La prima sezione dell’opera Verità e Metodo (1960) del filosofo Hans Georg Gadamer è introdotta dal sottotitolo “messa in chiaro del problema della verità in base all’esperienza dell’arte”. Ad animare questa parte dell’opera è lo spirito polemico nei confronti di quella che Nietzsche ha definito la “malattia storica”, nella seconda delle sue Considerazioni inattuali. Parallelamente alla centralità acquisita dalle scienze naturali e dal loro metodo infatti, nell’Ottocento si sviluppò quella che Gadamer chiama coscienza estetica, che raggiunse il suo culmine con il pensiero di Schiller.
La pretesa delle scienze naturali è pretesa d’oggettività; ossia di condurre uno studio capace di raggiungere l’oggetto così per come esso è, senza che il soggetto, con le sue credenze, possa avere una qualche influenza sulla ricerca. È la pretesa di poter osservare senza star osservando, di “togliere” chi vede dall’atto del vedere; sicché alla fine si possa dare solo il “visto”, nella sua più nitida e pura verità.
Nietzsche è stato capace di dare un bello scossone a questa pretesa, che è pretesa di oggettività e quindi di verità (che “Dio sia morto” è esattamente questo che sta a significare: che è morta la verità per come essa è sempre stata intesa); e questo pensiero (seppur sacro, necessario) ha portato a non pochi pericoli di relativismo. Non è di Nietzsche però, colui di cui si vuol qui parlare, se non nella misura in cui egli ha favorito e inaugurato una riabilitazione delle cosiddette scienze dello spirito (le nostre scienze umanistiche).
L’equivalenza istituita dalle scienze naturali infatti (verità = oggettività) ha inevitabilmente portato al misconoscimento delle scienze umanistiche, che di tale verità non potevano disporre; poiché essendo “umanistiche” era insita loro stessa conformazione la prerogativa di coinvolgere il soggetto. Infatti le scienze dello spirito, in quanto dello spirito, non possono e non vogliono escludere il soggetto dall’atto d’osservazione; e quindi non possono attingere a supposta oggettività/verità che invece le scienze naturali sostengono di poter guadagnare (e questo è tutto da vedere). L’esperienza estetica – disse l’Ottocento – non può essere vera o falsa, buona o cattiva, in quanto essa non ha nulla a che vedere col reale (descritto invece dalle scienze della natura) ma solo piuttosto con una dimensione onirica, dell’apparenza e del sogno. Ma, scrive Gadamer:
“L’arte non ha davvero nulla che fare con la conoscenza? Non c’è nell’esperienza dell’arte una rivendicazione di verità, diversa certo da quella della scienza, ma altrettanto certamente non subordinabile ad essa? E il compito dell’estetica non è proprio quello di fondare teoreticamente il fatto che l’esperienza dell’arte è un modo di conoscenza sui generis, diversa beninteso da quello della conoscenza sensibile che fornisce alla scienza i dati sulla cui base essa costruisce la conoscenza della natura, diverse altresì da ogni conoscenza morale della ragione e in generale da ogni conoscenza concettuale, ma tuttavia pur sempre conoscenza, cioè partecipazione di verità?”
Ma cosa vi è di vero, di reale, nell’esperienza estetica? Nel vedere un quadro o nel leggere un libro? Per capirlo è necessario abbandonare quell’equivalenza delle scienze naturali che vede nell’esperienza oggettiva l’unica esperienza di verità possibile. E l’esperienza dell’arte non è oggettiva: leggendo la stessa poesia uomini diversi fanno esperienza diverse. Ma l’esperienza dell’arte mostra la sua verità (e quindi il suo legame col reale, e non la fuga da quest’ultimo) nel momento in cui la modifica, ossia modifica il reale. Leggere un libro “mi cambia la vita” nella misura in cui cambia il mio sistema di credenze, il mio modo di percepire e stare al mondo. E cosa sono “io” se non parte della realtà, e suo costituente?
Si tratta, da ultimo, di ripensare un’idea di verità che non veda l’uomo escluso dal suo dominio. Come se la verità fosse là fuori e si trattasse solo di allungare la mano e prenderla; ma chi allunga la mano e chi prende? E questo, badare bene, non vuol dire soggettività, relativismo; come se ognuno fosse chiuso ermeticamente nella sua prospettiva di verità; giacché quel che è indispensabile comprendere è che non c’è (strettamente parlando) un “suo”, un “mio”, ma solo un “nostro”. Ed è proprio questo aspetto che la coscienza estetica dell’Ottocento (e l’individualismo cui ha portato) ha perso, e che si tratta di ricostruire.
Bianca Cesari