15 Aprile 2019

La scimmia meravigliosa di Franz Kafka. Ora sappiamo chi è (un incrocio tra Darwin, Peter e Kurtz)

Uno dei racconti più ambigui e canonici di Franz Kafka s’intitola Una relazione per un’accademia, è stato scritto un secolo fa e a tenere la fatidica relazione agli “Illustri signori dell’Accademia”, come si sa, è una scimmia. Nata “sulla Costa d’Avorio”, catturata durante “una spedizione di caccia della ditta Hagenbeck (col cui capo ho vuotato del resto da quel tempo parecchie bottiglie di buon vino rosso)”, la scimmia, in cinque anni, risolve l’evoluzione umana a tal punto da essere in grado di parlare speditamente, con somma cultura. Si può dire che l’intelligenza ora umana della scimmia riduca i propri uditori, gli illustri accademici, a un branco di scimmioni.

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La vita della scimmia catturata per diventare domestica è una gabbia (“Nel suo insieme la gabbia era troppo bassa per star dritti e troppo stretta per star seduti”): la bestia capisce di non avere scampo (“Sino ad allora avevo avuto sempre tante vie d’uscita, ed ora più neanche una. M’ero incagliato”), per questo concepisce come via, come fuga, quella di diventare uomo. Osserva gli umani (“Non ragionavo, ma osservavo con tutta la calma. Vedevo uomini andare e venire: sempre gli stessi volti, gli identici movimenti; mi pareva spesso che fosse uno solo”), si risolve di diventare come loro, d’altronde, “Era così facile imitarli!”. La scimmia non ammette alcuna superiorità all’uomo (“Ripeto: non mi attirava tanto imitare gli uomini; lo facevo perché cercavo una via d’uscita, per nessun’altra ragione”), anzi: quando si esibisce è lei che ride della minorità umana, del suo spavaldo – e in fondo servile – narcisismo.

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Il racconto ha un vago accenno al darwinismo – “la vostra origine scimmiesca, signori miei, ammesso che qualcosa di simile sia esistito nel vostro passato, non può essere per voi più remota di quanto non sia per me la mia” – ma non è quella l’ispirazione profonda e polemica di Kafka. La scimmia, in effetti, ha un nome, anzi, un “nomignolo ripugnante e assolutamente inesatto”. La chiamano Pietro il Rosso, a causa di una ferita “sulla guancia, di lieve entità” che “mi lasciò però una gran cicatrice rossa”. Il nomignolo è confermato anche dai frammenti scritti da Kafka intorno a questo racconto, che non lo precisano, lo portano altrove. “Tutti noi conosciamo Pietro il Rosso come mezzo mondo lo conosce”, dice uno di questi frammenti, dove alla bestia “gli ripugna veder gente”. Pietro il Rosso è una scimmia fra due mondi: parla all’Accademia ma non ama il contatto con gli uomini, al contrario: “a tarda notte torno a casa, dopo banchetti, riunioni scientifiche, cordiali trattenimenti con amici” e “me la spasso con una piccola scimpanzé alla maniera delle scimmie”. Solo che dopo l’atto, la scimmia che ha imparato a fare l’uomo, non vuole saperne più neanche di lei, della compagna scimmiesca, “di giorno non la voglio vedere perché ha negli occhi lo sguardo spiritato degli animali ammaestrati; io solo me ne accorgo e non lo posso sopportare”.

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Pietro il Rosso non è più scimmia e non è neanche uomo, non è selvatico e neppure ammaestrato. Uscito da una gabbia, è dentro un’altra gabbia.

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Ecco a voi “Peter”, la scimmia-uomo che dopo aver strabiliato l’Europa sbarca nel 1909 a New York: forse è lui ad avere ispirato Peter il Rosso di Kafka

In un articolo pubblicato di recente sul “Times Litterary Supplement”, Kafka’s Wonderful Ape, Gregory Radick si dice certo – o quasi – di aver trovato la fonte che prova l’invenzione di Pietro il Rosso. Si tratterebbe, effettivamente, di una scimmia di nome Pietro (Peter) che fu “una star dei palcoscenici europei – dalle Folies-Bergère a Parigi al Music Hall a Londra – e che nell’agosto del 1909 era a New York, con il suo abbigliamento da viaggio, il cappello, le abitudini straordinariamente umane (come fumare, stringere la mano, afferrare una matita e fare qualche segno sulla carta)… Nei mesi successivi i giornali recensirono il suo tour e le sue azioni: prendere il taxi, bere birra, visitare Harvard”. Eccolo il Pietro, cui accenna nebulosamente anche Kafka, in effetti (“…un’altra scimmia ammaestrata chiamata Pietro, crepata da poco e conosciuta qua e là”), che fa ingresso all’accademia.

