19 Ottobre 2022

Gli anni tagliati con l'accetta e Gratitude

PRIMA

Il sacerdote fece discendere la mano in un gesto lento e perfetto mentre le labbra gli si aprivano emettendo un suono che sembrava venire da un luogo profondo dell’anima. Poi disse:

La condanna che ti sei scelto è quella di essere diviso in due, una parte che sentirà, l’altra che invece non sentirà nulla. E per sentire la parte avrà bisogno di una polvere strana , qualcosa che non esiste, ma che esisterà allora quando tornerai… perchè tu ritornerai, verso la fine dei tempi nuovi e l’inizio di quelli antichi quando la Terra avrà bisogno di aiuto. E la cosa terribile sarà che queste due parti, quella che sente e quella che non sente, prenderanno l’una il posto dell’altra, a turno, di modo che tu non saprai più quale è quale.
In tal modo sarai convinto di sentire e provare dei sentimenti che invece non proverai. E quando invece sarai certo di non sentire nulla ecco che proprio lì il profondo della tua anima sentirà quel che la testa non saprà di sentire’.

Gli occhi del vecchio Atar si abbassarono e guardò i suoi calzari laceri. La vita se ne andava. Stava morendo, lo sapevano tutti. La sua malattia era terribile e gli era vietato di guarire.
I sacerdoti, sia le donne che gli uomini, si rifiutavano di dargli la cura che l’avrebbe salvato.
La cura esisteva ma non per lui.
Lui, l’uomo perfetto, il grande sapiente, aveva gettato al vento il dono che gli era stato dato alla nascita, l’aveva tradito tradendo il suo popolo. Poteva vedere il futuro come nessun altro ma l’uso che aveva fatto di questa dote era stato ingiusto e per questo ora non poteva essere curato ma doveva morire.
Successe quindi che lui morì solo, abbandonato sulle soglie della città etrusca, sul ciglio della meravigliosa strada di tufo.
E mentre moriva risentì le parole del sacerdote che ripeteva: ‘Dovrai riunire le due parti, questo è il tuo debito con il tempo. Nella prossima vita la tua anima profetica sarà bloccata dall’ansia e dalla paura perchè soffrirai negli anni dell’infanzia. La nascita e gli anni subito a seguire verranno ‘tagliati con l’accetta’, saranno cioè anni terribili e così che il tuo occhio divino ne verrà accecato.
Ti sarà dato di nascere sotto una stella che ti renderà collerico e sotto un’altra che ti renderà magnanimo e sarà tua assoluta necessità nella vita far prevalere la seconda sulla prima così che sarai buono e dolce e trasformerai la collera in guida verso la via della luce, in modo che controllando la collera usciranno dalle tue labbra parole di miele e saggezza.
Ti sarà molto arduo scordare i torti subiti tanto che porterai rancore ricordando continuamente ogni particolare di ciò che hai sofferto e troppo ne vorrai a chi ti ha fatto subire un torto.
Perdonare sarà quindi difficile, ma se riuscirai a guarire in te quel grande torto da te subito nei primi anni tagliati con l’accetta, allora perdonare diventerà facile perchè ucciderai in te l’uomo che vuole uccidere.
Quest’uomo che vuole uccidere infatti lo sentirai dentro di te e penserai di essere tu, ma invece sarà colui che ha ucciso qualcosa in te negli anni tagliati con l’accetta mentre la donna accanto a lui non lo fermava perchè essi altri non saranno che tuo padre e tua madre.
E la polvere bianca ti darà la falsa certezza di poter riaprire il tuo occhio divino, ma in realtà sarà soltanto un’illusione perchè i tuoi occhi si piegheranno in avanti con il tuo corpo, come se fossi sempre sul punto di dormire e crederanno di vedere mentre invece le tue palpebre saranno abitate da fantasmi.
Molte persone saranno nella tua stessa condizione , nel tempo in cui vivrai, e ognuna per ragioni diverse.
La tua ragione è quella che stabiliamo noi ora ed eccola : ti sarà data la possibilità di ritrovare l’occhio divino che non hai saputo ben amministrare in questa vita e la tua esistenza in quel tempo sarà spesa alla sua ricerca.

