06 Ottobre 2019

“I morti sono un mondo, eccentrico o spirituale, da cui poter entrare e uscire per tutta la vita”. Le note di Francesca Ricchi intorno al suo romanzo (che squarcia il tema fondamentale) “L’incanto dei morti”

C’è una atmosfera da favola gotica, un sogno sfrenato dei fratelli Brontë, esagerato all’unisono. E l’acme della distopia, il fermento di J.G. Ballard. “L’incanto dei morti” già di per sé, nell’alcova del titolo, dice. I vivi vivevano nell’incantamento dei morti: i morti vegetano come un incantesimo sulla vita. Per questo, a loro intonano canti, i vivi – per vincere l’incantesimo e costruire un patto, con i morti. D’altronde, l’incanto è la vendita a chi fa l’offerta migliore – un patto in denaro. I morti, privi di incantesimi e di personalità, vengono venduti all’incanto – quasi ovvio il rimando meditato a Gogol’. In effetti, è uccidendo i morti che sregoliamo la vita. “Le tre bianche città di Belvisto si erano arricchite grazie ai morti. Rinnegandoli prima e sfruttandoli poi, trasformando i funerali nel più prodigioso circo di affari”. La ‘quarta’ de “L’incanto dei morti” (Emersioni, 2019) pare già l’aggancio al narrare. Il libro, che parte in annuncio (“Anche i morti hanno un cuore. Era inciso sul cassettone del tavolo che avevano comprato in un paesino tutto legno e mucche…”), ha una scrittura sospesa, arricchita in simboli (fin nella cruna dei nomi: Esmeralda, Melusina, Serafina, Adelaide…), raffinata, come una firma su oro: “La città funeraria, a nord dell’altopiano, era l’avanguardia sul dominio intrattabile di catene montuose immolate a indomabili freddi. Ed era l’ultimo gemito di vita su cimiteri sconfinati”. In realtà, il libro si legge proprio come un romanzo – dozzine di dialoghi, fatti, ‘storie’ – ma a me conquista il carato ‘morale’ della vicenda, la scrittura scandita. Che rapporto intratteniamo con i morti? Quale lotta al soffocamento? E come ci devia la mancanza? C’è, nel libro, una donna potente, un paese che ghigna, la scienza che alligna, l’ugola dell’amare. Contatto Francesca Ricchi per chiederle motivo del libro, attraverso una intervista. Lei, in sostanza, mi risponde con una specie di inatteso breviario, che mi pare l’ottima camera d’attesa al suo libro – e che dice del ‘carattere’ della scrittrice. Qui, quindi, ricalco le sue frasi. Prive di domande, che non hanno necessità.

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Le tre città di Belvisto sono innanzitutto un’ossessione poetica, insieme a un richiamo alla tradizione letteraria distopica intesa non come realizzazione del peggior mondo possibile, ma come accettazione della già avvenuta attuazione del peggior uomo possibile, a prescindere dai mondi, e a partire dal nostro.

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L’ossessione persecutoria è l’inevitabile incomprensione del male, e porterà all’inevitabile mancanza di risposta, se è una risposta quello che cerchiamo. L’ossessione poetica è la possibilità di una visione (comprensione) prima dell’errore.

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La risposta è l’errore, se come pare, ha bisogno della razionalità che subisce la manipolazione dell’inconscio, e dunque del diabolico filtro: il vetro di Ritsos, che separa i vivi dai morti, non permette si tocchino e soprattutto si comprendano, o l’occhio di vetro sulla fronte dei morti in una casa di morti, da cui non si può uscire visto il fiume rosso che la circonda, se non accompagnati a un’uscita che è “un’altra morte, necessaria, inevitabile, scaltra”. Come se qualsiasi contatto fosse davvero impossibile, e quindi la Quarta Dimensione irraggiungibile, se non, forse, come effettiva verità prima della risposta, che Ritsos cerca nel “senza tempo” del mito (o meglio nei morti senza tempo del mito), e Belvisto annienta nel genocidio del sé.

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Le città dell’Incanto dei morti sarebbero dunque proprio il manipolatore, la dittatura inconscia, la tempesta di neve che si stende sui vivi e sui morti (“lievemente” direbbe Joyce, ma “continua” e quindi inesorabile), e al tempo stesso la sospensione intesa come quella verità che nulla ha a che fare con i “dati di fatto”, ma piuttosto con una dimensione di quiete, di coscienza, di beatitudine (Baudelaire) o contemplazione (Eliot), che è l’ossessione di partenza. Questa sospensione Belvisto parrebbe averla vissuta, ma l’ha perduta, colpevolmente, e deve annientare ogni rigurgito (indistruttibile) e ogni persona che immancabilmente la riproponga.

