“Questa pretesa che si debba leggere tutto da cima a fondo – a pensarci bene – mi sembra rimandare a un rapporto con i libri un po’ ingenuo, certamente idealizzato, proprio di chi la lettura non la frequenta poi molto. Come quegli stupefatti visitatori raccontati da Eco in una delle sue più divertenti Bustine di Minerva, quelli che davanti agli scaffali gremiti della sua biblioteca chiedevano invariabilmente: «Ma li ha letti tutti?»”.
(Stefano Petrocchi alla conferenza stampa di annuncio dei libri candidati al Premio Strega, 5 aprile 2024)
Bene, è forse venuto il momento di dire qualcosa su questa settantottesima edizione del Premio Strega – i cui esiti, come da tradizione, appaiono già stabiliti anche stavolta – e sulla serie di polemiche che ne è inevitabilmente scaturita. Innanzitutto, vediamo che quest’anno il battaglione degli “Amici della domenica” ha avuto il fegato di raccogliere la bellezza di 82 (ottantadue) libri di narrativa italiana, pubblicati tra il 1° marzo 2023 e il 29 febbraio 2024, per valutarli (e “valutare” dovrebbe implicare il leggerli) entro i primi di aprile, e deciderne l’inserimento o meno nella rosa dei dodici candidati al Premio. Ciò significa che una massa di ventimila pagine di prove letterarie doveva essere letta e giudicata nel giro di un mese da qualche centinaio di volenterosi – e superdotati – Amici della Domenica. No, non ridete, vi assicuriamo che è vero. È ovvio che leggere in un tempo così breve tutti quei libri presentati è impossibile, e qui viene a fagiolo l’affermazione fatta in conferenza stampa dal direttore della Fondazione Bellonci, Stefano Petrocchi, riportata in epigrafe. Una specie di metter-mani-avanti per rassicurarci: «Non sarete così ingenui da pensare che siamo andati a leggere tutta quella roba, vero?». No, direttore, non siamo così ingenui, si tranquillizzi. Sappiamo bene che la cernita dei dodici titoli che andranno a concorrere al Premio è avvenuta in modo molto pratico, ben illustrato dal primo autore elencato nella lista degli 82, Fulvio Abbate, che presentava il suo (superbo) romanzo Lo Stemma, edito da La nave di Teseo.
Fulvio Abbate è entrato subito nel mirino dell’organizzazione del Premio per aver proposto – essendo fra gli Amici della Domenica da più di vent’anni – il proprio romanzo autonomamente, senza avvalersi di un presentatore come di prammatica, e si è visto respingere l’autopresentazione perché sarebbe in contrasto con il regolamento. Poi, Lo Stemma è stato presentato dalla scrittrice Sandra Petrignani, dunque è entrato nella lista delle proposte, ma senza prospettive né intenzione di essere selezionato, come ha raccontato lo stesso Abbate su l’Unità:
«proviamo a immaginare più semplicemente in che modo possa essersi svolta la discussione tra i membri del comitato organizzatore. S’intende in presenza degli 82 libri da selezionare, incredibilmente lì impilati come ziggurat in attesa di responso: questo sì, questo no, questo ‘sticazzi, questo ci dispiace molto e certamente bisognerà scusarsi con l’autore, questa e questo sono amici di Veltroni e pure a questi dovremo chiedere perdono, questa ci deve stare per forza, questa è amichetta nostra… Tutti romanzi, presentati, si sappia, dai cosiddetti “Amici della domenica” in ossequio al regolamento del premio».
Abbate ha così spigolato nella vox populi dei commentatori che sul social hanno chiosato la sua discussione:
«Come s’immaginava, una scrematura necessariamente pilotata dalle esigenze del sistema. Quanto alle previsioni, direi che se si afferma il potere personale oggi acquisito vincerà Chiara Valerio, se invece si prepone la politica di potenza – destinando la Valerio al Campiello, come è stato suggerito – avremo un titolo Einaudi (per non far dimenticare chi comanda)».
A questo punto abbiamo interpellato l’autore, per vederci meglio in questa querelle che infiamma la discussione pubblica per giorni.