La forza che hai dentro però sembrerà mancarti perchè l’accetta l’avrà tagliata nei tuoi primi anni e sarai spesso convinto di essere un debole.
Solo nella seconda metà della vita la ritroverai e con molta fatica, perchè prima la tua superbia ti farà scambiare la realtà con l’illusione e la polvere bianca ti condurrà su una strada senza uscita.
Ritroverai l’occhio divino solo quando capirai che la forza sta in quello che credi sia debolezza, nel parlare, nel fissare il proprio limite. Se lo farai la forza verrà di nuovo e potrai aiutare gli altri.
Non ci sono eroi senza paura. E nella donna blu troverai l’altra metà di te stesso. Ricordati sempre che noi sacerdoti siamo sia uomini che donne e così dovrà essere anche in futuro o il futuro sarà condotto verso l’abisso. Uomini e donne. Ma nel tempo in cui tu vivrai ci saranno solo sacerdoti uomini e questo porterà la terra alla rovina e il tempo sembrerà fermarsi’.

Così parlò il sacerdote etrusco, circondato da donne e uomini sacerdoti. Poi tacque. Il sole stava sorgendo e Atar stava morendo. E mentre moriva guardando il cielo blu limpido e terso sentì che quel blu l’avrebbe salvato quando fosse tornato di nuovo sulla Terra, la Terra che aveva molto amato ma da cui si stava ora allontanando perchè la sua anima scivolava via e non poteva fare nulla per arrestarla. Si aggrappò a quel blu e riuscì a sopportare la paura di morire.
Fu così che l’anima di Atar fuggì da lui, impaziente di liberarsi.
Si allontanò da lui e scappò quale un bel corpo nudo di donna che corre su di un prato verde.
Così morì e i sacerdoti etruschi, donne e uomini, lo trovarono con gli occhi aperti in uno sguardo pieno di desiderio.

‘Tornerà volentieri’ dissero.
Gli sparsero un unguento sulle tempie e sussurrarono all’orecchio del suo corpo ora senza vita: ‘Questo unguento ti darà un aiuto nella vita a venire: il talento. Usalo’

*

IL RITORNO

La luce si fece densa e in un turbine gli venne ridato il tatto, il gusto, l’olfatto, l’odorato. Ultima: la vista.
E usci’ dal ventre della madre, felice.

Crebbe velocemente. Gli misero gli occhiali da piccolo. La vista faticava ad accettarla.

Con gli occhiali a tre anni si guardava allo specchio e faceva le facce per farsi ridere da solo.

Non poteva più sopportare quelle urla. Non poteva più sentirle. Quelle urla voleva dimenticarle, perchè non sapeva più se erano le sue o quelle di sua madre. Sentiva solo la voce pulsare dentro di sé ed eccolo in un’auto ..qualcuno, suo padre spingeva qualcun’altro (sua madre) dalla porta in mezzo alla strada..no! non farlo! gridava il bambino e piangeva.
Era solo. Solo. Nessuno a proteggerlo.

Cresceva senza che nessuno capisse la sua mente. La sua mente era acuta e intorno a lui vedeva solo sassi. Sguardi duri. Un sorriso qualche volta, ma non era il sorriso di cui aveva bisogno.

Sentiva la sua intelligenza vacillare perchè le sue emozioni sconnesse gliela portavano via.
Soffriva e tremava ogni volta che il padre si avvicinava.

I suoi occhi perdevano la loro acutezza. Chi gliel’avrebbe ridata? Chi l’avrebbe aiutato a ritrovarla?

*

UN PO’ PIU’ AVANTI

Era stanco e quel pezzo di strada in salita l’aveva davvero sfinito. Era un giorno migliore degli altri, aveva faticato meno ad arrangiarsi. Ed ora stava bene. Aveva quello che voleva, la sua pace dentro, l’onda calda nel sangue.
Aveva pensato spesso a quest’onda cercando di vederla accanto a sé e gli appariva sempre senza colore. Non invisibile, semplicemente senza colore, ma ne coglieva tutta la forma e ne distingueva con chiarezza la massa. Ora questa massa gli scorreva nelle vene e quindi non era più solo. Era con lei, solo, e insieme a lei al tempo stesso. Il sole gli scottava la pelle e cercò di ripararsi sotto ad un albero. Perchè si fosse spinto così tanto fuori città non lo sapeva neanche lui. Era stato il desiderio di stare lontano dalla strada dei suoi traffici umettati di sangue, la necessità di staccarsi dalla bolgia della sua giornata quotidiana fatta di astuzie obbligatorie.
Si era distrutto, si era fatto a pezzi, la vita si era ridotta ad uno stento quotidiano, un calvario. Dal mattino appena sveglio la Provvista faceva capolino con il suo volto sensuale e con quelle labbra carnose che lo invitavano a godere, godere, godere.
Lo stato cosiddetto normale, era scomparso molto tempo prima, lasciandosi una scia nera dentro di sé.
Normale era sinonimo di morte, le sensazioni distrutte, svuotate come tante piccole caselle di un alveare abbandonato.

