24 Giugno 2019

“Senza bisogni muove in un suo proprio mondo; in lieve arcana pace va”: intorno all’Empedocle di Hölderlin

Quando, nel 1800, “Hölderlin abbandona definitivamente l’Empedocle, di cui aveva iniziato la terza stesura” (Luigi Reitani nella Cronologia a Friedrich Hölderlin, Tutte le liriche, Mondadori, 2001), il poeta, abbandonato da tutti, abbandona Susette Gontard, l’amata, ribattezzata Diotima. L’anno prima le aveva regalato l’Hyperion (“a chi altri, se non a te”), con una lettera: “grida vendetta al cielo dover pensare che tutti e due con le nostre migliori energie dovremo forse soccombere perché ci manchiamo”. L’amore praticato di nascosto, come un deserto tra gli uomini, irrealizzabile, perché il futuro è lava al poeta e il presente è sempre levato, slavato, torbido. “E se pure il nostro amore restasse per sempre non ricompensato, esso è di per sé così tacitamente bello che rimarrà per sempre il nostro più caro e unico, non è vero, mio amato! Anche tu lo provi, e le nostre anime si incontreranno per sempre in eterno!”. Amore mentale, sposalizio intellettuale: nell’arco dell’Empedocle – eroe e poeta vanno nel fato a coincidere – si consuma l’esistenza poetica di Hölderlin, l’avvio verso i fantasmi della follia.

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Quando, nel 1797, comincia il lavoro su Empedocle – passato in Italia come La morte di Empedocle, nelle traduzioni di Giuseppe Faggin, Cesare Lievi, Ervino Pocar, Laura Balbiani (l’edizione di rilievo è quella Bompiani del 2003, introdotta da Elena Polledri) – si è definita la distanza con Schiller e Goethe, in modo sbrigativo. Il poeta è attraversato da estri napoleonici, si molla con Susette/Diotima (“Tutto ciò che è intorno è muto, e vuoto, senza di te!”, gli scrive, lei, nel folto del 1800), che morirà due anni dopo, afflitta da rosolia. “Ricevuta la notizia, Hölderlin avrebbe avuto una violenta crisi con accessi di furore. In base a questa cronologia, dunque, la notizia della morte di Susette segue il primo accesso di follia e lo aggrava” (Reitani). D’altronde, nel 1801 il poeta si vede apolide, lascia la patria (“Il mio animo è colmo di congedo… non sanno che farsene di me… del resto voglio e devo restare tedesco, anche se i bisogni del cuore e dello stomaco mi trascinassero a Thaiti”, scrive al fratello). Non ha patria, non ha letteratura, non ha amore: una vita come gettarsi nel cratere di un vulcano.

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Nei primi mesi del 1801, sull’annuario Aglaia escono alcune poesie di Hölderlin. Una di queste si intitola Empedocle, questa:

La vita cerchi, la cerchi e sgorga e splende
Un fuoco divino profondo dalla terra, per te,
E in un desiderio che dà i brividi
Nell’Etna ti scagli tra le fiamme.

Così sciolse nel vino le sue perle, superba,
La regina; e le amava! Ah, non avessi,
Non avessi immolato nel calice in
Fermento, poeta, la tua ricchezza!

Eppure mi sei sacro, come la potenza della terra
Che ti strappò, vittima audace!
E seguire vorrei nell’abisso
L’eroe, se amore non mi frenasse.

Senza amore, sfrenato, Hölderlin frequenta gli abissi, ne lecca contorni e apici.

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Secondo la leggenda, l’agrigentino Empedocle, allievo di Pitagora, lettore di Parmenide, maestro di Gorgia, nacque da famiglia nobile, nel V secolo a. C., si dedicò al pensare, fu animato da compassione e morì gettandosi nell’Etna, cioè nello stomaco di madre natura. “Il suo sguardo non è quello ossimorico, distaccato e severo di Eraclito, né quello apollineo e contemplativo di Parmenide. Empedocle è sapiente e poeta, conosce e vibra. E sogna. E prova nostalgia. Sogna un mondo non travagliato da Contesa, un mondo retto dall’armonia di Amore; prova nostalgia per la perduta natura divina dell’uomo, che va riconquistata attraverso la conoscenza, lontano dalla via funesta di Contesa, e nostalgia per la pace e l’unità della natura originaria, cui la morte mistica può condurre”, scrive Angelo Tonelli, che ha tradotto i Frammenti e testimonianze di Empedocle per Bompiani (2002). Per questi aspetti – di cui esaspera l’astio della solitudine, l’etica dell’apripista inascoltato – Hölderlin trova Empedocle congeniale alla sua Grecia ricostruita, all’Ellade poetica.