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Se Char è definito da Caproni “oscuro per troppa folgorazione” e Mallarmé vuole rievocare il senso delle cose dall’oscurità, dal non detto, solo tramite allusioni che possono apparire incomprensibili (e quindi sembrerebbe temere – o essere consapevole – che qualcosa potrebbe venire a disintegrare questa verità se solo la si nominasse), Belvisto deve mantenere la non-visione attraverso la luce accecante della neve, bianca, quindi a specchio, e non gialla, quindi penetrante. Il reale e l’irreale appaiono così come due specchi che si riflettono, non escludendosi ma definendosi in totalità e quindi in mancanza.

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La morte di Belvisto è insana in quanto viva imposizione di risposte, e dunque lontana dalla morte come verità, o liberazione in un’altra possibilità. Somiglia alla “morte apparente” di Artaud, richiamo a una certa condizione dell’uomo, che come “mummia”, quindi rinchiuso in un sepolcro (che è il mondo stesso, dapprima interiore), svolge unicamente i riti necessari per sopravvivere, o almeno non decomporsi: “E l’eternità ti sorpassa, poiché non puoi passare il ponte”, A. Artaud.

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La verità potrebbe esistere, ma sta nella tomba del più sperduto cimitero di Belvisto, in bilico sull’abisso in quanto in bilico sulle ipotesi: accettare l’abisso della grande rupe è accettare il vuoto della mancanza di risposta, come nucleo profondo in cui trovare la risposta. Se e quando si troverà una via, la tomba si potrà di nuovo svuotare, e rischiare una nuova presa sul mondo dei vivi.

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L’incanto dei morti narra di una società che svende le salme (e le speranze, e se stessa) nel fallimento più totale dell’essenziale, ma che si potrebbe salvare se dai morti si lasciasse sedurre (la doppiezza del termine incanto ne è testimone). Impone a tutti di avere un ruolo, pratico, legato alla catena di produzione mortuaria, che comincia dalla malattia: attrarre (ma anche fabbricare) malati è prodromico all’arricchimento. Immancabilmente questo paradigma subisce perdite, come guizzi vitali, da ogni poro, in una guerra serrata tra tutti (morti viventi, spiriti, e vivi che appartengono ai morti), sotto lo sguardo attonito e assoluto dell’abisso: “Non ho paura. Ho solo la vertigine” (R. Char).

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Le risposte sono necessità mortali (assassine), che annientano qualsiasi opzione di domanda, e uccidersi in vita per ottimizzarne l’ideale è il necessario prezzo o sacrificio alla luce bianca, che permette l’unica visione rassicurante. Morti viventi o drogati di infusi misteriosi, poco importa, le porte di Belvisto non si apriranno mai alla vita, né alla salvifica luce della morte. Non c’è salvezza benché non ci sia crimine, nessuno infatti (che non sia rinnegato) percepisce più il crimine come tale anche se commesso dai potenti, che sono ormai gli unici a commetterlo: Belvisto in questo è la dittatura perfetta, di cui non si percepiscono gli orrori, proprio come quelli che può arrivare a imporci l’inconscio, se in essa si fonde o meglio si realizza. La violenza repressiva è direttamente proporzionale alla debolezza delle vittime, e la razionalità è la più debole di tutte.

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“Vivo sotto un’eterna repressione, che non si allenta mai, se non quando scrivo” (John Keats).

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Nella morte intravedo la chiave di risoluzione di alcune ossessioni predominanti, o tormenti che ci appartengono più di quanto ne siamo consapevoli, e che cerchiamo di allontanare proprio navigando solo sulla superficie della quotidianità, facendoci violenti con noi stessi e con gli altri per non affondare, non credendo che proprio sul fondale si possa celare la quiete, o verità, e si dipani il mistero.

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Cesellare e limare l’anima, grattare in sottrazione di costrizioni, di interruzioni di orizzonti, del peso dei limiti, seppur evidentemente impossibile, porterebbe a una condizione essenziale, a un eccesso di vita, che potrebbe consentire di afferrare il mistero da vivi. Questo tentato avvicinamento si può scorgere in molti luoghi della storia filosofico-letteraria, ma anche nella psicologia (magari in una delle intuizioni più importanti di Freud, per cui nell’inconscio non esisterebbe il tempo), nella pittura, nell’arte globalmente intesa, che sarebbe lei stessa un mondo altro che indaga questa opportunità.

