Infine, era dotato nell’ira: i giacimenti auriferi della rabbia erano il suo carisma, trovava vile la conciliazione, il conciliabolo, la ‘strategia’; agiva per impeto, con l’ingiustificata arguzia di chi riconosce la falsità dei ‘buoni costumi’, della pia morale, della ragionevolezza, dietro a cui vedeva – per primo, con quell’ansia agonistica che rende i suoi scritti indimenticabili, con i vezzi del lottatore che sa di essere sul lato opposto, errato, vero – un regno di tagliole, l’etimo della coercizione che rende tutti – tutti – afflitti dalla necessità, “felici & contenti”, sicuri, tutto sommato, al netto della statistica, di vivere nel “migliore dei mondi possibili”, pur consapevoli che un mondo privo di possibilità è immondo.

“Fondane era davvero… un guerriero. Era intellettualmente molto aggressivo, sempre contro o a favore di qualcosa…”,

dice di lui, istigato da Leonard Schwarz, Emil Cioran (in: E. M. Cioran, Al di là della filosofia, Mimesis, 2014). “Era il mio migliore amico”, dirà, in altro contesto, a Lea Vergine (in: E. M. Cioran, Un apolide metafisico. Conversazioni, Adelphi, 2004), “…è morto ad Aushwitz, era molto celebre in Francia prima della guerra. Rimase in casa invece di nascondersi e fu fatto prigioniero, era uno dei tipi più interessanti che conobbi a Parigi”.  

Discepolo di Lev Šestov, il pensatore che ‘scoprì’ la vertigine filosofica di Dostoevskij, scagliandola sul seggio chirurgico del pensiero occidentale, a scompaginarne i rilievi aristotelici, cartesiani, kantiani, a dissennare il sano sopore degli storici, aveva un’indole opposta: riflessivo, metodico, monotono, olimpico il primo, lampeggiante nell’assalto Fondane, screanzato, irrobustito dal genio poetico, spesso ipnotico. Bisogna entrare in uno dei suoi testi: se ne resta impaniati, contaminati, sedotti, come di fronte a un rettilario – sai che quel serpe può attaccarti, cristallino il veleno, ma non puoi sottrarre lo sguardo, perché il rischio disorienta, converte.

Poeta, Fondane ha scritto libri miliari su Rimbaud (Rimbaud le Voyou, 1933; in Italia è tradotto da Castelvecchi) e Baudelaire (Baudelaire et l’expérience du gouffre, il libro-summa, uscito postumo, edito in Italia da Aragno per la curatela di Luca Orlandini), senza ricondurre i poeti alla ragione esplicativa, esegetica, rassicurante, ma eviscerando le voragini, i paradossi, gli sconvolgimenti; nessuna scogliosi critica, analgesico per i puri di cuore: il pensatore violenta, ritiene – giustamente – che la poesia, se autentica, sia il chiodo con cui disserrare la porta di casa – questo mondo pulito, autorevole, magari crudele ma pur sempre innocuo – sprigionandosi nel mondo autentico, al di là, nel vasto, nel bosco.

Nel 1932 Fondane scrive per i “Cahiers du Sud” un saggio, Martin Heidegger sulle tracce di Dostoevskij, riprodotto lo stesso anno su “Sur”, la rivista argentina di Victoria Ocampo, come pendant alla traduzione in spagnolo di Che cos’è la metafisica? Del tutto opposto al côté francese che accerchiava Madame Ocampo – Drieu La Rochelle, Albert Camus, Roger Callois, André Malraux –, in Argentina, tuttavia, Fondane lavora, come attore e regista, intrattenendo con la cosmopolita Victoria un rapporto autentico, di vera amicizia, tra impari (a lei consegnerà, nel 1939, in una Parigi ingrigita da sentori bellici, i quaderni che registrano i Rencontres con Lev Šestov). A partire da quel testo, Fondane ingaggia una battaglia senza quartiere contro la filosofia occidentale, tesa a istituire, spiegare, risolvere, ornare; egli, solo, in mezzo all’arena, invita al conflitto, certo che pensare è un affronto, lo scisma, scia lavica, ineluttabile faglia. La battaglia contro chi vuole ‘spiegare’ tramite il ‘ragionamento’, liquidando l’insostenibile, relegando Dio in teca, ha pagine che abbagliano:

“Quello che i cristiani chiamano il ‘peccato originale’ non è un peccato originale: dagli inizi del mondo questa colpa si è sempre rinnovata: ogni giorno, credenti e non credenti hanno voluto provare qualcosa, o perfino ‘legittimare, giustificare e spiegare’ Dio, aiutando così la morte a installare in noi il suo impero, quando con tutta evidenza, essi volevano trovare solo la vita”.  

