Gita nella mente sterminata di Philip K. Dick
Letterature
Franco Acquaviva
Ciò che sorprende, nella solare e brutale esistenza di Vincent Van Gogh, è la sollecitudine nella sovversione. Van Gogh pone una candela nel disincanto. Riconduce ogni forma di umiliazione alla sua nobiltà. Redime tutto ciò che tocca. Ribalta i canoni: il rivoltante ha la voluttà del prezioso. Ostinazione della salvezza. Che lo credano un fallito – che si creda un fallito – è viatico inevitabile: per capire chi si è bisogna perdere tutto, il tutto deve voltarti le spalle, tornare al primevo fango. Il re del mondo, a cui è elargita la verità, muore inconsapevole.
Secondo Guido Ceronetti, “Van Gogh è un messia”. Cosa volesse dire il savio apofatico l’ho capito leggendo Van Gogh, una biografia, libro magnifico di Frédéric Pajak edito in Italia da L’Orma, uscito, in origine, nel 2016, per Les Éditions Noir sur Blanc. Il libro fa parte di un ciclo, “Manifesto incerto”, possibilmente infinito, in cui Pajak redige biografie spesso implacabili, con tavole di livida bellezza. Non si tratta di un ‘romanzo illustrato’: i libri non appartengono al genere romanzesco, sono repertori brulicanti di brividi, privi di orpelli, di granitica intensità; i disegni non sono ‘illustrativi’, tanto meno didascalici. È come se Pajak interpretasse una vita in due nuove vite: quella pittorica e quella scritta. Agiografia avveniristica. Il ciclo, per ora, conta nove tomi: l’ultimo, dedicato a Fernando Pessoa, è uscito nel 2020; con quello destinato a sondare le biografie parallele di Marina Cvetaeva e di Emily Dickinson – il settimo – l’autore ha vinto il Prix Goncourt de la biographie nel 2019. Entrambi questi testi, tuttavia, sono ancora inediti in Italia: L’Orma ne ha tradotti, finora, quattro; compreso quello che racconta la morte di Walter Benjamin e l’ignobile prigionia di Ezra Pound.
Pajak ama le vite esasperate: il suo successo, diciamo così, comincia nel 1999, con un libro, L’Immense Solitude, in cui l’artista descrive e dipinge la vita torinese di Nietzsche e di Cesare Pavese. Pare che anche Pajak abbia avuto una vita aliena, atra. Scappato dall’Accademia di Belle Arti, ragazzo, si inerpica tra mestieri vari – dal cuccettista sui treni notturni all’operaio in un macello industriale –, non teme di chiedere l’elemosina, tra i rioni parigini, s’incassa in una solitudine da cui lo eleva la poesia, l’arte. Nato nel 1955, ha il viso triste, di chi è stato scoperto. Inevitabile, dunque, lo scontro con la vita di Van Gogh.
Del pittore, devo dire, non ricordavo la via francescana, gli anni della predicazione, la purezza d’intenti che lo portava a dormire all’addiaccio, nella paglia, lordo e macilento, tra digiuni incessanti, l’implacabile veglia al fianco dei malati, dei minatori del Borinage. Che in cambio, allora come ad Arles, tra le parrocchie, tra i vicoli londinesi o in manicomio, ricevesse scherni, lo sdebitarsi nello sberleffo, l’accusa di essere ‘tocco’, pazzo, inquinato da manifeste manie, è segno messianico. A Dio sostituì il suo omologo, l’arte, incurante dell’approvazione, pura gioia della forma:
“L’unica cosa che gli interessa è portare a termine il proprio lavoro, mietere tele a fine giornata. L’ostilità, o al contrario l’ammirazione, lo lasciano indifferente. È un pittore, soltanto un pittore, niente di più e niente di meno”.
È grazia questo anelito di assoluto nell’assoluto niente:
“Si tratta, insomma, di vivere con poco e produrre quante più opere possibili, ‘vendendo anche niente, o quasi’. L’importante è preparare la venuta dei pittori del futuro”.
Avventurarsi nell’avvenire. Anche quando Van Gogh tenta la morte, è per redimerla, per farla retrocedere in prodigioso bacio.
Insomma, ho chiamato Frédéric Pajak al dialogo.