Abbate, cominciamo con la sua “autocandidatura” al Premio Strega 2024. Più che una provocazione è stato un atto rivoluzionario, se vogliamo, o quantomeno politico, come esito dell’avversione per la «dimensione amichettistica – per usare le sue parole – che determina il Premio da sempre». Lei ha fatto un passo che nessun autore farebbe mai, ma che molti vorrebbero poter fare: si è rotta quella specie di tabù di stampo piccolo-borghese, da timorati, per mettere a nudo ciò che sappiamo si nasconde e si dissimula per mantenere la facciata e far sembrare ciò che non è.
È stato in realtà un atto di amor proprio, doverosamente narcisistico, sentimento d’obbligo per ogni artista, nel senso che, personalmente, come sempre ripeto, rispondo solo a me stesso: sono una testa di ca**o ma lo sono in proprio, mai per conto terzi. Di conseguenza, conoscendo i meccanismi di cooptazione del premio, così come dell’intero sistema letterario-editoriale, ho voluto – diciamo –darmi in pasto alla subalternità altrui attraverso questa iniziativa, certo avrebbero riferito il mio dissenso a una presunta “invidia” o peggio ancora, con lessico da plebe social, “rosicamento”. Il contesto letterario d’altronde è segnato da un bigottismo piccolo-borghese, assente a ogni possibile eros. Già dieci anni fa, avevo comunque denunciato che Francesco Piccolo prevedibilmente avrebbe vinto lo Strega, un esito già scritto. L’ho detto in faccia a tutti proprio nel salotto di casa Bellonci, l’ho urlato in faccia ai presenti ciò che sarebbe accaduto. Devo a quel mio gesto se ho ristabilito il rapporto con Elisabetta Sgarbi, già mio editor alla Bompiani, lei è stata l’unica a venire verso me, proprio un istante dopo che avevo urlato l’orrore che provavo, dicendomi: “Hai ragione, è proprio come dici tu”. Insomma, “ribellarsi è giusto”, tacere è sempre un crimine contro se stessi, l’ho imparato quel giorno.
La sua iniziativa, sfacciata se vogliamo, la vediamo non come un atto di coraggio, parola impropria, ma come un atto di libertà, il non voler farsi condizionare da queste convenzioni che ingabbiano tutti i comportamenti. Il Francesco Piccolo di quello Strega 2014 era proprio un caso da manuale, l’avevano capito più o meno tutti: era spesso nel salotto televisivo di Fabio Fazio, quasi gli faceva da spalla, la sua presenza sui media era invasiva, anche politica, come rappresentante di quella sinistra glamour bella-e-vincente. Da quello si capiva che si sarebbe preso il Premio, anche dallo sguardo rapace che non riusciva a dissimulare.
Posso dire soltanto che il mio punto di rottura con la sinistra ufficiale risale a quando Concita De Gregorio, giunta alla direzione de l’Unità, ha cancellato, primo suo atto, la mia firma dal giornale. Da quel momento ho detto a me stesso d’essere anzitutto un artista e che mai più – ammesso che lo abbia fatto in precedenza – avrei dato la mia delega, ancor meno in bianco, in nome di una presunta ragione etica e politica superiore.
Quale fu il motivo di questa esclusione, quale incompatibilità poteva essere così condizionante?
Semplice, vanno esclusi gli “ingestibili”. Si preferiscono persone che possano essere amministrate secondo un criterio, diciamo, ordinatore. Alla base di tutto questo ciò che ha rappresentato, e tuttora rappresenta, la dimensione amichettistica che dobbiamo a Walter Veltroni. Parte tutto da lì. Occorre invece – parafrasando Elio Vittorini – “non suonare il piffero” per nessuno. Per amor proprio, per doveroso narcisismo, altrimenti meglio aprire un Caf e non scegliere di essere ciò che si è apprezzando innanzitutto la complessità delle cose.
