Pensiamo a cosa resta della cultura francese del Novecento, all’aurea legione delle personalità di allora. E viene in mente il Cafè de Flore di oggi. Il suo flagship store dietro l’angolo. Il commercio della storia di un mondo perduto per sempre. Sigillato in souvenir, tazze, matite, tovaglioli e il menù stile editoriale «Nouvelle Revue Française», unito alle eleganti divagazioni su cosa fu questo ritrovo di un tempo, ormai ridotto a un marchio pop, a marketing.
E ricordiamo la presenza imperiosa di Benjamin Fondane a Parigi, allora, tra gli anni Venti e Quaranta. I suoi tratti dal fascino straordinario. L’espressività contagiosa del suo volto. La voce infiammata e ostile ma fraterna. Il toccante spirito slavo dominato da un contagioso e lucido tormento. Così lontano dal pallido ardore dei bibliomani e gli intellettuali privi di profondità. Lui, alto e ardente, impetuoso, contraddittorio e indisponente, vitale e brioso, ribelle, ruvido e aspro. Il parìa dell’intelletto dal magnetismo polemico. Il sismografo che registrava lo spirito del suo tempo e sprigionava l’energia del reale contro i fantasmi dell’anima ragionevole.
Pensiamo al mirabile esercizio di ammirazione dell’amico Cioran, 6 rue Rollin. Poche pagine, in cui viene resa giustizia alla sua immagine più di quanto non riescano interi saggi di letteratura critica. Pensiamo a quella lettera del 1946, in cui Emil ammette che il Baudelaire et l’expérience du gouffre, un libro postumo, enciclopedico, ipertrofico, incompiuto e tuttavia potente e spesso sorprendente, “è la cosa più profonda mai scritta su Baudelaire”. Lui, che fu tra i primi, insieme a Boris de Schloezer, Stéphane Lupasco e Claude Sernet, ad adoperarsi per la sua pubblicazione. Tra i primi a leggere, come editor informale, la copia del manoscritto incompiuto sulla quale Fondane lavorava prima del suo arresto.
Seduce l’innata nobiltà di questo poeta. Il nitore del suo orgoglio. L’ostinazione a camminare per le strade di Parigi privo della stella di Davide appuntata sul petto. Lo scrittore proscritto dalle leggi antisemite di Vichy arrestato insieme all’adorata sorella Line, che ci tocca, quando rifiuta di abbandonarla alla sua sorte e di accettare la liberazione che alcuni amici erano riusciti a ottenere solo per lui. Deportato a Drancy, e infine ad Auschwitz, nel ’44 è inghiottito dalla voragine Olocausto. Da uno sbadiglio della Storia. Proprio così, come si conclude l’avventura di una vita, ruotando la mano e chiudendo le dita in un movimento di mezzo vortice, rapido, come un ventaglio che si chiude di colpo, una stretta, una ruga – i vapori della camera a gas.
Ancora oggi risuona nelle nostre orecchie l’eco di questa corrispondenza di Geneviève, la moglie, con Jaques Maritain: “A Drancy, fu il ritardo di un treno di deportati, atteso a Marsiglia – e che non arriverà in tempo – a farli assegnare, lui e la sorella Line, sulla lista dei deportati. Nel momento in cui i suoi amici se ne rammaricarono, egli si alterò, così come Line, dicendo: – Non c’è ragione per cui dovremmo essere noi a essere salvati, al posto della gente di Marsiglia. Sono uomini e donne come noi, come potremmo augurarci che siano loro a essere sacrificati al nostro posto!”.
Era una creatura d’altri tempi. Non amava lo sfoggio dell’eroismo. Aveva in orrore la vanagloria e non ignorava l’esaltante vanità del pudore. Lui, l’uomo roso dalla fatalità eppure insoumis, non rassegnato. Il formidabile solitario che adorava parlare. La creazione respirava ancora tra le pieghe della sua erudizione, in questo maverick dall’esigenza spirituale oltre ogni quadro religioso stabilito che, senza essere un “poeta ebreo”, è stato esistenzialmente ebreo e poeta, la risposta individuale degli eretici e i sovversivi del XX secolo. Il navigatore di terrae incognitae che canta e pensa con una vitalità sorprendente, e la cui vita si chiude come quella dei poeti di cui parla. Il petit frère di Rimbaud. A volte ritornano tra di noi, anche dopo la morte, rivelatori, a ricordare una verità non tanto occulta ma forse più necessaria che mai; una verità poco frequentata, scomoda. Quella di un raskol andato a caccia di ciò che rimaneva dell’assurdo e dell’idea terribile che la poesia e l’arte partecipino al peccato originale.