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Negli stessi anni dell’Empedocle il poeta costruisce l’immagine del Wanderer, del vagabondo lirico, del cercatore famelico (“e queste parole mi spinsero a cercare dell’altro”). Anche Empedocle è un Wanderer, un viandante della sapienza. “Come vive con gli altri? Io non comprendo nulla di lui…ed esiste per lui un dolore umano?”; “Con prodigiosa nostalgia, cercando/ triste, come chi molto abbia perduto,/ guardava ora la terra, ora per l’ombra/ del bosco il cielo, quasi la sua vita/ fosse scomparsa nel lontano azzurro”, si dicono, nella prima stesura della tragedia Rea e Pantea. “Senza bisogni muove/ in un suo proprio mondo; in lieve arcana/ pace va fra i suoi fiori… esser lui stesso, è questa/ la vita, e tutti noi ne siamo il sogno”. Nell’Empedocle sono alcuni dei versi più intensi di Hölderlin. Testo incompleto, fratturato, incompiuto. Come lo è il poeta, che lascia ad altri il compito di ricucire i frammenti.

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Cito dal testo di Filiberto Borio, Empedocle, incapsulato nella collana di Giorgio Colli curata per Boringhieri, “Enciclopedia di autori classici”. Era partito, Colli, pubblicando Nietzsche (Schopenhauer come educatore), poi La disputa Leibniz-Newton sull’analisi, le Lettere inglesi di Voltaire e gli Scritti sulla poesia e frammenti di Hölderlin, con una libertà interdisciplinare, onnivora, clamorosa. Empedocle, per dire, è l’uscita numero 57, preceduta dalle Upanisad antiche e medie, da Paracelso e dalla Filosofia nova di Stendhal e seguita dalle Ultime lettere di Dostoevskij e dalla Favola delle api di Mandeville.

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Colli, voglio dire, nella sua breve, penetrante nota – esempio di civiltà editoriale – ci dice come leggere Hölderlin. “Questa tragedia incompiuta di Hölderlin è una creazione di natura musicale, esprime in modo immediato, senza nessi coscienti, un’interiorità. Parlarne in termini razionali, analizzarla discorsivamente, è inadeguato alla natura dell’oggetto… Meglio è allora abbandonare la pretesa di dire qual è il contenuto, e contentarsi di suggerire un accostamento, di dissipare qualche equivoco. E anzitutto, chiarire la natura scabra di questa tragedia, che non presenta, come ogni altro dramma a noi noto, un conflitto di persone e di passioni, o nel singolo uomo, un conflitto interno al suo destino individuale, nell’urgere di una situazione oggettiva. Qui siamo veramente, per conservare il linguaggio presocratico, ‘lontano dal sentiero degli uomini’”.

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Ma andiamo, è meglio, per le nostre vie,
Ciascuno come il dio gli ha destinato.
È più innocente questo e minor danno.
Ed è lecito e giusto che dovunque
A sé appartenga l’animo dell’uomo.
E poi – più facilmente il suo fardello
E più sicuro porta alla sua meta
L’uomo, quando va solo.
Così nel bosco crescono le querce
Cariche d’anni, e l’una all’altra ignota.

In un appunto terminale, il poeta segna: “Empedocle… è il chiamato, che uccide e vivifica, nel quale e per il quale un mondo in sé si dissolve e rinnova”. La morte è il ritorno, allora, e l’allusione cristiana – si muore per avviare la vita – ha carattere simile e contrario. In Empedocle si sprofonda nella natura; Cristo la trascende, trascinandoci alla nostra vera natura, l’altra, oltreterrena – Empedocle si inabissa nel vulcano, Gesù ascende al cielo. Carnale e astrale si temprano: il fuoco dell’Etna brucia, raffina, conduce all’aria il solido; Cristo, in croce, fiammeggia.

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Uno dei frammenti più noti di Empedocle:

E altro ti dirò: non c’è nascita
per nessuna delle cose mortali, né termine di morte le distrugge,
ma soltanto mescolanza e separazione
di elementi mescolati, che origine viene detta dagli umani.

Tutto il genio filosofico, in sapienza e scienza, è messo per vincere la morte. Il poeta non supera la morte, assalta la vita, non ha cura del suo volto di leonessa, lascia tracce perché noi ne siamo consapevoli. (d.b.)

*In copertina: il probabile Empedocle di Luca Signorelli nella Cappella di San Brizio, presso il duomo di Orvieto

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