PIU’ AVANTI ANCORA

Eccolo camminare nello stesso luogo, quell’antica strada etrusca con i muraglioni di tufo in mezzo alla campagna. Finiva sempre per andarci appena poteva. Quella strada era per lui come una compagna e non sapeva esattamente come mai.
Ora le cose andavano meglio perchè non era più obbligato ai soliti traffici.
Aveva un lavoro e cominciava ad essere anche bravo perchè lavorava con i computer e si stava abituando a loro come a necessari colleghi di viaggio.
Cosi’ non era più costretto a ramazzare nella follia della sua giornata per trovare l’onda. Ora la trovava a testa alta, la comprava con dignità.
E poi aveva incontrato degli occhi. Quelli di lei. Si massaggiò le tempie. Quando pensava a lei un calore alle tempie lo prendeva, era piacevole ma strano.
Si accasciò sotto l’albero e si lasciò andare all’indietro sul prato. Tra i rami fitti filtrava il cielo a chiazze e guardando quel blu si sentì tranquillo perchè gli ricordava gli occhi di lei.
Dormì. O almeno si svegliò, quindi gli parve di aver dormito. Sapeva che l’onda non lo aveva mai abbandonato e quindi poteva contare su di lei sia che dormisse sia che fosse sveglio.
Avvertì un dolore che arrivava da qualche parte lontana del corpo e si rese conto che era la mano a dolergli e d’un tratto si ricordò. Aveva sferrato un pugno, aveva perso completamente il controllo. Quella rabbia assoluta che lo prendeva talvolta, l’aveva sopraffatto e il pugno era partito ma per fortuna aveva colpito un apparecchio che aveva in casa, una macchina. Qualcosa di dis-umano, non qualcosa di umano.
Disumano non umano. Bene. Meglio cosi’ quindi. Bene, meglio così. Disumano non umano. Anche lui si sentiva spesso così.
Cominciava ad avere sempre più timore di se stesso perchè aveva paura che la prossima volta avrebbe potuto ferire qualcuno. Far male a qualcuno, forse molto male. Dove giaceva questa rabbia, in che luogo profondo? Per anni era stato tormentato dalla sensazione che un lupo che camminasse proprio sul suo cuore impedendogli di pulsare come voleva. Da poco era riuscito a liberarsene e non sapeva ancora come era riuscito a farlo perchè gli sembrava un miracolo.
Si scosse e decise di alzarsi in piedi.
Ma improvvisamente lo vide. Davanti a lui stava un lupo che si avvicinava minacciosamente, ringhiando.
La prima reazione fu di vera paura, ma un attimo dopo venne sopraffatto da una strana sensazione di leggerezza e si mise a ridere e mentre rideva si stupiva di se stesso ridente.
Era lì, il maledetto animale nel prato di fianco alla strada tanto amata. Ma almeno non era più sul suo cuore, era riuscito a stanarlo!
E se ne aveva paura tanto valeva accettarla questa paura. Ora rideva di gioia perchè finalmente la bestiaccia era uscita da dentro di lui e mentre rideva il lupo si avvicinava sempre di più e sia lui che il lupo sapevano che uno di loro due sarebbe morto. Non c’era altra soluzione, quello era un duello.
Lui guardò l’animale dritto negli occhi. Era a pochi passi da lui e stava per balzargli addosso. D’un tratto il lupo in una frazione di secondo abbassò lo sguardo, calmandosi improvvisamente. Lui l’accarezzò e il lupo, come un cane, continuò a scendere la strada scodinzolando.
Con le poche energie che gli erano rimaste corse felice su per la strada verso i grandi muraglioni di tufo.
Poi crollò al suo suolo per lo sforzo.