Da tempo lei cita Walter Veltroni, il cui portato di figura acchiappa-potere – mantenuto graniticamente – ci è ben nota. Si è fatto un cinema a sua misura, influenzando pure quello degli altri, poi ha imposto la sua narrativa di consumo, beninteso dopo aver fallito la politica. Data la sua influenza capillare, come possiamo definirlo, grande burattinaio, eminenza grigia? In un vecchio articolo su MicroMega – parliamo di qualche decennio fa – si racconta che da giovane lo chiamavano “testa a pera”.
Guardi, basti vedere i servizi per Le Iene di Enrico Lucci, quando prova a intervistare le persone invitate alla prima di un film o di un libro di Veltroni, e tutti si sentono in dovere di dirne ogni bene. Ecco, lì c’è la prova provata del suo potere. Nessuno che si azzardi mai a dire che il re è nudo. Enrico Lucci mi ha confessato di pensare proprio a me ogni qualvolta fa un servizio su Veltroni. Aggiungo una cosa: sono piuttosto orgoglioso di avere messo al mondo del discorso, con le mie sole piccole forze, una parola chiara che descrive certo mondo: amichettismo. A dispetto di tutto la parola, vista la sua evidenza nella discussione politico-culturale, è stata subito indicizzata dalla Treccani e dall’Accademia della Crusca, s’intende attribuendone la paternità alla mia persona.
Per questo non possiamo che esserle grati, è un neologismo che ha trovato il suo posto proprio dove mancava, un nuovo tassello nella definizione della contemporaneità socio-culturale nostrana, soprattutto sinistrorsa.
L’amichettismo, al quale ho dedicato un pamphlet scaricabile gratuitamente dalla rete, lo si trova, fra l’altro, su Mowmag, è una forma di complicità adolescenziale, presuntamente edificante, massoneria d’autore in Birkenstock. Ditalini e dildi d’autore, o presunti tali. Non va confuso con il familismo, quest’ultimo appartiene infatti storicamente a una dimensione clientelare nella sua tradizionale immanenza. L’amichettismo è invece riferibile a un contesto “di sinistra” segnato da figure, almeno ai miei occhi ora segnatamente autoritarie, “badesse” del catto-comunismo come Michela Murgia o tragicamente risibili come Chiara Valerio, sorta di Scaramacai della presunzione letteraria, dove si cita Simone Weil come fosse Lady Oscar. Cancellando così ogni spessore e pulsione dialettica, concretamente intellettuale. Mostra un mondo che con orgoglio afferma di essersi formato appunto sui manga giapponesi, Occhi di gatto e, già citato, Lady Oscar, e ancora sui videogiochi anni Novanta come Monkey Island, un mondo speculare a quello di Elly Schlein.
Infatti, Valerio e Schlein paiono avere la stessa matrice, per questo vanno a braccetto. Valerio è una sorta d’intellettuale-omnibus, perfettamente organica alla piattaforma programmatica del nuovo corso del PD. Poi compare in ogni anfratto culturale di sinistra, dal Salone del Libro a Più libri più liberi, puntando alla meta del Consiglio d’amministrazione Rai.
Non è un caso che la Schlein voglia candidare alle prossime europee nella lista del Partito democratico Chiara Valerio o imporla nel cda della Rai. Davanti a questo non resta che l’area dell’astensione, né potrei votare ciò che resta della piccina galassia post-comunista espressamente filo-putiniana. La mia posizione è dunque molto semplice: non in mio nome, non è affar mio farmi carico delle rendite di posizione professionali altrui. Nessuno potrà più ricattarmi sostenendo che “altrimenti si apre la strada dell’orda fascista”. Mettano le loro amichette e i loro amichetti a fermarla.
Avendo citato Veltroni, e avendo citato Michela Murgia con la sua ancella-consociata Chiara Valerio, che oggi riteniamo il tentativo di prosecuzione “con altri mezzi” della spinta ideologico-egemonica murgiana, si può parlare di una mossa di affrancamento dalla longa manus pluridecennale di Veltroni nella sfera culturale? Ci vede il tentativo di un rinnovamento delle posizioni di potere in chiave femminile-gay-queer e unicorni allegati?