In Heidegger e Dostoevskij, appena edito dalle edizioni Pangea / Magog – in cento copie numerate cartacee e in digitale – Luca Orlandini – che qui abbiamo interpellato – ha raccolto alcuni saggi (tra cui quello del ’32, finora inedito in Italia) che riassumono la battaglia titanica di Fondane contro i cardini del pensiero occidentale. I pensieri su Edmund Husserl, Bergson, Kierkegaard, Nietzsche e Heidegger, rilucono di illuminazioni inadatte ai pavidi. Fondane è un autentico ‘agitatore’ di intelligenze: non accetta nulla, la sua inflessibilità è quella dei per sempre giovani che sanno che la posta in gioco è totale: significa riconoscere che ciò che chiamiamo vita, in verità, è morte, che ciò che abbiamo dato per morto, in realtà, è il vivente. A Fondane non interessa misurare il mondo – l’arte vile della comparazione – ma scorgerne l’incommensurabile; non gli importa erigere un’etica ma evidenziare il capriccio, l’anello che non tiene, l’errore gratuito, il guaito del cosmo; non ha valore, per lui, dare una regola ma intessere l’irregolarità, la contraddizione, la sfasatura come senso supremo.

“Conoscevo bene sia Fondane che Celan, e suppongo che essi avessero qualcosa in comune”, ricorda ancora, Cioran.

“Provenivano quasi dalla stessa area geografica della Romania: la Bucovina e la Moldavia sono province confinanti. Entrambi erano poeti ebrei ed entrambi avevano una curiosità intellettuale che non è assolutamente usuale in un poeta. Tuttavia, come uomini, erano molto diversi. Fondane aveva una presenza imponente, tutto si animava intorno a lui; eravamo molto lieti nel sentirlo parlare. Con Celan si avvertiva un certo disagio”.

Eccolo, il carisma di Fondane, geniale fustigatore di quelli che hanno eretto un’accademia sul pensare, che hanno ingabbiato l’individuo in lemmi, codici, sentenze. Era imponente, animava, ed era bello ascoltarlo, quasi che la voce sia il passepartout del pensiero. C’è una gioia: nel lavacro di Fondane tutto è benedetto, è sconfitto.   

Partiamo da qui. Perché proprio questi testi di Fondane?

Beh, sveliamolo, dai. Innanzitutto, perché me li hai chiesti tu, esplicitamente, un giorno, al telefono. Invito di cui ti ringrazio. E poi, perché sono un modo di scrivere e pensare le tematiche di Heidegger, ossia di commentarle, che si rivela affascinante, niente affatto noioso, lontano, come ritmo e forza del pensiero, dagli heideggerismi che fino a qualche decennio fa abbiamo visto imperversare, anche in Italia.

In questo volume abbiamo riunito alcuni testi fondamentali di Fondane degli anni Trenta, dove scrive in maniera organica di Heidegger e di Dostoevskij, con una qualità che graffia, uno stile potente, pietrificato, a tratti tenebroso, con parole che si completano, si superano e si annientano. Sono saggi che ruotano intorno anche ad altri due pensatori fondamentali, ossia Kierkegaard e Husserl (il lungo capitolo dedicato a quest’ultimo è particolarmente interessante), che nel libro trovi rispettivamente nel secondo, terzo e quarto testo. La prefazione di Fondane all’inizio del volume, poi, è bella al punto da poterla recitare ad alta voce… la vera scrittura di Fondane la trovi in questo genere di testi. Ma vi sono anche altre cose, di contorno.

Considera che Fondane, in Francia, è stato uno dei primi commentatori di Heidegger, assieme a Rachel Bespaloff, Emmanuel Lévinas, Georges Gurvitch. Va ben aldilà della semplice volgarizzazione del pensatore di Sein und Zeit.

Immagino tu abbia dimestichezza con Heidegger e Husserl?