Come ci concilia, nei suoi libri, la scrittura con il disegno? Da dove giunge questa “scrittura disegnata”? Nel lavoro pratico: comincia ad abbozzare alcune tavole, inizia con la scrittura o lavora alternando disegno e scritto?
Nei miei libri il disegno è sempre in conflitto con la scrittura. Si tratta di due linguaggi inconciliabili. Nel “Manifesto incerto”, il testo si vuole preciso, senza enfasi né abusi interpretativi, mentre il disegno si dimostra infedele, sentimentale o poetico.
Non faccio mai degli schizzi. Comincio disegnando con il pennello, per definire le masse nere, proseguo costeggiando con segni, croci, tratteggi, per evocare la luce, i grigi, il bianco.
Scrivo ogni giorno, e ho letto di tutto su Van Gogh, la corrispondenza, diverse biografie. Una volta stabilito il primo stadio del testo, comincio a disegnare, da mane a notte, realizzando circa duecento disegni. Una volta terminato, passo al ‘montaggio’, un po’ come fa un regista. Correggo il testo, preciso i disegni. Realizzo il libro interamente: fotoincisione, tipografia, impaginazione, pronto per la stampa!
Come dobbiamo intendere ciò che chiama “manifeste incertain”?
A diciotto anni lavoravo sui treni notturni, nei vagoni letto internazionali. Capitavo due o tre volte la settimana a Roma o a Brindisi. Erano gli anni di piombo. C’era il coprifuoco. Si scontravano diverse ideologie: l’estrema sinistra, la destra estrema, la Democrazia Cristiana, ciascuna con la sua dose di violenza e di corruzione. È in quel periodo che mi è venuto in mente l’ossimoro “manifesto incerto”. Sapevo che un giorno sarebbe diventato una specie di libro. Ho atteso quarant’anni prima di iniziare questo libro, che doveva essere un libro senza fine, infinito. Per lo più, questo titolo è una formula di resistenza alle ideologie: l’incertezza contro le affermazioni perentorie, in particolare contro le “opinioni” politiche.
Leggendo – e guardando – la vita di Van Gogh sembra che l’arte sia una specie di sequela, una specie di scelta estrema, l’estremismo della povertà. Che rapporto c’è, a suo dire, tra vita e arte?
L’arte è sempre un’escrescenza della vita; a volte può diventare vita essa stessa. Alcuni artisti, come Kurt Schwitters con il suo Merzbau, o Malevič e il suprematismo, si sono avvicinati all’arte totale, una specie di reinvenzione della vita. Nel caso di Van Gogh, la vita era una piaga e l’arte il suo lenitivo.
I primi tre volumi del “Manifesto incerto” sono consacrati allo scrittore filosofo Walter Benjamin. Ciò pretendeva da parte mia una riabilitazione degli obliati dalla Storia: i vinti, i sottoproletari, gli abbandonati, i reietti, i falliti di ogni sorta. La famiglia Van Gogh trattava Vincent come un reietto, come gli artisti e i mercanti d’arte che lui frequentava. Vincent stesso si considerava un fallito. Eppure, è diventato il fallito più celebre della storia dell’arte, e questa fama – postuma – assomiglia a un successo, a un riscatto, oltre ogni misura. D’altronde, come poteva un pittore sprofondato nel fallimento credere a tal punto nel suo destino? Vincent sapeva che un giorno avrebbe avuto un posto nella storia dell’arte. Non ne ha mai dubitato. Si vedeva come l’anello mancante tra Delacroix e la pittura a venire, l’espressionismo. Disse di sentirsi la reincarnazione di Adolphe Monticelli, che può essere considerato il precursore dell’astrazione lirica.
Qual è l’episodio della vita di Van Gogh che più la ha sorpresa?