Sapeva che il magico, il religioso e il mito, questi antichi e remoti territori, vestivano il linguaggio poetico; e che la poesia è più antica di qualsiasi civiltà, la cosa più vicina alla calligrafia di un dio.
Per natura e temperamento, eguagliava l’audacia di Šestov, “la sua insolenza nel porre quelle domande da bambino sfacciato che hanno sempre avuto il potere di gettare i filosofi nel panico”. Lui, che non poté fare a meno di cogliere le lucide verità negative che la gente della strada conosce da sempre. Privilegiò le cupe verità alle illusioni edificanti, perché nell’infelicità e nell’orrore c’è qualcosa di più vero, delle piacevoli malinconie, di artisticamente più vero, ci dice nel suo Baudelaire. Così, perché non amava la bruttezza in sé, ma era sensibile al sottosuolo, a un viaggio al termine della ragione, a quella visione oscura degli esseri umani che svela per noi la bellezza di cui nessuno vuole tenere realmente conto. Sapeva, da sempre, che l’umanità teme che l’arte voglia esprimere qualcos’altro, “un universo tanto inquietante, terribile e nudo, e incredibilmente così poco ‘poetico’, nobile o sublime”, poiché nessuno corre con fervore incontro all’abisso… “esiste un territorio dello spirito umano che non ha ancora conosciuto volontari, gli uomini vi si addentrano loro malgrado”, echeggia il suo maestro, ne La filosofia della tragedia.
Sembrò così naturale che la cultura infliggesse un lungo esilio, fino ai primi anni Ottanta del Novecento, a questo poeta sradicato prestato alla filosofia del sottosuolo. Un ritorno ai margini, il ritiro forzato, per un pensiero troppo personale, lirico, dai metodi poco afferrabili, sempre in evoluzione e poco adatto a lasciare un’eredità, come in genere si usava per ogni critica oggettiva o estetica letteraria. Lui, che in mezzo al caos dell’attualità della Seconda Guerra Mondiale e alla funesta eredità della prima, andava oltre la morale, la politica e l’economia per spiegare la tragedia dell’alienazione umana. Lui, che nella barbarie nazional-socialista non scorgeva un’essenza originale, un ordo inabissato ma lo specchio deformante che rinviava, potenziati, ai tratti stessi della nostra cultura; non la barbarie dell’ignoranza, egli tuonava, ma quella generata dalla ragione e dal sapere. Lui, che vedeva in Hitler: “La ragione infine sincera”. E come non ricordare le dure reazioni che contro di lui si levarono, tra gli altri, da parte di Albert Camus e di Jacques Maritain, di Jean Cassou e di Jean Grenier, di Emmanuel Mounier, di Jean Wahl e di Rachel Bespaloff. Per ridurre la sua opera a stigma del proscritto che rovescia la vita in comune, a limbo letterario, una zona d’oltretomba riservata ai bambini a cui il battesimo della ragione viene negato.
Eppure lui avanzò, in questa ostinata solitudine, condivisa con il suo maestro Šestov, vox clamantis in deserto, quando ne La Conscience malheureuse difese un dio arbitrario che nessuno voleva, l’impossibile, un pensiero dell’assurdo, negli stessi anni in cui Camus condannava senza appello questo dio incomprensibile nel Mythe de Sisyphe. Si trattava, infatti, di rigettare il silenzio irragionevole di questo mondo, di riempirlo con le nostre parole dialettiche e di rivoltarsi contro l’irrazionale. Al pari di Jean Granier che, nel 1948, replicava sferzante: “l’irrazionalismo non può compensare la sconfitta del razionalismo”.
Del suo Rimbaud le Voyou, opera “folgorante” che irritò profondamente Breton, Šestov notò (in una lettera del 3 giugno 1936): “Il vostro libro non soltanto è scritto con notevole energia ma dimostra che le domande che sollevate non sono, per voi, domande teoriche – la vostra è infatti una filosofia esistenziale; a mio avviso è un grande merito. Ecco perché non credo avrete quella che si dice una ‘buona’ rassegna stampa. Il vostro libro al contrario irriterà i vostri critici. Molto più realisticamente: non credo avrete affatto recensioni. In un caso come il vostro si preferisce non parlare del libro. E il vostro stesso editore, il quale ha deciso comunque di pubblicarlo, subirà indubbiamente delle conseguenze…”.