Sì, appunto. Dicevo dell’heideggerismo, in Italia. Una perversione a malapena tollerabile, che ho conosciuto molto bene, quando intorno ai vent’anni ho letto e studiato le opere di Heidegger a fondo, prima tra tutte Essere e tempo. Ma come si studia un nemico, perché non amo affatto la filosofia. È contro la mia natura e la mia fisiologia, e tutto ciò che considero autentico, vero. Ma, “conosci i tuoi nemici”, si dice, no? Figurati che sull’argomento ero talmente ferrato che nel 1993, all’età di soli ventidue anni, quando uscì la nuova versione aggiornata della classica “Storia della Filosofia” della UTET (quella diretta di Abbagnano, che dopo la sua morte è stata presa in mano da Giovanni Fornero, appunto nel 1993), io trovai un grave errore, proprio nella lunga sezione dedicata a Heidegger, dove per pagine e pagine confondevano, anche concettualmente, due termini fondamentali di Heidegger, ossia l’attimo e l’istante. Li avevano capovolti, anche concettualmente, fin dalla prima edizione di Abbagnano, edizione che io avevo già perché ereditata da mio padre. Così, mandai alla UTET un lungo fax, dettagliato, con riferimenti bibliografici a tutte le varie edizioni di Essere e tempo, spiegando con dovizia di particolari, bibliografici e con riferimenti filosofici, perché avevano preso un abbaglio clamoroso, fin dalla prima edizione; fatto abbastanza grave, perché Abbagnano, come studioso di filosofia, fu tra i primi a diffondere in Italia, negli anni Trenta e Quaranta, la conoscenza delle correnti esistenzialistiche francesi e tedesche, in particolare Heidegger, Jaspers e Sartre. Insomma, mi risposerò dopo un paio di settimane – ancora conservo il fax con la firma di Fornero, tanto per ridere – dicendo che, sottoposta la mia segnalazione al comitato scientifico della UTET, effettivamente era passata inosservato, per anni, al “pur attento Abbagnano”, questo plateale errore di interpretazione. Nessuno se ne era accorto, non Abbagnano, non il comitato scientifico, non i lettori, per decenni.

Ma ti racconto un altro fatto, molto significativo, accaduto in una biblioteca universitaria, qualche anno fa, mentre parlavo con il suo direttore e una neo laureata in Filosofia da 110 e lode, che diceva di aver “tentato di leggere Essere e tempo, ma ho rinunciato… il linguaggio è troppo difficile”. Un giovane di oggi, se proprio deve studiare filosofia, dovrebbe almeno fare la fatica di confrontarsi con le cose ardue e capitali, come fece in maniera mirabile, per esempio, Ceronetti con Spinoza – senti, appunto, quello che scriveva: “Questo autore, che poi è anche stilisticamente così lontano dal mio modo di pensare, perché privo di immagini, è un razionalista che ha il terrore di allontanarsi dalla filosofia cartesiana… ma è una voragine di pensiero, Benedetto Spinoza. E credo poi, in seguito, di averlo letto quasi tutto. Leggere tutta l’Ethica non è certamente una lettura facile; dico, a dir poco, non è facile. È veramente un osso duro. Però, se non impariamo a rosicchiare degli ossi duri, i denti non ce li moliamo. Quindi è consigliabile, per i giovani, leggere Spinoza, partire subito dal difficile, perché almeno, così, del facile ci resterà un certo disgusto”. Fondane, infatti, malgrado la complessità dell’argomento e gli autori, e il suo non amore per la filosofia, ha il merito di essere riuscito a rendere affascinante e viva la lettura di questi temi.

Vedi, la ragazza in questione, come tutti i laureati in filosofia, non è una filosofa, ma solo una laureata in storia della filosofia. Io non sono laureato in filosofia, ma almeno all’epoca ho fatto la fatica di studiare e imparare davvero una disciplina che non mi è mai piaciuta, anche il disgustoso gergo heideggeriano. Poi, la verità è che, per esempio, se non hai dimestichezza con il pensiero di Kierkegaard e di sant’Agostino, o in generale con la filosofia greca e quella tedesca – di fatto i due pilastri della filosofia occidentale – fai anche più fatica a comprendere Heidegger. Per capirlo davvero, devi avere una cultura di base, soprattutto filosofica, notevole.

Ma senti cosa scrive il solito Cioran nei Quaderni: “Non c’è niente che paralizzi lo sforzo creativo della mente quanto l’indugiare troppo sulla storia delle idee. La storia della filosofia è la negazione della filosofia… Ho sempre sospettato la filosofia di ingenuità, di orgoglio ingenuo. Niente è più facile che fabbricare opposizioni servendosi di categorie. Il dualismo come passe-partout fa vomitare. Penso alla filosofia di X. Appena si apre un suo libro ci si imbatte fin dalla prima pagina nello schema-ritornello da cui discende tutto. Pensare è sicuramente un’altra cosa. Pensare vuol dire cercare la sfumatura, non semplificare. Ma la sfumatura è nemica della categoria.”

Veniamo a Lev Šestov, pensatore affascinante, il ‘maestro’ di Fondane…

Sì. Boris de Schloezer, amico e magistrale traduttore di Šestov in Francia, un giorno disse a quest’ultimo: “Credo che la vostra filosofia abbia più speranze di diffusione tramite Fondane, piuttosto che con voi”. Voleva dire, con un giovane pensatore controcorrente che possedeva come indole innata il potere del rifiuto, dell’attacco frontale, l’ironia e il coraggio delle opinioni personali, per affrontare una lotta ritenuta “bizzarra e una continua sfida all’umanità comune”.

