19 Gennaio 2021

Con Che Guevara a Cuba e sull’Himalaya insieme ai Beatles: gli articoli di Furio Colombo, un antidoto all’orrore dello “storytelling”

Un articolo di giornale vive talvolta due vite: la prima è quella della pubblicazione, l’altra quando lo si raccoglie, anni dopo (ma non sempre) in volume. Nella sua prima vita si mescola e si confonde con la cronaca e il fango del tempo e spesso si perde; nella seconda lo si salva. Il tempo in questo caso lo affina. In volume luccica e dialoga con altri testi e scritti dell’autore: allora le storie raccontate cambiano, assumono una dimensione storica e umana diversa. Questo è quello che è succeso agli articoli di Furio Colombo ora raccolti in La scoperta dell’America, Aragno editore (15 euro spesi bene), a cura di Alberto Sinigaglia, che firma l’introduzione, e Silvia Jop che racconta in postfazione la sua biografia.

La vita di Furio Colombo è già un romanzo di per sé, come potete leggere nell’introduzione e nel racconto di 14 capitoletti magistrali, intitolato Riassunto delle puntate precedenti dove l’autore narra la sua formazione: l’infanzia sotto il fascismo, la scuola, l’adolescenza insieme a Sanguineti, l’incontro con Umberto Eco e Gianni Vattimo al primo concorso della Rai nel 1956, prima del salto alla scuola di Olivetti e poi verso l’America anche per conto dell’avvocato Agnelli. Gli articoli sono un esempio di giornalismo in presa diretta, di un testimone che scrive la sua biografia nel teatro del mondo nella seconda metà del Novecento. Colombo è in casa della signora Roosevelt in un lungo reportage pubblicato su “Il Mondo” di Pannunzio nel 1961; è all’Avana insieme a Jean Paul Sartre, Simone de Beauvoir e Françoise Sagan il 31 dicembre 1961 per festeggiare con Che Guevara e Fidel Castro il primo anno della rivoluzione, come narra in un articolo ripreso da “II Fatto Quotidiano” nel 2017, ed è con i Beatles sull’Himalaya nel 1968. “Siamo tutti in pericolo” è il titolo memorabile dell’ultima intervista a Pasolini uscita qualche giorno dopo la sua morte, l’8 novembre del 1975 su “Tuttolibri”. Da questo breve elenco si capisce come i curatori abbiano lavorato nel mettere insieme articoli e scritture diverse, dal pezzo di cronaca al reportage, dalla recensione al fondo di taglio politico, vedi L’America e i servizi segreti uscito su “La Stampa” nel 1977, che dimostra la duttilità di Colombo nel muoversi su diversi piani. Non voglio nemmeno ripercorrere le tappe fondamentali della carriera di un giornalista impegnato nel cercare nuove forme di comunicazione, nuove idee per un giornalismo che deve adeguarsi ogni volta al mutare dei tempi: è stato collaboratore de “Il Mondo”, ha contribuito a creare “Tuttolibri” per “La Stampa”, è stato direttore de “L’Unità” dal 2000 al 2004, ha diretto l’edizione italiana della “New York Review of Books” e insieme è tra i fondatori de “Il Fatto Quotidiano”. Furio Colombo è stato uno dei protagonisti di una stagione ricca e felice del giornalismo italiano. Ma di lui voglio parlare soprattutto come scrittore.

