Scipione, il pittore che con 10 poesie cambiò la letteratura italiana
Cultura generale
Andrea Caterini
Rileggo la Seconda lettera di Pietro, ha alcuni passi sconvolgenti. “Verrà come un ladro il giorno del Signore, i cieli si dissolveranno nel fuoco in un sibilo, e la terra e le sue opere saranno trovate. Tutto sarà dissolto, per questo dovete vivere come santi, in pietà, in attesa, affrettando il giorno di Dio in cui i cieli saranno incendio, e gli elementi, consumati dal fuoco, liquefatti” (3, 10-12). Il Giorno arriva come un ladro: cosa deve rubare? Dio, di certo, è un agguato: la sua luce ci è notte. Nei giorni che preparano la Nascita, la liturgia propone la dissoluzione, la fine; il battesimo, d’altronde, accade per fuoco, dopo l’acquazzone di fiamme i discepoli imparano il verbo – in Pentecoste le lingue diventano candele. “Sono venuto a gettare il fuoco sulla terra”, dice Gesù, secondo Luca (12, 49). D’altronde, il Bambino è un falò – avere fede, dunque, è un furto.
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Tutto sarà dissolto o dissotterrato?
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Che la lettera di Pietro non sia di Pietro, ultimo fuoco attorno a cui si raccoglie la comunità di Cristo, consegna a quell’incendio celeste qualcosa di definitivo – il crepitio sembra suggerire una via, una svolta.
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Nella Seconda lettera Pietro – o chi per lui –, piuttosto, è scottato, sulla soglia della sconfitta. Dio sembra non arrivare più, la venuta sfinisce le attese, la promessa di Gesù è oltre ogni ritardo (“alcuni parlano di lentezza”), il sepolcro è vuoto, come una stimmate: rimbomba un rito alieno. Gesù, si dubita, è puro, pietoso, pezzo di carne in Croce, senza metro divino. “Un giorno presso Dio è come mille anni”, dice Pietro – e annuncia, che immagine, i cieli, come pezzi di carta, sbriciolati dal fuoco. Dai profeti antichi a William Blake e Dylan Thomas, la grande poesia è in quel “sibilo” – o fischio, o ghigno – in cui i cieli si dissolvono. Forse i poeti si dividono così: tra quelli che credono nel Giorno, nel fuoco, e vi si avventano, e quelli che stanno nella nostalgia della promessa scaduta, sbiadita.
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L’acqua è fuoco. Chi pratica il mare, di notte, lo sa: l’acqua ustiona. Garantisce una improvvisa incolumità termica: esaurisce tutti i fuochi del corpo. Quando Alessandro Manzoni dice di “risciacquare in Arno” il suo libro, in realtà lo passa al vaglio del fuoco. Ogni opera è giustificata dal fuoco.
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“Eppure, malgrado le certezze ufficiali, il senso della precarietà del mondo e la minaccia di totale distruzione che incombe dilagano ovunque: se è storicamente fallita l’attesa cristiana della vicinissima parusia del Signore, anche tutte le altre speranze, sorte dietro quella, dietro quella sono ormai fallite”, Sergio Quinzio. Non ci è detto che un giorno il mondo svanirà nel fuoco, per volontà della stella?
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Ma il poeta pone il fuoco nel fallimento.
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La storia di Nikolaj Gogol’ è costellata da falò. Solo ciò che sopravvive al fuoco, si erge dalle fiamme, lapidario, è degno di lettura. Gogol’ muore dopo l’ultimo, definitivo, fuoco: prima ardeva, ora è cenere. Il suo viso va per polverizzarsi. “Dopo la distruzione delle sue creazioni, il pensiero della morte come qualcosa di prossimo, necessario, ineluttabile, gli si infisse profondamente nell’anima e non lo lasciava nemmeno per un istante” (A.T. Tarasenkov). “Non posso che essere grato all’ispirazione che mi è venuta quando ho distrutto le Anime morte”, continua a scrivere, con reiterata rabbia, Gogol’, finché le pupille non divergono in braci. Vuole qualcosa da piangere per sempre – il pianto, questo riassunto evanescente del falò. Nel fuoco che bruciava il manoscritto delle Anime morte, parte seconda, Gogol’ ammirava il Giorno.
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Il poeta deve consegnarsi al fuoco per liquidare, liquefare la propria opera, per sigillarla in incendio. Le mani a cui si cede – l’opera non va pubblicata, ma passata – sono fuoco anch’esse: le dita fluttuano come una marea di fiamme. (d.b.)
*In copertina: William Turner, “L’Incendio delle Camere dei Lord e dei Comuni”, 1835