Fondane è stato un poeta che diventò filosofo assolutamente suo malgrado – non credo abbia mai amato la filosofia – per difendere la poesia, ossia la creazione, dalla filosofia, dalla ragione, e perché all’epoca glielo chiese Šestov, il maestro che ammirava. La sua prefazione, all’inizio del nostro libro, rivela bene questo aspetto.

Vedi, sono assolutamente convinto che i temi di Šestov – il profondo, l’irrazionale, le determinazioni metafisiche dell’arte e del pensiero, il mito, l’assurdo, il religioso, la poesia – non possano essere affrontati con profitto dai semplici specialisti, dai filosofi, i docenti di filosofia teoretica, i ricercatori, gli accademici, i teologi, i semplici letterati ma solo dagli irregolari, gli eretici e soprattutto da quelli che hanno una spiccata e innata sensibilità per le immagini. Uno studioso, colui che emana il fetore tipico dei “Comitati Scientifici, degli addormentati tra i calmi papiri dell’erudizione”, scrive Robert Graves ne La Dea Bianca: “è uno che non può sconfinare, pena l’essere espulso dall’istituzione alla quale appartiene”. Ahimè, ho visto docenti di filosofia teoretica commentare Fondane, specialisti di Heidegger commentare Cioran, e altri definirsi “specialisti dell’esistenza”. È semplicemente ridicolo. Gli estetologi, i critici letterari o i filosofi, gli specialisti, di fronte all’esperienza di un’eccezione, a un appassionato amante, fanno sempre l’effetto di amorosi eunuchi. Sai, ahimè, per dovere editoriale ho letto i commentatori di Fondane, e sono tutti perlopiù noiosi, teoricamente cauti, probi, con una scrittura inesistente, e una mentalità da letteratura da note a piè di pagina, da prosa scientifica, analitica, ecc., mai che mi abbiano smosso un pelo o fatto alzare il sopracciglio, no… al massimo una smorfia di disapprovazione sulla bocca.

Così, inevitabilmente, i posteri di Fondane li troviamo nei pensatori – non ho detto filosofi – che accidentalmente sono anche grandi scrittori e poeti, e che poco o nulla hanno dell’esteta; nei suoi pari, in coloro che, rari, gli rispondono e hanno qualcosa da dire di proprio, e non tanto nella critica universitaria o d’autore, con il loro rischio, sempre alto, se non scontato, di rimanere ancora e sempre vittime dell’espace littéraire di Blanchot, nei migliori dei casi, che, come tutti gli intellettuali e le persone colte, era più che altro affascinato dall’esistenza nella scrittura che non dalla scrittura nell’esistenza. Vedi, a mio avviso, nel genio di second’ordine, per quanto dotato, la creatività muove, ossia fugge, dal reale alla metafora – chiamalo come vuoi… l’idealismo, il sublime, la trasfigurazione, la riduzione, la consolazione, ecc. – mentre nei veri geni, accade il contrario, dalla metafora ritornano al reale.

È per quello che mi sono interessato a Šestov e Fondane, che, dal loro punto religioso, attaccavano l’idealismo, la metafisica speculativa e non solo l’immanentismo assoluto del materialismo razionalista, scientista. Mi piace, infatti, che Fondane scriva, nel suo Falso Trattato di estetica: “Quando si crea un avversario, è a Pascal che pensa Valéry, al Pascal che si lamentava di trovare un autore là dove cercava un uomo. Sappiamo che Valéry ha fatto il possibile per fondare, a spese ‘dell’uomo’, un’estetica dell’autore”. Fondane, ovviamente, criticava il mallarmiano, il cartesiano Valéry, anche la sua estetica dell’antinatura, giacché Fondane protestava, parlando di Lautréamont e di Bachelard, contro la “deanimalizzazione” della poesia, contro chi reclamava a gran voce il trapianto dei “valori intellettuali”, del “pensiero” sull’arte e la vita. Del suo Rimbaud la canaglia, opera “folgorante” che irritò profondamente Breton, Šestov notò, in una lettera del 3 giugno 1936: “Il vostro libro non soltanto è scritto con notevole energia, ma dimostra che le domande che sollevate non sono, per voi, domande teoriche – la vostra è infatti una filosofia esistenziale; a mio avviso è un grande merito. Ecco perché non credo avrete quella che si dice una ‘buona’ rassegna stampa. Il vostro libro al contrario irriterà i vostri critici. Molto più realisticamente: non credo avrete affatto recensioni. In un caso come il vostro si preferisce non parlare del libro. E il vostro stesso editore, il quale ha deciso comunque di pubblicarlo, subirà indubbiamente delle conseguenze…”.