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L’articolo non si limita a una nota sfiziosa per i tribuni della storia della letteratura. Radick ci ricorda che proprio in quel 1909 cadeva il cinquantenario dalla pubblicazione dell’Origine delle specie di Darwin, ragion per cui le qualità di Pietro, la scimmia-uomo, attirarono l’attenzione di certi scienziati: sarà lì che dobbiamo scovare ‘l’anello mancante’, la parentela mediana tra umani e scimmioni? Una psicologa, Lightner Witmer, dell’University of Pennsylvania, “creatrice di una clinica dove si studiavano le capacità mentali dei bambini”, ammirò, sedotta da uno slogan – “nata scimmia, è diventata uomo: Darwin pensava a lei!” – la scimmia di nome Pietro al Keith’s Theatre di Boston, chiese di poterla studiare in clinica. L’esito fu uno studio, A Monkey With a Mind, rimbalzato con fasto sulle pagine del “New York Times”. Radick ricorda che lo stesso Pietro/Peter si esibì a Praga “nella seconda metà del 1913: i giornali lo annunciarono come ‘la scimmia delle meraviglie’”. Nel 1913 Kafka scrive il primo capitolo del romanzo ‘americano’, Il fochista – che postumo sarà Amerika o meglio Il disperso. Ha da poco terminato La metamorfosi, pubblica La condanna.

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Scritto nel 1917, pubblicato un secolo fa, nel 1919, nella raccolta Un medico di campagna – dove convergono racconti come Davanti alla legge, Sciacalli e arabi, Un messaggio dell’imperatore, Un sogno – per alcuni Una relazione per un’accademia è simbolo della condizione ebraica, figura di un esilio dalla comune umana. Di certo, Pietro il Rosso è la creatura al confine tra più mondi, che la conoscenza non libera dal proprio isolamento, al di là della pena e della colpa (“non chiedo nessun giudizio umano… non faccio che riferire”). Il mito locale – l’enigma tedesco di Kaspar Hauser, il puro venuto dal nulla – e la tensione letteraria – il Mowgli di Rudyard Kipling, stretto tra giungla e villaggio; il Kurtz di Joseph Conrad, mente europea, raffinatissima, che sceglie l’oscuro degli istinti e non è né di qui né di là, né selvaggio né legge – si mescolano, in forma icastica.

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Piuttosto. Nel 1917, intorno alla scrittura di Una relazione per un’accademia, Kafka, a cui è diagnosticata la tubercolosi polmonare, si ritira a Zürau, in campagna, e scrive alcuni fogli, dal perduto, occasionali, celebrati come Aforismi di Zürau, appunto. “Un primo segno di incipiente conoscenza è il desiderio di morire. Questa vita appare insopportabile, un’altra irraggiungibile. Non ci si vergogna più di voler morire; si chiede di essere portati dalla vecchia cella, che si odia, in una nuova, che presto si imparerà ad odiare”. Il tema è la reclusione, la gabbia, la cella. Anche l’accademia è una cella. Anche le parole lo sono. Nei frammenti che cingono il racconto Kafka precisa, “Non era una gabbia con quattro lati a sbarre, ma invece tre pareti fissate a una cassa la quale formava la quarta… Potevo soltanto accoccolarmi con le ginocchia piegate. Nel mio furore non volevo vedere nessuno, e perciò stavo rivolto verso la cassa, e così stetti con le ginocchia tremanti giorni e notti e, dietro, le sbarre mi segavano la carne”. L’aforisma si conclude così: “Un residuo di fede continua a operare, forse per caso durante il trasferimento potrebbe passare il Signore per il corridoio, guardare il prigioniero e dire: ‘Questo qui non dovete rinchiuderlo più. Viene da me’”. C’è dunque qualcosa che scassa la gabbia, oltre la recinzione, che rende le parole basiliche di luce. (d.b.)

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