Ma no, il contesto di riferimento è il medesimo, ancora una volta c’è una linea puntinata che unisce tutto l’insieme: Radiotre, Più libri più liberi, la stessa Repubblica e molto altro ancora. Non ho sentito dire a queste persone una sola parola che fosse dissonante rispetto al conformismo dominante, e occorre aggiungere l’invisibilità, l’inesistenza ormai d’ogni critica politica in ambito letterario, zero.
E mentre si cammina su questa linea, lungo questo contesto pieno di connessioni, s’inciampa in Marino Sinibaldi: tu cammini, sbatti contro qualcosa, guardi e – toh – è Marino Sinibaldi che fa la vittima per non esser stato riconfermato per l’ennesima volta in qualcuna delle sue posizioni.
Su Sinibaldi ho già detto. Posso aggiungere che quando ho raccontato che Michele Serra, insieme alla sua consorte, ha realizzato un brand di profumi, “Serra & Fonseca” – Eau de Moi, il nome – mi son sentito dare del “fascista” proprio da Serra spalleggiato da Marino Sinibaldi, è accaduto al Salone del Libro di Torino.
Veda un po’ come sono fragili queste persone, hanno il terrore che qualcuno scalfisca la loro aura di impegno civile.
Pensi, Roberto D’Agostino, quando ha letto il mio articolo, pensava l’Eau de Moi, esattamente il profumo prodotto da Michele Serra con Giovanna Zucconi, fosse una mia invenzione, neppure lui si capacitava che fosse tutto vero. Siamo oltre ogni forma di ridicolo. Un altro anello di congiunzione della loro risibilità? Il cameo di Chiara Valerio nell’ultimo film – assai modesto – di Nanni Moretti, “Il sol dell’avvenire”. Se, come nel gioco della Settimana Enigmistica, unisci tutti i punti esce appunto una penosa costellazione di ditalini edificanti.
Sulla lista dei libri proposti dagli Amici della Domenica per questa edizione dello Strega, un numero praticamente abnorme…
Ma questo è irrilevante: come dico sempre, se Veltroni lo decide, anche un volantone del Pam o della Coop può vincere lo Strega. Il problema non è la lista, non è la qualità, prevale semmai la prossimità amichettistica, e la femminilizzazione del consenso. Come avevo preannunciato scrivendone su l’Unità, era chiaro fin dall’inizio chi sarebbe stato incluso nei dodici da cui verrà fuori la cinquina finale. Non ho mai pensato che Lo Stemma sarebbe stato nella dozzina, assolutamente.
Ci chiediamo, però, se nel 2017, quindi non molto tempo fa, le proposte degli Amici della domenica erano ventisette, nel 2021 diventano settantaquattro e oggi arrivano a ottantadue: lei cosa vede in questa evoluzione bulimica, soprattutto lasciando un tempo così esiguo per poterli valutare in maniera equa? Ha senso?
Questo fatto mi lascia indifferente, un tempo gli Amici della Domenica erano quattrocento, adesso molti di più, ma, ripeto, è noto già dall’inizio chi sarà nella rosa finale. Forse però qualcosa si sta muovendo: appare sempre più chiaro che il gioco è truccato; resta su tutto che parlare del Premio Strega prendendolo ancora sul serio uccide ogni ironia necessaria, questo è certo.
Ad ogni modo, nella lista degli ottantadue nomi lei è in cima, risulta il primo nell’ordine alfabetico. Questo ci fa rendere conto che, nella sua vita, nei registri di classe lei era fatalmente il primo: come l’ha attraversata questa esperienza?
Ricordo il momento delle interrogazioni, quando lo sguardo dell’insegnante partiva dal basso e saliva verso l’alto dov’era segnato il mio nome, il primo dell’elenco. Ero certo che da un momento all’altro avrebbe detto “venga, venga, venga… Abbate”. Ancora adesso quando rifaccio da me quella scena provo un sussulto.
Quello di quasi tutti gli studenti, indipendentemente dal fatto che lei sia un marchese. A questo punto ci chiediamo: nella sua vita intellettuale, dagli anni Settanta a oggi, questo suo essere nobile ma allo stesso tempo uomo di sinistra – lei ha militato, ha fatto cose, quando le cose erano importanti e si facevano –, questo suo status come l’ha coniugato, gestito, vissuto?