Che importanza ha avuto la Bespaloff, per Fondane, nell’interpretazione di Heidegger?

Essenziale. Infatti, il primo testo che trovi nel nostro libro, “Martin Heidegger sulle tracce di Dostoevskij” (fino ad oggi inedito in Italia), che in origine fu pubblicato nei Cahiers du Sud, rappresenta una prima interpretazione che vedrà in Heidegger, per certi aspetti, un alleato della poesia, dei “corsari del libero pensiero”. Fondane e la Bespaloff peraltro si conoscevano e intrattenevano rapporti, a Parigi, anche epistolari. La Bespaloff – che, diciamolo, insieme Fondane è l’unica altra discepoladi Šestov, anche se a un certo punto lo ripudierà –, con una famosa lettera a Daniel Halévy (di fatto, una magistrale lettera-saggio su Heidegger), che poi verrà pubblicata nei primi anni Quaranta, farà capire a Fondane di aver sbagliato strada… questa consapevolezza farà sì che Fondane scriverà una nuova versione del suo primo articolo, una versione radicalmente mutata, in alcune sue parte essenziali, a livello d’interpretazione del pensiero heideggeriano… insomma, correggerà il tiro, e questo porterà al secondo capitolo che trovi nel nostro libro, molto interessante.

Tieni presente che la Bespaloff, in Francia, è stata forse la prima, o la seconda, in assoluto, a commentare Heidegger, all’epoca, quando il suo nome iniziava appena a circolare in Francia ma ancora non esistevano commenti in francese della sua opera. L’importanza capitale della lettera-saggio della Bespaloff è reale. In Italia è stata pubblicata per la prima volta, nel 2019, con il titolo Su Heidegger, e un lungo saggio della curatrice italiana in coda al libro; ora si apprestano a ripubblicarla presso la Castelvecchi, ma questa volta inserita nel contesto della pubblicazione della Corrispondenza generale della Bespaloff, in un poderoso volume di varie centinaia di pagine… la Castelvecchi ha in progetto di pubblicare tutta l’opera della Bespaloff. Ma prima, la De Piante, con sforzo meritorio, pubblicherà un bel volume intitolato La verità che noi siamo, con vario materiale inedito in Italia, tra cui anche delle lettere tra la Bespaloff, Šestov e Fondane. Tieni presente che a un certo punto la Bespaloff rinnegherà e criticherà apertamente Šestov, e dunque anche Fondane, alleandosi con Jean Wahl, che di fatto diventerà il suo nuovo mentore, sodale e complice teorico. La coppia Bespaloff-Wahl sarà antagonista della coppia Šestov-Fondane. Il libro della De Piante è un po’ un resoconto, con materiali varii (lettere, saggi, recensioni e un corposo saggio introduttivo di Olivier Salazar-Ferrer, massimo studioso di Fondane in Francia) di questo quadro conflittuale.

Per dire, il famoso saggio della Bespaloff Sull’Iliade, in Italia è pubblicato dalla Adelphi. È un saggio che fu composto negli stessi anni in cui Simon Weil componeva e pubblicava, sotto pseudonimo, il suo famoso testo sull’Iliade. Tra l’altro, le due donne si conoscevano, ma la Bespaloff, all’epoca della sua stesura del libro, ancora ignorava il lavoro parallelo, sull’argomento, della Weil. Ma tra le due letture dell’opera di Omero – in cui entrambe sottolineano la centralità della forza – trovo più complessa quella della Bespaloff, che non quella da dogmatico pacifismo della Weil (per lei la forza andava riconosciuta solo “come male endemico che affligge le società, come segno della miseria umana”, mentre la Bespaloff sapeva che la violenza fa parte della vita, “essa è”, non si tratta di assolverla o di condannarla), anche perché condivido l’opinione di Cioran, quando scrive nei Quaderni:

“Ho appena letto lo studio di Simone Weil sull’Iliade. Visione sbagliata. Come può dire che il mondo greco inizia con l’epopea e finisce con il Vangelo? Che cosa hanno in comune Achille e gli altri con i peccati della Giudea? Parlare di tenerezza a proposito dell’Iliade! E poi quel giudizio stupefacente: ‘I romani e gli ebrei hanno creduto entrambi di essere sottratti alla comune miseria umana, i primi in quanto nazione scelta dal destino per essere padrona del mondo, i secondi per il favore del loro Dio in virtù della loro obbedienza. I romani disprezzavano gli stranieri, i nemici, i vinti, loro soggetti, loro schiavi; così non hanno avuto né epopea né tragedia. Sostituivano la tragedia con i giochi gladiatori. Gli ebrei vedevano nella sventura il segno del peccato, e di conseguenza un legittimo motivo di disprezzo; consideravano i vinti esseri aborriti da Dio condannati a espiare delle colpe, il che rendeva la crudeltà lecita e persino indispensabile. Perciò nessun testo del Vecchio Testamento ha toni paragonabili a quello dell’epopea greca, se non forse alcune parti del poema di Giobbe. I romani e gli ebrei sono stati ammirati, letti, imitati negli atti e nelle parole, citati ogni volta che c’era da giustificare un crimine, per venti secoli di cristianesimo… Il Vangelo è l’ultima stupenda espressione del genio greco, così come l’Iliade è la prima’”.