Il Faux Traité d’esthétique conobbe una sorte analoga, sprofondando in uno statuario isolamento, suscitando una scarsa eco nella critica e, fatto non secondario, apparve alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale – pensiamo, all’epoca, al Patto di Monaco e all’invasione dell’Austria da parte di Hitler, ai processi di Mosca e alle persecuzioni contro gli ebrei – rendendo ardua la sua diffusione e ricezione. Il testo ebbe comunque una qualche influenza sull’École de Genève e fu favorevolmente accolto da Albert Béguin e Marcel Raymond. Il 20 giugno del 1939, Fondane scrive a Denis de Rougement: “Il mio libro è uscito qualche giorno dopo Monaco, è caduto in una profonda indifferenza… Vi hanno visto una semplice difesa della poesia quando in realtà è una difesa del reale.”. Nello stesso anno, egli si esprime pressoché negli stessi termini in una lettera a Raymond Queneau.
Il caso del Baudelaire et l’expérience du gouffre è ancor più clamoroso, stretto nel plateale sigillo del destino avverso, nella storia che infligge, nei modi più insospettabili, le necessità dello spirito del tempo di ogni epoca: proscrizione, biasimo, oblio, decantamento, scherno, congiura del silenzio, riduzione critica, filosofica. Il 1947 è un anno fatidico, una folla di sfavorevoli congiunzioni astrali. Appare Van Gogh, il suicidato della società di Antonin Artaud, che morirà il 4 marzo del 1948. Il Baudelaire di Fondane, l’ultimo segnale che egli lancia al mondo dei vivi, vede la luce del giorno editoriale nel dicembre del 1947. Tra il 1946 e il 1947 furono pubblicati una legione di studi su Baudelaire. Jacques Crépet edita le Œuvre complète di Baudelaire (Conard, 1947). Nel 1946 la rivista “Fontaine” ospita alcuni articoli di Georges Blin. Due anni prima era stata pubblicata l’opera di Jean Pommier, Dans le chemins de Baudelaire (1945). Lo stesso Blin pubblica anche Le sadisme de Baudelaire (Corti, 1948). Infine, nel gennaio del 1947 appare il Baudelaire di Jean-Paul Sartre – a cui Georges Bataille e Maurice Blanchot risponderanno – che anticipava di qualche mese il volume di Fondane. Un’opera ideologicamente ingombrante, quella di Sartre, che avrebbe calamitato su di sé gran parte dell’attenzione critica di allora. Una circostanza sfortunata, tanto più che allora il Baudelaire esistenzialista di Sartre poteva essere confuso con il “pensiero esistenziale” di Fondane. Non stupisce che, in tali circostanze, il volume di Fondane non dovette ricevere molte recensioni – sebbene all’epoca fosse stato inviato a un gran numero di critici, tra cui G. Bachelard, R. Bespaloff, M. Blanchot, A. Camus, Thomas S. Eliot, J. Maritain, J.-P. Sartre, J. Wahl, P. Celan – e che il testo di Sartre dovesse “gettare nell’ombra un autore ormai scomparso al momento della pubblicazione della propria opera”. Senza contare che le incursioni metafisiche di Fondane, la veemenza immoralista e una certa disinvoltura metodologica del suo saggio (“confusione”, diranno alcuni) avrebbero “turbato” e disturbato quei lettori fedeli alla critica universitaria e a una letteratura umanista. Già La Conscience malheureuse aveva “effarouché” i critici per il suo stile. Il suo Baudelaire non fu da meno. Questo combattivo volume di trentaquattro capitoli, questa monografia inclassificabile, eccentrica, andava oltre qualsiasi canone saggistico di critica letteraria e artistica. Obbligava il lettore a sconfinare ogni lettura estetica, esegesi letteraria o critica dell’opera dell’autore delle Fleurs du Mal. Fu l’esito di un’esperienza traboccante di linfa. Come a condensare tutte le possibili opere che l’Autore temette di non riuscire più a scrivere, stretto dal funesto presagio di non essere destinato a vivere. Un libro ancora oggi capitale per capire l’unicità di Baudelaire, per toccare al cuore la sua verità.
Eppure, anche qui, i critici del dopo guerra furono poco generosi, se non sarcastici nei confronti di questa monografia. Tra loro, G. T. Clapton a Oxford, lo specialista inglese di Baudelaire; Henry Peyre, il direttore della facoltà di “Lettere francesi” a Yale, Connecticut; Lion Abel a New York, sul “Partisan Review”; Clement Borgal nel suo Baudelaire; George Blin – sebbene il saggio di questo studioso fosse oggetto di severe critiche da parte di Fondane, egli era consapevole di dovere comunque molto al suo studio, che considerava indubbiamente l’opera più importante e rigorosa del suo tempo – e Jacques Crépet, all’epoca le autorità baudelairiane in Francia.
E quale l’ironia del destino, quando ci dicono che la sua influenza pubblica sulla critica, apparentemente, fu modesta e infine le letture di Baudelaire e di Rimbaud successive alla sua – quelle di Bataille, Blanchot, Bonnefoy – andranno nella direzione che egli, per primo, aveva indicato.
Luca Orlandini