13 Maggio 2020

“L’ultima pagina si scrive in ginocchio”: Francesco Biamonti, tra Corto Maltese e Pascal

Nel sistema mistico, egli è l’occhio di Dio che si chiude, stagiona tra le ciglia del divino che si ritira in sé, tzimtzum diceva Isacco Luria, la contrazione, l’Uno che riflette se stesso, che si mangia, forse, dando al creato folgore di eccedenza, di illusione. “La lingua è un oggetto sacro che riflette anche la riflessione su se stessi, più che sulle cose”, diceva. Bisogna andare lassù, a San Biagio della Cima, raspare la luce in scaglie, salina, dove Nostra Signora dei Dolori si onora agitando i rami d’ulivo, lingue d’argento che inneggiano all’uomo primordiale, angelo e lucertola, per capire la Cabbala – tutto ciò che è ora è per l’eternità – e l’opera di Francesco Biamonti.

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Fu uno – l’altro era Alessandro Spina – con cui desiderai parlare: ma la Liguria è una cicatrice sul fianco della tigre originaria, impone solidità, schiettezza, silenzio. Biamonti parlava a gesti, accennava a verità risapute – ma ormai dimenticate – roso dalla malinconia per le vite anteriori – sembrava aver vissuto Pangea, e le sue pupille rispondevano con evidenza di quarzo. La storia di Biamonti è incardinata lì, in quei borghi rudi, sopra il mare, in vertigine verticale, roccaforti costruite con prestigio marmoreo da trapezista, al confine con la Francia, alieni al fervore turistico, radicati alla terra, fino a farne idolo. Parla di passeur la sua opera: di quelli che non sono di qui né di là, allevati al confine, in perpetuo espatrio – soprattutto, adatti a sconfinare nel regno dei morti. E il mare, quando lo si varca, per lite tellurica, è il limbo azzurro, un lembo di gloria, fatica alla resurrezione. Ecco: l’opera di Biamonti mi pareva una sintesi tra Corto Maltese e Pascal; fosse americano, per quel suo istinto al territorio, anticonformista, l’avrebbero ricoperto di Pulitzer – e lui li avrebbe rifiutati, uno a uno, severo, come la notte in quel gorgo di Liguria, chiodata di stelle e vipere che chiacchierano.

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Con un libro, Attesa sul mare, Biamonti fu eletto nella cinquina del Campiello: c’entrava nulla, lui, tra gli altri, Alberto Arbasino (era lì con Fratelli d’Italia), Giuseppe Pontiggia, Margaret Mazzantini. Per la cronaca, la vittoria assoluta andò a Tabucchi, con Sostiene Pereira. Aveva esordito, pluricinquantenne – avida classe 1928, sul confine di due guerre –, dieci anni prima, con L’angelo di Avrigue. Italo Calvino, che l’aveva scoperto, parlava di “voce grave e pausata, con una naturale propensione per i toni lirici e sospesi” e le “parole vere e insolite e precise”. Era la storia, quella, di gente sconfinata, la cui solitudine, appunto, non è abominio ma tono angelico: e le donne appaiono, con nomi babilonesi, feroci e divinizzate, come evocazioni d’astro. “Una luce radente spianava il mare e lo sollevava nelle insenature; anche al largo esso si alzava sino a cozzare contro il cielo. Un altro mare, d’ombra, scendeva dalle catene montuose… La mente è imprevedibile, e stasera era alle terre che s’abbarbicava il suo sogno… La fredda sera si prolungava su una sorta di terra-grembo”. Giovane mai inquadrato, Biamonti, di vagabondaggi spagnoli, francesi; fu per un pezzo bibliotecario all’Aprosiana, Ventimiglia – e questo mi ricorda l’altro scrittore-bibliotecario italiano, Piero Meldini. Ammaccato di pudore, come chi sa che non si invecchia guardando le cose. “Frequentava i caffè e i locali della Riviera meno affollati, dove raccoglieva storie di varia umanità, contrassegnate dalla paura, dall’indolenza, da un’indefinibile angoscia: brandelli di vita vissuta che poi ricuciva nei suoi romanzi attraverso impasti cromatici e bagni di luce che rivelano in lui una non comune conoscenza pittorica, corroborata dall’amicizia e dalla frequentazione di Ennio Morlotti e di altri artisti non meno qualificati”, scrive di lui Francesco Improta in un sito che gli è dedicato, ma è fermo al 2015, come un rifugio roso dall’edera.