Sai, però, la Bespaloff ai miei occhi era troppo filosofa. E poi, in quanto discepola eretica di Šestov, non tollerava che i supremi diritti della ragione fossero messi in causa e paragonava Malraux a Dostoevskij, paragone che ovviamente irritava Šestov: “Oui, Malraux situé près de Gide je veux bien; mais près de Dostoïevski!!!”. Per certi aspetti, la Bespaloff mi ricorda Bendetto Croce, quando accusava Leopardi della sua radicalità, mentre al contrario uno dei suoi massimi studiosi, scrisse, giustamente: “opera di un involontario ma irriducibile ‘malpensante’, dettata da una distanza e un sarcasmo senza nome, i Paralipomeni, come le Operette morali, hanno ‘del malsano’, lamentava Benedetto Croce. Senza dubbio. Resta soltanto da sapere se il ‘malsano’ non sia nel reale stesso e quanto è stato rimproverato a Leopardi non corrisponda piuttosto al coraggio e all’arte di averlo affrontato fino all’estremo.”

La miopia di Croce mi ricorda, tra l’altro, per certi aspetti, anche quella del grande Sergio Solmi. Forse ricorderai che Solmi cita in più occasioni Rimbaud le voyou di Fondane, come anche il nome di Šestov, soprattutto, ma non solo, nel suo Saggio su Rimbaud. Leggendo gli occasionaliriferimenti a Fondane, come a Šestov, hai la netta impressione che Solmi, pur richiamandone alcune qualità, non colga appieno i meriti, e forse anche l’eccentricità della loro interpretazione esistenziale, o più verosimilmente, non la condivida perché troppo estrema. Solmi si attesta in una letteratura fortemente “letteraria”, in un “lirismo metaforizzante” (sic!) mediato dalla salutare influenza di Montaigne, che egli rivendica, “l’ormeggio di un’aura classicistico-razionale… il buon senso, la celebrazione delle ragioni morali dell’uomo di fronte al caos degli irrazionalismi…”, scrive il curatore del suo libro, Giovanni Pacchiano. Quel Solmi che, per certi aspetti, rimuoveil pur amato “fenomeno-Rimbaud, un fuoco affascinante ma che troppo brucia”. Un Solmi “composto nella curvatura razionale delle idee su arte e vita, ma… lievemente febbrile”, da qui la sua imperfetta adesione alla razionalità. Come a dire ragione, ma non ragione pura. Infatti, Montaigne – autore di riferimento anche per la Bespaloff, non casualmente – era “una costante dell’intelligenza di Solmi, e dove l’irrazionale è tenuto a freno”, e la fascinazione per ogni universo extra-letterario o extra-artistico è soprattutto un penchant metaforico. Ah, la metafora! Non è un caso che Solmi si riferisca in modo positivo alla “poetica della finitudine” di Bonnefoy, altra forma di attenuazione delle esperienze estreme, delle contraddizioni assolute, con una conciliazione umanista. Come altrettanto significativa è anche la nota più positiva che cogli nei commenti di Solmi al fenomeno de Le Grand Jeu, altro movimento in cui la dialettica impera perché non è mai riuscito a sfuggire al progetto sintetico di Hegel, a mettere in causa il pregiudizio del sapere. Dai, queste cose fanno sorridere… la ‘cultura’è sempre stata più o meno questa cosa qui.

Insomma, la Bespaloff è interessante, ma aveva limiti notevoli, anche d’interpretazione teorica. Tra la coppia Bespaloff-Wahl e Šestov-Fondane, per me non c’è paragone… guarda che non sto dicendo di accogliere le risposte teoriche di questi ultimi, dico solo che sono oggettivamente più radicali, pur nei loro limiti. Sono questi ultimi due a essere i più interessanti, di gran lunga, anche nel modo di scrivere… e pensa che Šestov detestava scrivere – chiunque legga Sulla bilancia di Giobbe, non può che rimanere colpito da questo rifiuto, poiché non si percepisce affatto nella viva espressione della sua sapienza.