DOPO UN’ORA

E lei lo trovò, che dormiva, nel prato al crepuscolo.
Lo aveva cercato tutto il giorno. Lo toccò: era caldo. Gli toccò il petto. Il cuore batteva regolarmente. Pensò a quanto amava quel cuore. Pensò al sangue che entrava ed usciva da quel muscolo rosso e forte. Sentì il sesso di lui dentro di sé: in un attimo il suo amore per lui le salì come un’onda verso il cervello e la fece vacillare.
Conosceva quest’onda di piacere che le faceva anche paura, ma senza cui non poteva vivere. La sua onda blu.
Lo sfiorò gentilmente. Era bello quando dormiva, con quella vaga piega di dolore intorno alla bocca.
Si guardò intorno. Le rovine avevano qualcosa di meraviglioso. ‘Quest’ antica città con le mura di tufo l’ho sempre amata’ pensò.
Lo scosse piano piano e lui aprì gli occhi. Per un attimo ebbe timore che si arrabbiasse.
Lui si mise a sedere di scatto. La guardò un pò torvo con quello sguardo che lei conosceva bene.
E lei disse: ‘ Venendo qui ho visto sul muro una scritta: ‘La Terra urla’. ‘Ah…’ fece lui con aria disinteressata
‘ Non trovi che sia vero?’ fece lei ‘Cosa?’ rispose lui ‘
‘Voglio dire…la Terra…la Terra…non ce la fa più. La stiamo divorando noi schiavi di quelli che decidono e loro con noi’
‘Sono stanco di me stesso’. Ma sono stanco anche di te. Mi hai abbandonato troppo spesso.
Lei pensò a quanto era impossibile per lui immaginare cosa volesse dire vederlo entrare in casa, mangiare quasi nulla, fingendo un’aria disinvolta sdraiarsi sul letto e mettersi a leggere un libro e dopo qualche istante vedere il suo capo oscillare nel vuoto, accasciarsi sul libro mentre il corpo ormai attraversato dall’onda stava affogando. E questo per mesi. Ma il tempo non contava più per lui quando era nell’onda e lei lo sapeva. Il tempo si gonfiava e dilatava a piacimento come su una navicella spaziale. Ma lui non lo sapeva di essere sulla navicella, lui si sentiva perfettamente a suo agio sul letto. Lui non sapeva della disperazione di lei nel vederlo così, ma lei aveva sì idea della disperazione di lui, l’aveva pensata, immaginata, sentita. Lui non sapeva quanto lei odiasse quella polvere bianca e i guadagni mafiosi che ci stavano intorno, la droga della Cia per tenerci buoni e zitti. Lui non lo sapeva.
Si sfiorò la tempia. ‘Certo che il teatro io e te lo capiamo davvero’ disse ‘Non cambiare argomento’ ribatté secco lui’
Ci fu una pausa. Lei guardò in basso. ‘Sì… è vero’ sussurrò lui.
‘Non puoi usare questo talento per ritrovare la luce?’ chiese lei ‘Non parlarmi così, lo sai che non sopporto quando parli ermetico’
Lei guardò le mani di lui che adorava e sentì che lui l’amava molto, ma non sapeva dirglielo perchè l’onda gli aveva risucchiato le parole, una per una.
Di nuovo gli guardò le mani: nessuno aveva mani più belle, lei le capiva, le parlavano un linguaggio antico, erano fatte per muoversi nell’aria e disegnarci segni sacri. Ma lui non lo sapeva.
Lui guardò il cielo e mormorò: ‘Il blu oggi è proprio il tuo, non trovi?’ Lei annuì. Nell’infanzia le era capitato molto spesso, e anche dopo, quando era ragazzina, di guardare il cielo e piangere di gioia nel vederne il blu. Nessuna spiegazione. Solo gioia. E lei sapeva che lui era il solo uomo che avesse mai capito questo sentimento in lei.
Lui si alzò di scatto e si incamminò per la strada sterrata ed antica e la sua figura dinoccolata ricordava quella di un uccello, forse un’aquila, forse un gabbiano.
Lei lo guardò allontanarsi. Poi gli corse dietro e urlò: ‘ Dove vai?’ ‘Alla città antica’ rispose lui.
Lei lo raggiunse e camminarono in silenzio per un po’.
Arrivarono in cima e guardarono verso il mare, laggiù.
‘Il mare’ disse lei’ dove ci siamo gettati la nostra prima notte’
‘Ami tutto quello che è blu. Se vedessi una iena blu l’ameresti con tutta te stessa’ replicò lui cinicamente.
Lui la guardò e lei sentì di nuovo che lui l’amava ma che l’anima di lui era intrappolata in un vortice, ma perchè e chi l’avesse deciso le pareva un mistero. Sapeva che solo lei poteva aiutarlo, ma il perchè di questo era anche un mistero. Sapeva che lui non voleva guardare la realtà in faccia, non voleva andare in fondo a quel groviglio. Ma solo andando in fondo avrebbe ritrovato se stesso.
Come sapeva anche di essere scappata dall’inaffidabilità di lui per via della polverina bianca e nello stesso tempo sapeva che il blu di lei l’avrebbe condotto a ricordare il dolore e prendere l’onda turbinosa di sabbia per trasformarla in acqua calma e trasparente.
Il blu di lei era l’armatura che l’avrebbe portato a guidare tante persone verso la salvezza. Queste parole lei le sentiva risuonare dentro di sé senza conoscerne esattamente il significato. Sentiva solo che era la verità.
Lui disse ‘So che ci sono persone insostituibili, lo so, ma preferisco non crederlo’
Lui ogni tanto dubitava di tutto. Si rendeva conto che talvolta lei idealizzava la realtà, forse perchè le cose erano troppo tristi se non gli si metteva dentro un pò di luce sopra, ma una vocina dentro di lui gli diceva che lei era in contatto con le stelle.
Si massaggiò le tempie.
‘Hai male alle tempie?’ chiese lei ‘Sì’ rispose lui
