Rileggo la Seconda lettera di Pietro, ha alcuni passi sconvolgenti. “Verrà come un ladro il giorno del Signore, i cieli si dissolveranno nel fuoco in un sibilo, e la terra e le sue opere saranno trovate. Tutto sarà dissolto, per questo dovete vivere come santi, in pietà, in attesa, affrettando il giorno di Dio in cui i cieli saranno incendio, e gli elementi, consumati dal fuoco, liquefatti” (3, 10-12). Il Giorno arriva come un ladro: cosa deve rubare? Dio, di certo, è un agguato: la sua luce ci è notte. Nei giorni che preparano la Nascita, la liturgia propone la dissoluzione, la fine; il battesimo, d’altronde, accade per fuoco, dopo l’acquazzone di fiamme i discepoli imparano il verbo – in Pentecoste le lingue diventano candele. “Sono venuto a gettare il fuoco sulla terra”, dice Gesù, secondo Luca (12, 49). D’altronde, il Bambino è un falò – avere fede, dunque, è un furto.
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Tutto sarà dissolto o dissotterrato?
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Che la lettera di Pietro non sia di Pietro, ultimo fuoco attorno a cui si raccoglie la comunità di Cristo, consegna a quell’incendio celeste qualcosa di definitivo – il crepitio sembra suggerire una via, una svolta.
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Nella Seconda lettera Pietro – o chi per lui –, piuttosto, è scottato, sulla soglia della sconfitta. Dio sembra non arrivare più, la venuta sfinisce le attese, la promessa di Gesù è oltre ogni ritardo (“alcuni parlano di lentezza”), il sepolcro è vuoto, come una stimmate: rimbomba un rito alieno. Gesù, si dubita, è puro, pietoso, pezzo di carne in Croce, senza metro divino. “Un giorno presso Dio è come mille anni”, dice Pietro – e annuncia, che immagine, i cieli, come pezzi di carta, sbriciolati dal fuoco. Dai profeti antichi a William Blake e Dylan Thomas, la grande poesia è in quel “sibilo” – o fischio, o ghigno – in cui i cieli si dissolvono. Forse i poeti si dividono così: tra quelli che credono nel Giorno, nel fuoco, e vi si avventano, e quelli che stanno nella nostalgia della promessa scaduta, sbiadita.
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L’acqua è fuoco. Chi pratica il mare, di notte, lo sa: l’acqua ustiona. Garantisce una improvvisa incolumità termica: esaurisce tutti i fuochi del corpo. Quando Alessandro Manzoni dice di “risciacquare in Arno” il suo libro, in realtà lo passa al vaglio del fuoco. Ogni opera è giustificata dal fuoco.
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“Eppure, malgrado le certezze ufficiali, il senso della precarietà del mondo e la minaccia di totale distruzione che incombe dilagano ovunque: se è storicamente fallita l’attesa cristiana della vicinissima parusia del Signore, anche tutte le altre speranze, sorte dietro quella, dietro quella sono ormai fallite”, Sergio Quinzio. Non ci è detto che un giorno il mondo svanirà nel fuoco, per volontà della stella?
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Ma il poeta pone il fuoco nel fallimento.
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La storia di Nikolaj Gogol’ è costellata da falò. Solo ciò che sopravvive al fuoco, si erge dalle fiamme, lapidario, è degno di lettura. Gogol’ muore dopo l’ultimo, definitivo, fuoco: prima ardeva, ora è cenere. Il suo viso va per polverizzarsi. “Dopo la distruzione delle sue creazioni, il pensiero della morte come qualcosa di prossimo, necessario, ineluttabile, gli si infisse profondamente nell’anima e non lo lasciava nemmeno per un istante” (A.T. Tarasenkov). “Non posso che essere grato all’ispirazione che mi è venuta quando ho distrutto le Anime morte”, continua a scrivere, con reiterata rabbia, Gogol’, finché le pupille non divergono in braci. Vuole qualcosa da piangere per sempre – il pianto, questo riassunto evanescente del falò. Nel fuoco che bruciava il manoscritto delle Anime morte, parte seconda, Gogol’ ammirava il Giorno.
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Il poeta deve consegnarsi al fuoco per liquidare, liquefare la propria opera, per sigillarla in incendio. Le mani a cui si cede – l’opera non va pubblicata, ma passata – sono fuoco anch’esse: le dita fluttuano come una marea di fiamme. (d.b.)
*In copertina: William Turner, “L’Incendio delle Camere dei Lord e dei Comuni”, 1835