Fondane, come dici tu, è un poeta che diventa filosofo, suo malgrado, per difendere la poesia dagli assalti della filosofia, e dunque dalla ragione. Qual è il parallelo con Heidegger?

Come già accennato, Fondane inizialmente pensò che Heidegger potesse essere un alleato in questa lotta, e anche della visione di Dostoevskij, ma in quel suo primo testo su Heidegger prese chiaramente un abbaglio.

Vedi, anche io, da giovane, quando studiai Heidegger, mi resi subito conto dell’anomalia di accostare Heidegger alla poesia. Se ricordi, Hölderlin gode di un primato indiscusso sugli altri poeti che Heidegger prende in esame, ossia Hebel, Rilke, Trakl e George. Infatti, ha scritto uno studio su Hölderlin: La poesia di Hölderlin(Adelphi), un volume di 250 pagine, che io allora ho letto e studiato. Una cosa terrificante. Già allora non mi capacitavo di tanta bruttezza, del plateale errore nell’accostare poesia e filosofia… una cosa che, tra l’altro, fa anche Jean Wahl, poiché era un professore, uno dei massimi studiosi di Kierkegaard, un filosofo e un poeta, ossia scriveva poesie, che la Bespaloff elogiava proprio per questa sua “bellezza filosofica”! Una vera perversione.

Mi resi subito conto che quello era il modo più falso e sbagliato di trattare la poesia. È per quello che quando vedo, ancora oggi, un artista, un poeta o uno scrittore adulto, che magari i loro adepti definiscono “sciamano”, citare, a mo’ di epigrafe evocativa frasi di Heidegger e l’Essere, oppure Husserl, come se fosse qualcosa di bello o di figo o anche solo di plausibile, rimango di stucco. Quando leggo queste cose, penso solo che nulla hanno capito, e che percorrano strade sbagliate. È come quando uno, alla soglia di cinquant’anni, ancora legge e nomina Sloterdjik o Blanchot. C’è una sorta di inspiegabile ‘ritardo’. Ancora peggio, non conosco ‘heideggeriano’ – certo non Cacciari – che si sia occupato di Heidegger come Ceronetti si è occupato di Spinoza, voglio dire con profondità e bellezza, del modo in cui Spinoza considerava gli animali, i bambini, il tragico, la follia, la natura. Per esempio, altre parole critiche, profonde, potenti e lucide sono quelle che Cioran dedica a Heidegger, nei suoi Quaderni, che peraltro sono molto più interessanti dei Quaderni di Valéry. E se anche Alfonso Berardinelli ha scritto sull’heideggerismo, nel Casi critici. Dal moderno al postmoderno, in un testo intitolato “I rumori dell’Essere: Heidegger, Derrida, Severino”, cose giustamente sprezzanti su Heidegger e gli heideggeriani, lo ha fatto solo molti decenni dopo, poiché Cioran certe cose le ha scritte dalla fine degli anni Cinquanta alla fine degli anni Sessanta.

Per questo, ora, qui, facciamo una silloge di quasi tutti i testi in cui Cioran, nei Quaderni, cita Heidegger, Husserl e anche qualcosa sulla poesia che mi pare c’entri con quello di cui ti sto parlando. La ragione è semplice. Perché anche lui doveva molto a Šestov: “Mi ha liberato dalla filosofia. Nei suoi confronti ho un debito di riconoscenza. Ma non voglio più immergermi di nuovo nei suoi libri. Non ho più bisogno delle sue lezioni di smarrimento.”; perché, pur nelle differenze reciproche, vi sono delle coincidenzeideali tra Šestov, Fondane e Cioran; perché Cioran e Fondane erano molto amici… Cioran stimava Fondane e ha scritto su di lui, negli Esercizi di ammirazione,il più bel ritratto che io conosca, solo cinque pagine, potenti, in cui viene resa giustizia a quest’uomo, più di quanto riescano interi saggi degli studiosi di Fondane; e perché questa silloge di Cioran, indirettamente, rivela anche il motivo della sua ammirazione per Fondane:

“In Francia, tutto proviene da una ‘esperienza letteraria’ o vi si riconduce. Ogni opera deriva da un’altra. La letteratura sostituisce l’esistenza, e ogni cosa evolve in essa a scapito del vissuto… La poesia occidentale ha perso l’uso del grido. Esercizio verbale, pratica da saltimbanchi e da esteti. Acrobazia da gente sfinita”.

“Letti alcuni saggi sulla fenomenologia di Husserl. È incredibile l’orgoglio di questi ‘filosofi’ rinserrati in una terminologia di scuola. Orgoglio settario. D’altronde in questo caso si tratta proprio di una setta. … E poi tutta questa gente che parla di ‘antropologia filosofica’ e non dell’uomo. Del resto sono passato anch’io per tutto questo, e sono stato trascinato nella stessa avventura e impostura verbale. Sono stati Pascal, Nietzsche e Šestov a tirarmene fuori. È così difficile guardare le cose in faccia, e così comodo attenersi ai problemi!”.

