In qualche modo, siamo tutti sudditi all’ombra del castello di Kafka. Qualcuno è impiegato come cameriere, chi come astronomo o agrimensore; alcuni studiano gli insetti del luogo, alcuni tentano di domesticare la volpe, altri gestiscono una locanda, c’è chi si perita di corazzare l’alba, troppo pallida, esangue, di rivestirla con una stola di seta. “Franz Kafka”, di per sé, è nome pieno di corvi – o di cornacchie –, qualcosa che stride, ha le lame della dittatura. Viviamo sotto dettatura di Kafka. K. pare lo scrittore ineluttabile: quella K. è una camera della tortura, l’anfratto montano che distilla poiane.
Di recente si parla con prepotenza di Franz Kafka, della sua medianica fragilità. Dopo una lunghissima, kafkiana, vicenda giudiziaria che ha contrapposto le eredi del lascito custodito da Max Brod al governo di Israele – ricostruita da Benjamin Balint in Kafka’s Last Trial. The Case of a Literary Legacy, 2018 – sono tornati alla luce diversi scritti, appunti, schizzi di Kafka. Di questo manipolo, I disegni di Franz Kafka sono stati pubblicati di recente da Adelphi (2022). Contestualmente, in Francia, nella ‘Pléiade’ Gallimard, sotto la direzione di Jean-Pierre Lefebvre, sono usciti, in due tomi commentati – da 1700 pagine ciascuno – i Journaux e lettres del sommo K. Secondo lo stesso principio – i testi ‘laterali’ di Kafka, lettere, diari, appunti, sono ‘centrali’, perché ogni scritto di K. è opera unica, che dilaga in chiose, scritti preparatori, fogli occasionali – nel mondo inglese, la “Schocken Kafka Library” pubblica una nuova versione, aggiornata, dei Diaries of Franz Kafka, a cura di Ross Benjamin – onorata, tra l’altro, da un articolo-saggio di Becca Rothfeld, Franz Kafka, Party Animal, pubblicato sul “New Yorker”. Forse per cognizione di anniversari – K. nasce nel 1883, termina i diari un secolo fa, l’anno prossimo saranno i cento anni dalla sua morte –, Gallimard ha da poco pubblicato un romanzo di Laurent Seksik, Franz Kafka ne veut pas mourir, che si concentra, appunto, sulla morte di K. Questa la quarta:
“Uccidimi, o sei un assassino. Sono le ultime parole di Franz Kafka, che implora una dose letale di morfina a Robert Klopstock, suo amico e studente di medicina. Al suo capezzale, l’ultima compagna, Dora Diamant. La cara sorella Ottla attende notizie a Praga”.
Chissà come K., che credeva di voler ardere, di raffinare i propri libri al rogo, considererebbe tutta questa attenzione. Pare che anche i ‘Meridiani’ Mondadori si allineino all’astrologia kafkiana: Alessandro Piperno ha promesso una nuova traduzione dei diari, che sostituirà quella di Ervino Pocar, raccolta in Confessioni e Diari (Mondadori, 1972), per qualsiasi lettore una specie di amuleto, uno spettro di ispirazioni.
Kafka costruisce soglie, palafitte: attende abitanti non abitudinari. La sua opera ha l’apparenza di una pantera di legno: pretende l’ingresso. Un’opera molteplice, che deve realizzarsi. “Intorno ai Diari di Kafka”, Marco Ercolani, speleologo di anime, raffinato creatore di apocrifi, ha scritto un libro, L’età della ferita (medusa, 2022), dall’impalcatura audace. In calce ad alcune frasi dei diari di Kafka, tratti dall’edizione allestita da Pocar, dal 1910 al 1923, l’autore riferisce le riflessioni di “un filosofo praghese, contemporaneo di Kafka”, stese nel settembre del 1938. Il gioco di sogni contrapposti – il Kafka dei diari s’intreccia con la scrittura del fittizio filosofo vissuto sui pressi della Seconda guerra, in cui s’insinua il vizio apocrifo di Ercolani – crea scomposizioni affascinanti: “Quando lo ultimai, tre mesi dopo, non ricordavo esattamente chi ero stato durante la stesura delle singole pagine”, confessa Ercolani. Appare un nome, nel destino dei desti, Felix Weltsch, e una preveggenza: “Fantasticavo che il mio commento sarebbe stato conservato nell’archivio di Národní Knihovna, la Biblioteca Nazionale di Praga, nel quartiere Staré Mestò, proprio accanto ai Diari di Kafka”. Il libro dilata correlazioni, intimidisce per intimità, va letto con sospetto (le frasi del diario sono davvero di Kafka o rielaborazioni di Ercolani? A tratti ho controllato, si tratta di K., dunque il libro, L’età della ferita, è ottima feritoia per accedere ai Diari di K., ma non è questo il modo di leggerlo, non si tratta di costruire serrature bensì di scassinare porte, forse). Alcuni brandelli, sono molto belli:
“Lo ricordo al Caffè Arco. Bisbigliava come sempre, rivolto a me o rivolto a nessuno. Se tu non fossi un filosofo vivresti. Ma io senza scrittura non sarei più qui. Se scrivo, mi tolgo dalla legge degli uomini. Non mangio, non compro, non vendo, non scopo, non ho figli. Sono inutile, perduto. La scrittura mi permette di perdermi senza che nessuno, guardandomi in faccia, se ne accorga e inizi contro di me la guerra di cui sarò vittima”.
