Nell’era della narrazione omeopatica, la morte, come il dolore, viene somministrata in granuli, a piccole dosi. L’opera si fa alcova salvifica e consolatoria, l’artista taumaturgo portatile, pronto all’uso. A spezzare gli schemi di questa pallida tradizione – traduzione del male in infida empatia – una storia priva di sterili orpelli, fronzoli didattici, senza spazio per triti concettualismi e pose esistenziali, ma solo per vita e morte, particelle elementari, nodali, visione in bianco e nero.
Svegliami a mezzanotte è la storia di Fuani Marino – sopravvissuta a se stessa –, una vicenda che non conforta e non disturba. Semina paura.
L’autrice, giovane donna e madre da pochi mesi, nel cuore dell’estate – il tempo in cui tutto marcisce, brulicante verminaio esistenziale – decide di abdicare alla vita con un gesto estremo. Sceglie il vuoto, il quarto piano di un palazzo di famiglia. Ma il vuoto la respinge per dodici, infiniti metri. Cade. Si schianta. Non muore.
Una vita di apparenze solide – familiari, economiche, lavorative –, canoniche. Sui motivi che abbiano portato a spingersi oltre l’orlo di sé, chi si interroga, non lo fa per empatia nei confronti della protagonista dell’accaduto, ma per il sottile timore di poterlo divenire. Foss’anche una possibilità infinitesimale. Quella probabilità, ogni madre – o aspirante tale – intimamente la intravede come una linea d’ombra, serpentina.
Svegliami a mezzanotte, storia ornata d’autenticità, può godere del lusso di sperimentare forme diverse per essere tramandata all’esterno, senza il rischio di perdere la sua essenza – l’intensità è tale da annientare ogni gabbia formale. Racconto dai tratti autobiografici, il titolo esordisce a livello editoriale nel 2019, per casa Einaudi, e nel 2022 in veste cinematografica (nelle sale da febbraio 2023) con un film documentario diretto dal regista Francesco Patierno e distribuito da Cinecittà Luce, in cui una commistione di materiali d’archivio si mescola ad elementi diaristici e fotografici dell’autrice-sceneggiatrice, dando vita in immagini al flusso di parole dell’omonimo libro, narrate dalla voce evocativa di Eva Padoan.
Un viaggio caustico dentro la vita, la depressione post-partum, la malattia mentale. Lucido e profondo. Disperato. Dove la lucidità commuove più di ogni prova di moralità.
Nel dibattito ormai polarizzato sulla maternità – da un lato la madre come vittima sacrificale sull’altare della prole, dall’altro quella della donna pronta a rinnegare ogni istinto in odor di biologia e a sbandierare l’ottuso vessillo della donna ‘realizzata senza figli’ (come se la realizzazione femminile passasse da lì), banalizzando il tutto come imperativo culturale – Fuani Marino, fenice partenopea, creatura inattuale e di affilata autoironia, si inserisce sparigliando le carte, restituendo una visione della maternità per ciò che è nella realtà che vive fuori dai salotti – naturale desiderio cui possono fare seguito reazioni inaspettate, acute, che sguazza poco nella teoria e molto nell’imprevedibilità – annientando ogni contemporanea speculazione, anche editoriale, che profuma di femminismo stantio.
“In alcune donne dall’equilibrio labile e delicato, quella della maternità può essere un’esperienza impossibile da affrontare. Che le trova sprovviste e inequipaggiate, il contrario di quello che ci si aspetterebbe da una madre”.
La depressione, lo stigma del contesto borghese di fronte a conclamati disturbi psichiatrici, la vergogna per le terapie farmacologiche – gli scellerati suggerimenti di optare per cure omeopatiche alla luce delle patologie diagnosticate –, la negazione di un ricovero, nel momento di crisi assoluta, psicotica, da parte dei familiari, per non allontanarla dalla neonata. La famiglia, dunque, capro espiatorio per eccellenza – Giano bifronte –, ma senza la quale si finirebbe alla deriva. Per dare una voce al tutto, in Svegliami a mezzanotte l’autrice indaga nella poesia, nella letteratura, si aggrappa a quella tradizione di donne diversamente estreme che va da Susanna Kaysen a Joan Didion, da Virginia Woolf a Silvia Plath – in cui si inserisce di diritto, come una Lady Lazarus partenopea – che hanno diversamente declinato il tema fino ad ammantare la malattia mentale di un certo, innegabile, appeal letterario. Quasi un diritto al narcisismo.
Al termine del libro, Fuani scrive una lettera alla sua ‘adorata Greta’ per preservarla dalle dicerie:
«Per quanto doloroso, è purtroppo ciò che a tua madre è successo, ed esserne al corrente potrà forse rappresentare per te una difesa dalle domande e dalle chiacchiere. Dalla cattiveria. Dal rancore. Ti diranno che tua madre è pazza, un’egoista».
Rinunciare a se stessa – o, scrivendo, alla parte più intima di sé – per salvare la propria carne, questa è una madre. Condanna e salvezza.
Fuani Marino ritiene che raccontare la sua storia sia un dovere e un’opportunità, lo considera a tutti gli effetti un gesto politico. Ma anche, si potrebbe avanzare, poetico. Perché come la poesia, questa storia restituisce l’abisso. E la grazia. L’ombra, lieve, della grazia, si affaccia nel racconto in maniera fugace, come un’epifania. È nella sala d’aspetto di uno psichiatra – “come in attesa di una grazia che non sarebbe mai arrivata”; nel dichiarato sollievo di essere presa in cura da altri, durante il lungo ricovero ospedaliero; è nella sua assenza di fede, roba ottusa “per menti anestetizzate”, nella ripetuta visione di una stola verde ai piedi del letto, nel delirio da morfina della terapia intensiva – dopo avere tentato di uccidersi il 26 luglio, giorno di Sant’Anna, protettrice delle madri, delle partorienti; è in una caduta che è un’ascesa a una visione del mondo, senza pretese, senza retorica. Carne, ossa e cicatrici, ciò che resta dell’abisso. Ciò che resta di chi resta.
“Non voglio nascondermi dietro l’etichetta di un disturbo psichiatrico. Al di là della diagnosi, ci sono il mio temperamento e la mia visione delle cose”.
La grazia è infine la visione di Fuani, immersa nelle lunghe vasche della piscina per la riabilitazione, il braccio fluttuante che è un’ala spezzata, il volto mai visibile, il profilo sdoppiato come nel riflesso di uno specchio troppo ravvicinato, l’immagine che si dissolve in se stessa. È nelle note, strazianti, di Torna a Surriento – sia lode a Francesco Patierno per questa scena. È nelle acque che ondeggiano lente e d’improvviso non importa più quali siano: la piscina, il golfo di Napoli, forse un ritorno nel liquido amniotico. Al grembo materno. Alle origini. Di Fuani, di tutti. Nell’istante di grazia c’è il prima e il dopo, morte e vita. Tutto è sospeso nell’attimo. Sull’orlo.