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Pezzi di fuoco che si possono afferrare – quando scoprii Biamonti (per un tratto ho frequentato Bordighera), lo leggevo centellinando le pagine, come si svolge un rito e delle parole bisogna ambire al sentore ferreo. Tentarono di farne un autore di culto – di fatto, pare un Cormac McCarthy di Liguria – senza riuscirsi. Biamonti non ammette altra liturgia che il disincanto: i suoi libri, pochi e straordinari, in catalogo Einaudi, non sono più ristampati dal 2014 (Le parole la notte, in origine 1998, l’ultimo romanzo di una vita spentasi nel 2001), che è come dire dannare all’oblio uno scrittore. La raccolta Scritti e parlati, introdotta da Sergio Givone (Einaudi, 2008) risulta esaurita, alla faccia dell’enfasi (“Oltre trent’anni di scrittura – e d’idee, di pensieri, di emozioni – raccolti in un libro-ritratto”), ed è un peccato. Lì Biamonti parla dei suoi grandi, della “musica da sfacelo” di Céline, “mendicante fuori del tempo” – in un articolo pubblicato su il Giornale, il 17 novembre 1991 – della fratellanza con Julien Gracq, di Paul Valéry, “il più oscuro e limpido dei poeti”, dell’“arte scheggiata” di René Char, di Faulkner (“Faulkner diceva che ogni pagina è un disastro, e che più bella è la pagina più grande è il disastro. Per me scrivere è un disastro luminoso”). “Nella vita c’è sempre una mutilazione”, scrive in una Breve nota autobiografica; in un testo sulla scrittura, del 1994, “Si scrive dal fondo di una prigione ideale, a cui si affacciano rari volti amici. Scrivere non è un colloquio, ma un soliloquio. Le ultime pagine di un testo di fantasia si scrivono quasi in ginocchio”. Tra stare in ginocchio e mutilazione, i libri di Biamonti, breviario del mondo avverso, un valico.

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“Uscirono dal monastero. Il sentiero scricchiolava senza svegliare il bosco che dormiva. L’isola era attraversata da un’aria pura. Sabèl camminava lentamente e s’era lasciata distanziare. Pensava al teschio sulla sabbia nella cappella, ai muri spogli del monastero, al cielo che continuava il mare. Sentiva una nostalgia che andava al di là degli uomini”. Vento largo (1991) è libro di un centinaio di pagine, fragile come un riflesso di luce su un vetro colorato. Qui ci si chiede quanta nostalgia abbia Dio del Giardino e di quel legame fulgido con l’uomo prima di essere uomo.

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“Aspettarono un racconto invano, seduti assurdamente per terra. E tornarono indietro, delusi di non aver avuto il coraggio di proseguire e affrontare il buio”. Le storie si raccolgono dalla terra, afferrando il lembo del buio: Biamonti come una tela di Nicolas De Staël, di allucinata nitidezza, sulla soglia del segreto. Pare perfino ovvio che ci si dimentichi di Biamonti, scrittore per rari, che diceva, con la stellata dedizione di un dio di pietra, “Mi piace non dire niente; io sono da cancellare; la mia vita non conta nulla; i miei natali non hanno importanza; il mio paese è insignificante”. Una tortura di negazioni fa un regno. Bianco su bianco è la materia verbale di Biamonti: quello che resta è la visione ultima. Lampeggia, è salina, un dio avvolto in spirale, al crocevia della prossima alba. (d.b.)

 

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