Qualsiasi intellettuale, in realtà, appartiene alla piccola borghesia. Sinceramente, sono orgoglioso solo di una cosa, della mia Individualità, il resto mi appare irrilevante. Ho avuto una grande scuola che mi ha insegnato a relativizzare: quando da ragazzino passavo davanti al muretto del bar “Catalano”, dove erano seduti i ragazzi di quartiere, e avevo sottobraccio, metti, il cofanetto con le opere di Bertolt Brecht, parlo dei primi anni Settanta, loro mi chiedevano cosa hai lì, e io dicevo: sono le opere di Bertolt Brecht, ricevevo come risposta immediata: “E ‘sta minchia?”. Bene, quella è stata una grande scuola, che mi ha insegnato il senso del ridicolo e del limite. Ma anche una orgogliosa singolarità aristocratica, che ancora adesso rivendico.
Si può dire che questa sfrontatezza aristocratica sia “uno stato dell’anima”, come molti dicono del comunismo?
Direi che è soprattutto una forma di amor proprio. C’è stato in molti di noi un errore di fondo. Oltre ad avere militato nel Partito comunista italiano, sono stato anche maoista di “Servire il popolo”, ed era il 1971: in realtà scambiavo la necessità del sentimento di rivolta, un concetto anarchico, con l’idea della rivoluzione, che è un concetto comunista che guarda innanzitutto al potere e all’ordine statuale, in realtà il sentimento che mi muoveva era un sentimento libertario. Come dice Albert Camus, “mi rivolto, dunque siamo”, ho anche riscritto “La peste”, un romanzo, “La peste nuova”, contro il concetto di speranza. Nessuna forma di potere può avere la mia simpatia, l’immagine di Lenin che, giunto a Pietrogrado, si solleva sul predellino del treno blindato e rivolto agli operai e ai soldati pronuncia “Tutto il potere ai Soviet” mi lascia ormai del tutto indifferente, contiene anzi qualcosa di mortuario. L’idea stessa del potere mi è estranea. Non posso però neppure essere anarchico, perché gli anarchici sono manichei, vedono cioè ossessivamente ovunque il male, quindi alla fine ho conquistato me stesso, come dice Nietzsche: “diventare ciò che si è”.
Lei ha frequentato anche artisti, e lo stesso mondo dell’arte. Spesso ha parlato della sua vicinanza a Mario Schifano.
Sì, Mario Schifano è stato un amico caro, devo a lui la copertina del mio primo romanzo, Zero maggio a Palermo, uscito nel 1990, dove racconto la mia adolescenza palermitana in una sezione del Pci. Avendo fatto il critico d’arte per oltre un decennio, ho molta familiarità anche con il mondo degli artisti.
Ma com’era allora, quel mondo dell’arte, lo riscontra – o lo riconosce – anche oggi?
Disse Achille Bonito Oliva sul finire degli anni Novanta che “i critici d’arte del futuro sarebbero stati innanzitutto economisti”, ossia figure subalterne e utili al mercato, ed è ciò che alla fine si è determinato. Non rimpiango affatto un’idea sentimentale dell’arte, in questo credo di essere molto laico, ma sinceramente di un’opera mi interessa il valore d’uso fantastico, non il valore di scambio economico.
Lei vive a Roma da molto tempo…
Da quarantun anni. Nel 2015 ho anche raccontato la città in un libro, Roma vista controvento.
E la sua città di Palermo, che ne Lo Stemma viene sublimata in modo eccelso, cosa rappresenta ora per lei? Immaginandone la radice, oppure l’imprinting dello sguardo.
Non credo nelle radici, non siamo piante, siamo le nostre gambe. La maggior parte della vita l’ho vissuta a Roma, Palermo è ormai lontana, e non mi sono mai più voltato indietro. Lo Stemma è un racconto sulla mediocrità immanente, non soltanto sulla mediocrità dell’aristocrazia palermitana.