Lei sospirò. Il talento era la via, lo sapeva. Ma lui non aveva l’abitudine a lavorare, uno dopo l’altro, i giorni infilati nella costruzione paziente delle parole erano difficili da immaginare. Era bravo a seguire una disciplina, come un soldatino, soprattutto se lo portava a stare lontano dalla polvere bianca per lunghi periodi in mezzo al mare.
Isolarsi, stare via dalla polvere. Tramite i computer aveva imparato.
Pensava a quanto il destino di lui fosse strano, quale diviso in due, con l’accetta quasi: una profonda bontà unita all’assoluta incapacità di sostenerne i valori, un’abitudine all’egoismo a causa della dipendenza dalla sostanza.
‘Io non sono affidabile’ le aveva detto recentemente ‘ Ancora non ti sei rassegnata?’ E lei sentiva una morsa dentro di sé perchè sapeva che era vero e nello stesso tempo sapeva che il suo destino era quello di farlo uscire dai giorni tagliati con l’accetta.
L’amore assume diverse forme e tra gli amanti l’amore si diverte a mutare una forma in un’altra e lei sapeva di essere per lui, a seconda del momento, amante, sposa, sorella, madre e figlia e lui per lei fratello, amante, sposo e figlio.
Per lei la vita era spirituale. Guardava la realtà con l’occhio dell’anima. I suoi valori erano altri. Quando camminava per strada vedeva un groviglio di anime davanti a sé, non i corpi vedeva ma le anime e la maggior parte erano scure come la pece e avevano deformazioni che sembravano reali come in un quadro.
Il fascino dell’esistenza era per lei la luce divina che lei vedeva nelle cose ma di cui la maggior parte della gente percepiva solo bagliori, come da una caverna chiusa da un pesante masso.
Tutti vivevano solo e unicamente sommersi dalla materia anche perchè ora la pura sopravvivenza era diventata l’unico scopo della vita per milioni di persone.
Lo è sempre stata, si disse fra sé e sé, ma ora è peggio perchè la macchina ci blocca con le sue scheggie d’acciaio. Prima anche un servo poteva sedersi sotto un albero per un attimo a riposare, ora i servi dovevano chiedere il permesso alle banche prima di sedersi, perchè ormai era chiaro a tutti che il nuovo medioevo faceva pagare ai servi i capricci dei valvassori della borsa.
E certo la tentazione materiale era grande e sia lui che lei si facevano talvolta tirare a destra e a sinistra dalla superficie delle cose e facevano talvolta, e loro malgrado, quello che nella lingua di ogni giorno si chiama ‘stare a galla’.
D’improvviso le vennero in mente quei giorni bellissimi dove lui era calmo, abbronzato, nuotava nel mare. Di certo la sua calma allora era apparente, quella calma di cristallo che può saltare in mille pezzi.
Lei invece avrebbe voluto quell’altra calma in lui, quella profonda. Ma per trovare quella lui avrebbe dovuto fare un lungo viaggio dentro se stesso e curarsi l’anima come dice la gente nel ventunesimo secolo, dove la parola anima si nomina ogni minuto perchè non si ha la minima idea di che cosa sia, ma si vuole sentirne almeno il suono.
Se fai quel viaggio potrai sentire l’amore che hai per me come un dono senza avere sempre paura di essere vittima delle emozioni, pensava lei ma non glielo diceva.
Noi ne abbiamo fatti di progressi insieme, ma non li vedi pensò di nuovo lei. E’ un lungo cammino verso la guarigione ma io ti sono stata vicino e certo ho commesso gli errori della mia incarnazione. Mi sono spaventata della polverina, sono scappata a più riprese. Ma attraverso questo tirocinio ho imparato la solidarietà.
Pensava di gridargli: Tu mi vuoi bene e nei momenti di lucidità mi dici che non sei una persona affidabile. Eppure io mi voglio fidare, fidare, fidare!. Ma lui era ancora distante. Era scomparso dietro la curva.
Immerse il viso in un cespuglio di alloro che cresceva sul ciglio della strada e il profumo la invase come una benedizione.
E capì. All’improvviso. La luna di lui, quella che gli pendeva sul capo e lo faceva arrabbiare, era lì per insegnargli a piegarla come un ferro, a mettersela nel pugno ed osservarla. Osservare la luna nel pugno di una mano.
Il suo destino stava lì. Nel dominarsi e nel perdonare, nel non smettere di amare a causa del rancore.
E lei sarebbe diventata la più saggia delle donne. E avrebbero scoperto la strada insieme.
Metà della strada era già fatta.
Si guardò intorno. Era proprio a metà del cammino.
Ed è proprio a metà del cammino che gli ostacoli arrivano addosso come saette. Per un attimo si guardò intorno perchè aveva la sensazione di essere osservata. Ma non vide nessuno.
Eppure sentiva intorno a sé delle presenze, discrete ma attente. Sorrise.
In quel momento lo vide tornare indietro. Teneva qualcosa in mano, erano dei fiori, grandissimi, dallo stelo lungo. Bianchi.
Le lacrime le coprivano il viso e quando lui le fu vicino lei disse: ‘Io non ti ho mai abbandonato. Tu eri con la polvere bianca stretto in un abbraccio scheletrico’.
Lui le porse i fiori bianchi e lei li abbracciò come fosse lui e disse ad ogni fiore che l’amava, lo sussurrò tra i petali che parevano orecchie.
‘Orecchie della Terra’ rise lui. Le prese la mano e la baciò. Poi però voltò la testa in un’altra direzione con una smorfia quasi di dolore.
‘Vorrei costruire per te uno spazio di protezione, un grande spazio di protezione – disse lei – Facciamo una casa così. Pace nel Blu. Noi siamo due maghi…facciamola questa magia…e ricordati che i vulcani, che sono i miei luoghi preferiti, se li guardi attentamente, sono blu’.

