08 Agosto 2019

Documenti inediti di Kafka, accorrete gente! Stavano meglio nel frigorifero. Sullo scrittore ridotto a reliquia, ovvero: come le fauci da coccodrillo della K hanno ucciso il povero Franz

Il dettaglio è determinante. La nota pubblicata dal Guardian dice di “parti della collezione che furono conservate, in precedenza, in un appartamento di Tel Aviv, pieno di gatti, in un frigorifero in disuso, in cassette di sicurezza”. Un frigorifero senza spina, una specie di capodoglio rovesciato, usato come armadio. Lì, chino, accartocciato, a manovrare le dita come piccoli ragni, c’è Franz Kafka. Penso che non ci sia luogo migliore per i suoi testi. Una casa piena di gatti, un frigorifero usato come portarobe.

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Manco fosse la trama di un film, le date hanno coincidenza circolare. Nel 1939, ottant’anni fa, Max Brod atterra in Israele, a Tel Aviv, con un carico pieno di manoscritti di Kafka. Alla sua morte, nel 1968, lascia i preziosissimi – di cui ha curato la pubblicazione ragionata – alla segretaria e factotum (e amante?) Esther Hoffe, che vende alcuni documenti – compreso il manoscritto del Processo, acquisito per cifra milionaria dall’archivio letterario tedesco di Marbach – e che a sua volta passa, quando muore, nel 2007, a 101 anni, i kafkiani alle figlie, Eva e Ruth. Contro di loro, per anni, la National Library of Israel, la biblioteca nazionale israeliana, intenta una causa, vinta nel 2016 – Ruth è morta nel 2012, Eva (ve l’ho detto, questa storia è un film) esattamente un anno fa. Sulla ‘maledizione’ dei documenti di Kafka ha scritto un libro molto documentato, Kafka’s Last Trial, lo studioso Benjamin Balint. Quando gli ho chiesto di che natura fossero i documenti ancora inediti, da allora custoditi in caveau a Zurigo e a Tel Aviv, mi disse, “l’inventario incompleto del materiale nei caveau di Tel Aviv e di Zurigo, che procede per 170 pagine, elenca circa ventimila lettera – tra cui le settanta lettere di Dora Diamant, l’ultima amante di Kafka, a Brod – i diari inediti di Brod, due dozzine di disegni sconosciuti di Kafka e i manoscritti originali dei racconti di Kafka (tra cui, Preparativi di nozze in campagna)”.

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Ora parte di quei documenti è stata tirata fuori, per la gioia sgolata di David Blumberg, direttore della National Library. Tra i materiali ulteriori, c’è una copia della Lettera al padre, il resoconto di una gita a Parigi, nel 1911, di Kafka e Brod, alcuni quaderni che testimoniano gli esercizi in lingua ebraica di K. La sacra ostensione dei documenti – testimoniata in pompa dai massimi quotidiani del pianeta occidentale; il “New York Times” ha titolato, A Yearslong Battle Over Kafka’s Legacy Ends in Jerusalem – ha avuto luogo con plauso degli astanti e sospiri degli aspiranti studiosi di kafkologia.

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Di fatto, i documenti esposti – che verranno digitalizzati per tutti – non aggiungono nulla all’opera di Kafka. L’esercizio dell’ostensione, in effetti, è del tutto liturgico. Kafka è un ‘bene di Stato’, l’anima di una identità – lui, figurarsi, che si nascondeva in un ditale, feroce come una pantera all’ombra della sinagoga, piccolo come un insetto. Kafka non esiste più, ingurgitato dalla ragion civica: la K di Kafka, aperta come le fauci di un coccodrillo, si è divorata il povero Franz, di cui va censita la morte, la fine. Così, i suoi quattro schizzi vengono protesi come la reliquia di un santo – e altro, in effetti, non sono. E lui, Kafka, non conta per ciò che ha scritto ma per ciò che rappresenta. I suoi testi vengono letti come versetti biblici, ogni sbrego di penna è una rivelazione mistica, potremmo incorporare l’opus di Kafka alla Torah. Che buffo: lo scrittore inafferrabile, è diventato un monumento; la leggerezza a lame, un mausoleo. Stava meglio nel frigorifero. (d.b.)

*In copertina: l’ostensione, da parte degli archivisti della National Library of Israel, di alcuni disegni di Kafka, finora inediti

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