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I morti per me sono appunto un mondo, eccentrico o spirituale che si voglia definire, da cui poter entrare e uscire per tutta la vita. I richiami, i consigli, le disperazioni o speranze, sono un flusso comunicativo costante, se ci si dispone all’ascolto, e credo siano una parte essenziale dell’esistenza, l’accesso ai quali dipende più da un eccesso di consapevolezza che di follia. La violenza più drammatica è tutta nell’etichettamento, che non è solo una teoria criminologica per cui noi tendiamo a diventare ciò che ci dicono che siamo, ma un subdolo modo per denigrare qualsiasi visione un minimo più alta che il descrittivo quotidiano, dotata dell’improbabile benedizione della certezza.

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Le letture che sconfinano tra le righe del libro sono tante, alcune più tangibili, altre disperse in emozioni, e molte le sto dimenticando. È difficile non scorgere subito il connubio neve-morte di Thomas Mann, e forse lo stesso incanto che altro non è che aver valicato già il passaggio, senza alcuna possibilità di ritorno a valle, che è semplicemente indietro, e dunque una montagna come sogno non onirico, ma palpabile premessa a una rivelazione dl cui assedio l’uomo per terrore e inconsapevolezza si ritrova terrorizzato, ancora più se ne percepisce la calma.  Anche Joyce scorge una livella tra i vivi e i morti nella neve, che tutti ricopre senza distinzione, quieta, appunto, ma inesorabile.

Le atmosfere vagamente sospese della sorpresa, della frattura interiore come richiamo a una diversità necessaria, ricordano anche Henry James, la sua convinzione che agli scrittori spetti il compito di moltiplicare le visioni del mondo, e certamente il suo sentimento di emarginazione, che preferiva simboleggiare tramite figure femminili. Come forse certe atmosfere non di orrore, ma di paura come ineluttabile chiave di volta per il ripristino di coscienza, richiamano Lovecraft, e con lui il suo mentore Arthur Machen come simbolo dell’eterno desiderio (e mito) dello ‘scienziato pazzo’. Nel suo Il grande Dio Pan, l’uomo nel suo delirio di impossessarsi dell’aldilà vede sciogliersi il corpo umano pezzo per pezzo, e scomporsi di estasi in estasi fino a ridursi al bramato “principio della vita” in un’apoteosi di potenza, ma dura poco, in breve il principio diviene orribile, e muore, quasi che la verità del corpo sia solo orrore e la punizione necessaria sia mortale, e ancora una volta la pace stia altrove.

C’è molto dei surrealisti sudamericani: Pedro Paramo di Juan Rulfo è uno dei migliori dialoghi con i morti siano mai stati scritti. Non si possono non citare Gogol’, e le sue Anime Morte, o l’isteria della Pietroburgo di Belyj, ma anche il Diavolo di Bulgakov da qualche parte fa certamente capolino.

Rimanendo in Italia, si potrebbe pensare che la rupe di Belvisto somigli in qualche modo alla Fortezza di Buzzati: sollevando nuovamente l’inquietudine del non ritorno, come terrore e insieme invincibile necessità. I canti della mezza morte di Savinio richiamano la necessità dell’abisso come distruzione dei canoni prima di tutto dell’immaginario, per la liberazione non dall’ordine come concetto, ma dalla estrema inettitudine degli ordini umani. Belvisto somiglia pure ai luoghi impossibili di Landolfi, e qualche cosa del torbido, dello stregato interiore della Pietra Lunare gli appartiene, come la tensione verso il simbolo astrale per l’unica forse pensabile liberazione.

Per concludere in Esmeralda c’è anche Kaguyahime, la principessa lunare che cade sulla terra e prova a restarci, ma le è impossibile nonostante ogni tentativo, mentre di lei resta l’aleggiare del soprannaturale, senza motivi né un destino, ma come ineludibile restare del suo passaggio con cui nessuno avrebbe potuto sperare di non fare eternamente i conti.

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La repressione di cui parla Keats mi è profondamente chiara: tutto quello che non è creazione è costrizione, e se si prescinde da questo sarà difficile anche solo tentare di essere un solo gradino più verso l’alto.

Francesca Ricchi

*Venerdì 11 ottobre il libro di Francesca Ricchi, “L’incanto dei morti” sarà presentato a Roma, presso La Nuova Pesa (via del Corso, 530), alle ore 17,30, da Arnaldo Colasanti e Andrea Caterini

**In copertina: William-Adolphe Bougereau, “L’eguaglianza davanti alla morte”, 1848

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