GRATITUDE

A Nicola

Arrivai al ruscello e me la vidi davanti seduta su di un masso. Era bellissima. Era una ninfa ne ero certa. Lo capii da quei capelli lunghissimi che le avvolgevano i seni e dal resto del corpo nudo ed affusolato. Le chiesi come si chiamasse e lei esclamò: ‘Gratitude e bisogna dirlo alla francese!’. ‘Certo’ le risposi’ nessun problema’. Mentre la osservo con il rumore del ruscello che ci circonda mi rendo conto di averla già vista…sicuro l’ho incrociata ma per un attimo, quella volta a New York per strada e quell’altra a Milano alla stazione e poi sulla riva del mare…ma anche quella volta davanti al liceo da ragazza e un’altra volta che ora mi sfugge… insomma mi stavo ricordando di averla vista innumerevoli volte ma solo di scorcio perché Gratitude era sempre di fretta. Improvvisamente mi sorride, si getta in acqua e non riemerge più. Io vengo presa da una tristezza quasi esagerata di cui non mi spiego la ragione. Dall’acqua allora affiora lentamente uno specchio in bronzo, di quegli specchi antichissimi di manifattura etrusca. Lo afferro e mi ci specchio subito.  Gratitude era lì con me nell’immagine allo specchio ed appoggiava la mano sulla mia spalla mentre mi stava dicendo ‘ Se tu vuoi io sarò sempre accanto a te. Dipende da te’. Capisco allora che Gratitude è venuta a trovarmi al fiume perché io potessi davvero vederla grazie a qualcuno e credo di sapere chi…Un uomo bruno che per me da un po’  è come un fratello. E’ stato lui a farmela riconoscere grazie alla sua generosità di tempi che furono, di anime elevate, di secoli passati, di re africani reincarnati. Le altre volte quando l’avevo incrociata non era stata lei a correre via, ero stata io. Ero stata io ad avere fretta. Ora invece, dopo averla riconosciuta,  avevo tutto il tempo per starle sempre accanto.

Il precedente racconto di Francesca Bartellini e la nota sull’autrice li potete trovare qui.

Gruppo MAGOG