Tutti i momenti in cui Van Gogh coltiva se stesso, si esplora, attraverso la filosofia, la letteratura, la storia dell’arte. Per tutta la sua breve vita, non ha mai smesso di coltivare se stesso, di studiare. In particolare, aveva una conoscenza profonda dell’arte della pittura, della sua tecnica e della sua storia, dei grandi personaggi di cui aveva letto la biografia, perché riteneva impossibile comprendere un’opera se si ignorava la vita del pittore che l’aveva composta. Ho letto scrupolosamente la sua corrispondenza, prima di sprofondare nelle numerose biografie, tutte più o meno romanzate. Mi sono sbarazzato del pathos che accomuna queste biografie. Vincent era un uomo lucido riguardo a se stesso, colto, cosciente del mondo in cui viveva. La sua conoscenza dell’arte e degli artisti era notevole. Vincent non era un uomo perduto. Mi guardo bene dall’assumere un approccio di tipo universitario, il che non mi impedisce di essere rigoroso. È proprio il rigore ciò che cerco. Mi sono dedicato poco all’orecchio mozzato, ho preferito l’orecchio teso, chiaroveggente.
La tenacia, la perseveranza, la mania del lavoro artistico, pur certi del frastuono dei fraintendimenti, se non delle offese del ‘pubblico’ sembrano una costante di Van Gogh. Il carisma dell’arte va pagato, va scontato. Lei che rapporto ha con il ‘pubblico’, con i lettori, con la fama, con il mondo?
Ho cominciato a vivere, cioè a costruire libri scritti e disegnati, a quarantacinque anni. Prima, la mia vita è stata un brogliaccio, un taccuino di schizzi. Cercavo una forma che non fosse il romanzo, il saggio, la biografia, l’autobiografia, me neanche la poesia, il libro illustrato, il libro a fumetti. Ho trovato tardi la mia forma, scoprendo un pubblico considerevole, in Francia e in una dozzina di altri paesi. Questo, come si dice, ti mette le ali, ti incita a continuare, a perfezionare il tuo solco. Il successo permette una grande libertà, la libertà di fare i libri esattamente come li desideri, la libertà di scegliere l’editore, di stabilire un rapporto di assoluta fiducia. Sono sorpreso nell’accorgermi che i miei lettori sono così diversi tra loro, per età, nazionalità, professione. Questo mi tocca profondamente.
Ezra Pound, Walter Benjamin, Emily Dickinson, Marina Cvetaeva, Vincet Van Gogh… con quale criterio sceglie le vite che racconta e disegna? Come si entra nelle vite degli altri?
Non ho mai premeditato la scelta di un tale autore, di un particolare artista. Accade tutto per caso, secondo l’azzardo della curiosità, per affinità. Dopo aver letto o visto pressoché tutte le opere di un artista, mi immergo nelle biografie, nella corrispondenza, nei diari, i testi privati. Leggo qualche migliaio di pagine, che annoto. In pochi mesi, ho una visione d’insieme, allora comincio a scrivere e a preparare alcuni disegni.
Per rispondere alla sua domanda: la mia empatia è relativa, mi sento sempre estraneo a questi artisti. Mi attrae la stranezza della loro personalità, della loro ispirazione. Per questo, cerco di avvicinarmi a questi estranei visitando i luoghi in cui anno vissuto. Ho bisogno di respirare l’aria che hanno respirato. Per i disegni, è importante assecondare lo stesso principio. Come sempre nelle pagine biografiche dei miei libri, leggo il maggior numero di libri possibile. Consulto documenti, frequento gli archivi. Per Van Gogh, ho riportato Vincent ad Amsterdam, a rivedere i suoi dipinti e i suoi disegni. Ho visitato i luoghi in cui ha vissuto – la campagna olandese, Bruxelles, il Borinage, Parigi, Arles, Auvers-sur-Oise – per avere un rapporto più intimo e sensoriale possibile. Ho respirato il suo paesaggio; è un’esigenza a cui mi applico sistematicamente. Mi piace scrivere e disegnare nei luoghi esatti, legati all’artista.
Che vite le restano da narrare, che vite vorrebbe narrare?
Il mio ultimo libro pubblicato in Francia, Dans le calme du soir, è in gran parte autobiografico. È un vagabondaggio in diverse città – Parigi, Strasburgo, Arles, Losanna, Aosta, Mantova, Atene – insieme a una serie di ritratti dei miei tre zii: quello più importante è napoletano. Attualmente, sto terminando un piccolo libro che s’intitola Nietzsche au piano, che esplora il rapporto del filosofo con la musica: era anche compositore – e un discreto pianista.
Quale poetica – o quale ‘politica’ – ispira il suo lavoro?
La libertà.
*Le immagini pubblicate nell’articolo sono di Frédéric Pajak