Una ambiguità buona resta alla lettura del libro. Ercolani, un Marcel Schwob in negativo, non si limita a immaginare le vite degli altri, ma a viverle, sovrapponendo documenti, codici, quaderni, lettere (ricordo i contrafforti della contraffazione, i testi di René Char e di Paul Celan, le scritture-crisalidi di Cristina Campo, Ezra Pound, Anna Achmatova, Cioran e Leopardi, Sigmund Freud e Hugo von Hofmannsthal). Depistando – cioè: mettendo sulla giusta via. Perché una vita letteraria esista davvero, occorre che un altro la ravvivi, rivivendola. Ercolani si muove quasi come un taumaturgo, un vagabondo tra i sogni.
Da dove viene questo tuo Kafka, apparso in sogno, per ferita inferta?
Arriva da un desiderio: avvicinarmi di più alla verità di un autore amato. Per i Diari di Kafka ogni commento critico sarebbe superfluo o inutile. Così ho sognato di essere un filosofo praghese, contemporaneo di Kafka, che inizia, nel settembre del 1938, a pochi mesi dalla rivolta della Cecoslovacchia antinazista, a leggere e a commentare la versione autografa dei Diari, con tanto di correzioni e disegni dell’autore. Con questo procedimento onirico Kafka mi è apparso come l’amico migliore per una conversazione tra fantasmi sulla tragedia della scrittura, trasversale a ogni tempo storico. Come scrivo nel libro: “L’uomo non deve farsi mai stancare dal sogno. Deve vivere i suoi incubi come unico orizzonte: saltarci dentro, a costo di tagliarsi le labbra. Con una sola convinzione: che gli incubi siano soltanto suoi”. Kafka ha saputo rendere sua la porta chiusa che lui solo avrebbe potuto aprire.
Da dove, anche, questa tua scrittura di escoriazioni, ruberie, ratti improvvisi, specchi, rispecchiamenti, finzioni, appropriazioni, identità sottratte e rifatte?
Ritrovare o inventare dei racconti “falsi” che sembrino “veri” non significa imitare tracce passate ma reinventare tracce anteriori che non sono mai esistite: creare un movimento di fuga da un io monodico e insonoro a un io multiplo, immerso in arcipelaghi di risonanze. L’io diventa una goccia d’acqua che batte contro una superficie – il testo – e da lì si espande in migliaia di gocce, ognuna delle quali, nella sua differenza, conserva la stessa identità della goccia-madre. L’arte è il paradossale tentativo di cura dalle distorsioni e dalle ingiustizie subìte nel corso del tempo e della storia da uomini e artisti: un’arte destinata a sopravvivere come fantastico desiderio di giustizia contro i soprusi del potere. Il testo apocrifo è la guarigione immaginaria da una ferita inguaribile. La cura di un’assenza attraverso una presenza fantastica. Come per i sacchi cuciti del medico Burri, qualcosa di lacerato va ricomposto. La guarigione, in questo caso, non è la cura razionale che sopprime la malattia ma una benefica follia di libertà, uno sciogliere, à rebours, cose e pensieri dall’eccesso di repressione e di violenza che li ha fatti ammalare. Ogni opera autentica è costituzionalmente incompleta, perché invasa da tutti i libri possibili che l’autore ha pensato e sognato senza scriverli: porta in sé la sua incompiutezza e il suo fallimento, anche se ogni testo che la compone, considerato autonomamente, può sembrare compatto e riuscito. È come una voce che ne chiama un’altra, in un corale collettivo non riducibile al silenzio, un “concerto” di parole che continuano oggi e domani a parlare da sole, servendosi di noi come di strumenti più o meno adeguati.
Perché, poi, i Diari di Kafka: lo scarto dell’opera, i frammenti negletti, nottambuli? Cosa cavi da quel pozzo?
I Diari di Kafka non sono frammenti negletti o scarti, ma la matrice stessa della sua opera, il nucleo riflessivo originale da cui hanno preso forma le opere maggiori. Ricordiamo che molte delle opere kafkiane, anche i celebri romanzi, hanno l’apparenza di frammenti aperti, irriducibili a simboli e interpretazioni. Cito dal mio libro questo breve contrappunto tra il testo kafkiano e il mio commento:
Domenica, 19 luglio 1910, dormito, destato, dormito, destato, vita miserabile.
La tristezza si concentra tutta nel suo essere tristezza, non nei motivi che l’hanno determinata. Sobrietà. Disperazione. Alternanza sonno veglia, con ritmo implacabile. Ma i polmoni non sono superbi e incrollabili come si vorrebbe. Avere la morte annodata al proprio respiro costringe a un cammino ansioso, interrotto, incerto, ma è anche un grande vantaggio: sapere di non consegnare agli amici un corpo, il proprio, reso irriconoscibile dalla vecchiaia; sapere che non si morrà soli, dentro un corpo violato dalle rughe che non ci appartiene più, ma che qualche amico ci vedrà come siamo stati e ci seppellirà, forse piangendo.
