20 Luglio 2022

Kafka a Milano: ascensori, mostri, ossobuco e bordello con prostitute annoiate

Il 4 settembre del 1911 Franz Kafka, in compagnia del suo migliore amico Max Brod, arriva alla Stazione Centrale di Milano, quella di allora che era nell’attuale Piazza della Repubblica. Sono di passaggio. Vengono dalla Svizzera, dove dopo essere stati a Zurigo si sono fermati qualche giorno a Lugano. La città è avvolta in una cappa di afa opprimente. L’Osservatorio di Brera registrò in quei giorni massime di 35 gradi. Forse era già iniziato il riscaldamento globale, ma a quei tempi non la facevano tanto lunga. Era molto caldo e basta.

I due amici lasciano i bagagli in stazione e si avviano a piedi verso il centro per cercare un albergo. Si sistemeranno al Grand Hotel Metropole, allora uno dei più lussuosi di Milano e che negli anni Trenta verrà abbattuto per lasciare spazio all’Arengario. Mentre Max Brod fissa le camere, Kafka resta a qualche passo di distanza in piedi nella grande hall. Guarda incantato il via vai di clienti che entrano ed escono a getto continuo e dei fattorini dell’albergo che, carichi di valigie e borse di ogni forma e dimensione, corrono da una parte all’altra simili a tante piccole formiche che portano la loro briciola di pane. In quella gran baraonda a colpirlo sono anche gli ascensori che salgono e scendono senza sosta come pistoni di un motore e a ogni viaggio sputano fuori dalle porte persone per ingurgitarne di nuove subito dopo. Sembrano insaziabili. Secondo non pochi studiosi questo spettacolo sarà l’ispiratore del grande albergo che ritroveremo nelle pagine di America, uno dei suoi romanzi.

I diari dei due amici raccontano le impressioni riportate in parallelo. Kafka ha un’impressione positiva di Milano e dei suoi abitanti, di cui osserva con attenzione i volti e i gesti, ma la Scala lo delude. Si aspettava qualcosa di spettacolare, di maestoso, di imponente e invece il celebre tempio della lirica è un’edifico modesto, colorato di giallino, dalle linee semplici ed essenziali. Sobrietà lombarda allo stato puro. Forse anche un po’ troppo per i due amici che al primo momento non lo riconoscono neppure. Invece apprezza in modo particolare la Galleria Vittorio Emanuele per la sua doppia natura di luogo chiuso e aperto nello stesso tempo.

Quando arriva di fronte al Duomo, nonostante la somiglianza con la Cattedrale di San Vito a Praga, a prima vista resta un po’ scettico. Troppo imponente per i suoi gusti. Però, dopo avere visitato l’interno della cattedrale, i due salgono sul tetto e dall’alto Kafka resta quasi ipnotizzato a fissare il “carosello” dei tram che girano nella piazza giù in basso, come un bambino con il naso schiacciato di fronte a una vetrina i giocattoli. Poi a colpirlo sono i doccioni che adornano il Duomo. In effetti sono tipici dell’architettura gotica e vengono chiamati anche gargolla o garguglia. Spesso sono ornati con figure di animali fantastici o mostruosi che avevano il compito di spaventare gli spiriti maligni e tenerli lontani dall’edificio. Uno in particolare attira la sua attenzione e Kafka lo descrive in questo modo:

«Una doccia in forma umana alla quale sono sottratti la spina dorsale e il cervello affinché l’acqua piovana trovi una via».

Max Brod invece è distratto e insofferente, teme di contrarre il colera, di cui ha letto sui giornali svizzeri, e smania per andarsene al più presto da Milano. Il suo umore peggiora ancora di più dopo una cena consumata in un ristorante di Piazza Mercanti. Su consiglio del cameriere mangiano ossobuchi con funghi porcini e bevono birra. Pessima scelta. Il piatto si rivela pesante e poco indicato in una serata così calda, i funghi poi hanno uno strano sapore, tanto che Max teme di essere stato avvelenato. Franz sorride alla sua maniera di fronte alle fisime dell’amico, però anche lui non è rimasto soddisfatto. Già da tempo medita di diventare vegetariano e la cena di quella sera potrebbe anche essere la goccia che fa traboccare il vaso. Per di più la birra di Milano è molto diversa da quella di Praga, ha l’odore della birra, ma il sapore del vino. Va un po’ meglio con i due sorbetti che hanno preso per dessert, ma nel complesso si alzano da tavola insoddisfatti e già preoccupati per la digestione che non si preannuncia semplice.

Dopo cena i due amici hanno l’infelice idea di andare al Teatro Fossati dove assistono, senza capire una parola, a uno spettacolo in dialetto milanese. Tempo sprecato se non fosse per la particolarità del Teatro Fossati di avere due facciate. Una, la più antica e originaria, dà sulla piccola Via Rivoli, l’altra, aggiunta in un secondo tempo, si affaccia sul trafficato Corso Garibaldi e con il tempo ha finito per diventare l’ingresso principale, anche perché è stata adornata con statue e decorazioni in cotto che non l’hanno fatta diventare un capolavoro, ma senz’altro qualcosa di particolare. A Kafka, naturalmente portato verso tutto quello che ha un sapore di originalità, questa doppia esposizione del teatro piace molto.

Per rifarsi, i due decidono di fare una visita “Al vero Eden”, in Via San Pietro all’Orto, dove ha sede il più famoso bordello milanese frequentato da nobili e alto borghesi. All’epoca per un viaggiatore andare a puttane in trasferta era un must, un modo per conoscere meglio il luogo che stava visitando. Ma l’atmosfera fredda e asettica del casino, unita all’aria annoiata delle prostitute, indispone sia Kafka sia Brod. Si aspettavano qualche sorriso, dei balli, un po’ di stuzzichini per i clienti in attesa, e invece incontrarono solo musi lunghi e sguardi calcolatori, allora Franz convince Max ad andarsene senza “consumare”.

Si conclude così la breve visita di Kafka a Milano. Il giorno dopo, sempre insieme all’amico Brod, prenderà un treno per Parigi.

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