Mentre ci allontaniamo, decennio dopo decennio, da un Novecento sempre più tragico e comico insieme, si sente il bisogno di riscriverlo e ripensarlo per capire non solo il nostro presente ma per ritrovare anche il senso e una bussola per il futuro. Questo libro conferma che il Novecento letterario va ripensato in una chiave nuova, dove i confini tra letteratura e giornalismo sono così sfumati che il canone che ci viene insegnato a scuola è vecchio e tarlato. Manca nelle antologie o nelle storie della letteratura tutta la tradizione, per esempio, dell’umorismo, e poi quella ricchissima di scritture che vivono sulla carta di quotidiani e settimanali. Per saggiare la prosa di Colombo provate a leggere con attenzione, come dicevo, Riassunto delle puntate precedenti, un racconto esemplare, diviso in capitoletti, dove la chiusura ad effetto non è mai affettazione, volontà di stupire, ma aggiunge sempre qualcosa, come un turbamento emotivo. Resta nella memoria la figura del compagno di banco, figlio del federale, vicino al corpo del padre giustiziato. Sta qui la differenza tra lo scrittore e il giornalista che vuole stupire a tutti i costi, come capita sempre più spesso ai giovani che seguono le regole dell’obbrobrioso “storytelling”. Leggere Furio Colombo riconcilia con il giornalismo che fa della scrittura il suo primo fondamento, ma senza mai artificio, con l’intelligenza e la chiarezza che contraddistinguono il testimone vero. Un’etica che si fa sguardo, dove il giornalismo nelle sue diverse forme è un salutare reagente chimico tra l’io e la realtà.

Questo libro dovrebbe diventare uno dei manuali in uso alle scuole di giornalismo. Lo dico perché uno dei mali dei giornali di oggi è quello di aver perso il senso delle sue origini, della sua storia, dei progetti di successo (che potrebbero aiutare tantissimo a ritrovare lettori), e di quelli mancati, come il famoso “Italia domanda” di Zavattini che pensava di rieducare gli italiani dopo la tragedia della seconda guerra mondiale: un’idea di ricostruzione del paese attraverso i giornali rasenta l’utopia. Oggi, di fronte a tanto giornalismo letterario trasformato in marketing imbellettato, anche l’idea di riannodare le fila della storia di un giornalismo “educativo” rispetto all’analfabetismo di ritorno, potrebbe diventare una strada dagli sviluppi imprevedibili.

Il titolo La scoperta dell’America da parte di un Colombo che non sia Cristoforo è volutamente ironico, mette in luce come il mito americano sia stato una costante nel destino dello scrittore, anche se non dà ragione della complessità e delle possibili letture. Il volume raccoglie interviste anche a Volponi, a Pasolini e ad Alberto Arbasino, (di quest’ultimo c’è antologizzato nel libro il ritratto di Furio Colombo) o del bellissimo cammeo di un Goffredo Parise misterioso, all’apparenza scontroso, alla RAI, nei primi anni Cinquanta. E non rende giustizia del Furio Colombo lettore e critico che passeggia tra le pagine degli autori amati, un lettore raffinato di opere come quelle di Philip Roth e dell’amico Arbasino. Il lettore si divertirà leggendo degli incontri con Frank Sinatra e Muhammad Ali, con Andy Warhol e Woody Allen, con Susan Sontag e Bob Dylan, ma diventa magistrale quando narra quello in trattoria con Tom Wolfe in un ritratto-intervista a tutto tondo. Un modello. Nel ricordare l’incontro con Rothko, nel suo vecchio studio di New York, Furio Colombo insegna a muoversi anche tra le trappole della memoria.

C’è da imparare e da divertirsi perché Furio Colombo è uno scrittore prestato al giornalismo e usa i generi diversi come obiettivi per mettere a fuoco il mondo. La nitidezza della sua scrittura è il risultato. Non c’è mai una sbavatura, un aggettivo di troppo, un pensiero fuori posto.

Quando leggo un pezzo sul giornale penso sempre a come lo potranno leggere fra vent’anni, se può meritare un’antologia. Si dovrebbe avere la stessa prospettiva anche quando si scrive? Quando facevo il giornalista un vecchio direttore mi ammoniva a non fare mai letteratura, ricordandomi che il giorno dopo la carta si usava per avvolgere il pesce o, arrotolata, sarebbe servita per tenere in forma le scarpe vecchie nell’armadio. (Nell’epoca dei quotidiani on line si è persa, ahimè, anche questa seconda vita dei giornali!) Confesso che questa bella antologia, e le mie ricerche negli anni, hanno smentito ampiamente il mio vecchio direttore.

Guido Conti

Gruppo MAGOG