Ecco, questo è l’esempio di “risonanza” che prediligo: un dialogo immaginario ma plausibile e reale, dove lo scrittore è tanto narratore quanto critico.
Non so se scrivere queste chiose attorno a Kafka sia un sacralizzare o un bestemmiare, una blasfemia o una carezza. Dì tu.
Direi principalmente una carezza. Ma all’interno di un discorso che è blasfemo, perché non si regge su nessun ordine sacro ma è un ponte teso sopra un abisso che alla fine resta, come scrive Victor Hugo, “lo stesso, abisso, con le stesse onde”.
Scrivi una frase kafkiana che ti trafigge, ora, e commentala ex novo, recuperandoti da un sogno, ancora.
Ecco la frase di Kafka, dagli Aforismi di Zürau, sulla quale posso tornare a sognare:
Un tale si meravigliava di quanto facilmente procedesse sulla via dell’eternità; di fatto, stava sfrecciando in discesa.
Mi ha sempre sorpreso che in pochi capissero l’ironia di Franz: eppure era così evidente, anche nella più semplice frase, come la via dell’eternità paragonata a uno scivolo da lunapark. Anche la metafisica, per lui, era un gioco, e la serietà il corollario del gioco. Vorrei che i suoi lettori imparassero a sentire, a distanza di anni, che nessuno, neppure Kafka, ha pronunciato frasi oracolari. Tutti partecipiamo, tutti insieme, nel sogno della scrittura, alla stessa trama. Di giorno, come Penelope, tessiamo la tela; di notte, la disfiamo. Per Franz che soffriva d’insonnia (riderebbe ascoltandomi), forse accadeva il contrario.
È evidente la natura doppia e insidiosa di una narrazione che induce a “mettersi al posto dell’altro”, per rendergli omaggio e farlo rivivere, ma anche e contemporaneamente per espropriarne la parola, per annullarlo sostituendosi a lui. Si tratta di un ambiguo rubare-possedere la parola, di un resistere in una zona di confine dove chi dice io comunque mente, sia perché non è l’autore a cui viene attribuito il testo sia perché chi si sostituisce all’autore prescelto comunque realizza un falso. In questa doppia falsità, rifranti da maschere e specchi, si sviluppano come un sogno di verità le fantasie che agitano la mente dello scrittore. Non c’è nulla di più fecondo di questo parlare obliquo, non sapendo mai da dove arrivi e dove giunga la verità. Non c’è nulla di più sincero che parlare attraverso continue rifrazioni, che colgono la verità esattamente per quello che è: il riflesso di un sogno che forse non era neppure il nostro sogno. Resta vero, per me, quello che io nel libro affermo di Kafka, per pura intuizione: “Meglio strappare che seppellire. Meglio l’aperta ferita che la sepoltura silenziosa. Nulla di ciò che è muto mi convince, se non sono io a volere il mio mutismo, io a decidere il mio silenzio”.
…e adesso, dentro quale finzione sei immerso, quale spirito vai trafugando?
In 14 luglio 1929. Due lettere a Freud, mi sono immerso nei destini di due celebri scrittori austriaci, Hugo von Hofmannsthal e Arthur Schnitzler, che confidano a Sigmund Freud, in due lunghe lettere, i loro rispettivi, irreparabili lutti: uso qui la forma dell’apocrifo, a distanza di oltre un secolo, come chiave di accesso al comune dolore della perdita di un figlio. Ma il libro è uscito nel 2022 e per me è già antico (la mia idea è che lo scrittore sia proiettato, da sempre, nel vortice dei libri che scriverà, anche se non ne è ancora cosciente, perché non esiste un ultimo libro ma solo una nuova tappa del viaggio). Negli ultimi mesi, infatti, sto lavorando a un volume dal titolo provvisorio Winterreise (Viaggio d’inverno), formato da microracconti, paesaggi psichici, cronache di guerra e di pandemia, incursioni nella follia: un mio personale “Zibaldone” che echeggia le Operette morali e lo Zibaldone leopardiano, i soli esempi, nella letteratura italiana, di una scrittura sofferta come allarme, affetto, pericolo, eterna e straziata autoriflessione dell’io nel/contro il mondo. Come scrivo ne L’età della ferita: “La scrittura vive i confini incerti di ogni parola e i confini scorrono dappertutto. Fare arte è esserne consapevoli, resuscitare, ricomporre, ripensare, risognare. E se si scrivesse solo per ricordare uno stato di pericolo, di stupore, che mette in dubbio la vita come la parola? Kafka, di questo stato, è l’essere più cosciente mai apparso sulla terra. La scrittura come cancellazione personale della paura. Quindi sì, alla fine occorre dimagrire, diventare scheletri, offrire all’aria il massimo spazio finché la scrittura torni a germinare”.