natura. E al posto del virtuosismo collocò la forza vitale dei primitivi”, ha scritto Oto Bihalji-Merin in uno studio sui Primitivi contemporanei ovviamente introvabile. Victor Segalen, il poeta, stordito da Rimbaud, attraversò i mari per tentare Gauguin: arrivò a Tahiti poco dopo la morte dell’artista. “Gauguin fu un mostro.Non possiamo cioè farlo rientrare in nessuna delle categorie morali, intellettuali o sociali, che bastano a definire la maggior parte delle individualità”, ha scritto, e non c’è altro da dire. Un tempo si setacciava il mondo in cerca del mostro, oggi il mostruoso viene dileggiato, marginalizzato, delegato all’analisi psichiatrica e al ricovero medico, offeso; vogliamo, cioè, uccidere il mostro, l’eversivo, ciò che evade dai canoni, l’artista che costringe a fucilare di urla il giorno, a mettere in questione ogni cosa, perfino le ombre.