“Poco fa dicevo a un tedesco che è ridicolo parlare di filosofi esistenziali e farne un unico fascio. La differenza fra Pascal e Heidegger è quella tra uno Schicksal [Destino] e un Beruf [Mestiere]”.

“Nel libro di Foucault Le parole e le cose, che non ho nessuna voglia di leggere, mi imbatto in una frase in cui sono messi sullo stesso piano Hölderlin, Nietzsche e Heidegger. Soltanto un universitario poteva commettere un simile errore di leso genio. Heidegger, un professore, accanto a Nietzsche e Hölderlin! – Mi viene in mente quel critico che si è permesso di scrivere: ‘da Leopardi a Sartre’ – come se dall’uno all’altro potesse esserci la minima filiazione. Da un lato un poeta, uno spirito supremamente autentico, dall’altro un intrigante dotato, ma pur sempre un intrigante. Questo tipo di raffronti, questa confusione di valori mi fanno uscire dai gangheri”.

“Quando mi imbatto in un saggio filosofico in cui si parla di ‘metafisica’ o proprio di ‘filosofi’, lo lascio perdere subito. Voglio veder pensare, non vedere indagare i metodi e le discipline che invitano a pensare. Pascal ha parlato della propria angoscia e non della psicologia dell’angoscia. Tutte queste moderne branche del sapere sono fatte per coloro che non riescono a tirar fuori niente da se stessi, che sono privi di sostanza e non hanno esperienze su cui esercitare la mente. Si dovrebbe filosofare come se la ‘filosofia’ non esistesse, come se si fosse il primo filosofo. Insomma, al modo di un troglodita abbagliato o sgomento davanti allo spettacolo che si svolge sotto i suoi occhi”.

“Heidegger e Céline – due schiavi del loro linguaggio, al punto tale che per entrambi liberarsene sarebbe equivalso a sparire. Nell’asservimento alla propria maniera c’è necessità, gioco, e impostura… il filosofo e lo scrittore che, dopo Joyce, hanno più riflettuto sulla lingua per tormentarla, torturarla, farla parlare… Aguzzini del linguaggio”.

“I cattivi poeti leggono quasi esclusivamente i loro colleghi, così come i cattivi filosofi leggono altri filosofi. – Per un poeta è meglio leggere un libro di botanica o di storia che una raccolta di versi. In genere, è pericoloso seguire la produzione di un rivale… Il pregiudizio della ‘cultura’. – Le persone più interessanti e vere che abbia mai incontrato (soprattutto in Romania) non sapevano né leggere né scrivere… Ho orrore delle persone che meditano sull’arte, nutro avversione per il filosofo che è in ogni uomo, e a maggior ragione in ogni artista. Se fossi poeta, sarei come Dylan Thomas: quando qualcuno cominciava a spiegare le sue poesie davanti a lui, si gettava per terra in presa a convulsioni vere o finte… Il colmo della miseria! Oggi i poeti scrivono sulla poesia, i romanzieri sul romanzo, i critici sulla critica, i filosofi sulla filosofia, i mistici sulla mistica. Ciò che si fa è diventato l’unico oggetto del fare; il mestiere si è sostituito al reale; gli schemi all’esperienza; dovunque mancanza di originalità, di vissuto; la riflessione domina tutto; il sentimento non è più di moda, da nessuna parte – è come se non ci fosse più niente da sentire”.

“Tutti questo professori, Heidegger in testa, che vivono da parassiti di Nietzsche, persuasi che filosofare significhi parlare di filosofia. – Mi ricordano quei poeti che pensano che il compito dei versi sia di cantare la poesia. Dovunque il dramma dell’eccesso di coscienza: sarà esaurimento di capacità o esaurimento di temi? Probabilmente di entrambi: difetto di ispirazione che va di pari passo con il difetto di materia. Scomparsa dell’ingenuità; troppa destrezza, troppa abilità nelle cose essenziali. L’acrobata ha soppiantato l’artista, il filosofo stesso non è che un pedante che fa del contorsionismo”.

“Ho appena letto Gelassenheit di Heidegger. Quando usa il linguaggio corrente si vede quanto poco abbia da dire. Ho sempre pensato che il gergo sia una grandissima truffa. Volendo attenuare, si potrebbe dire: il gergo è la truffa degli onesti. Ma presentare le cose in questo modo significa essere indulgenti. In realtà appena si esce dal linguaggio vivo per trasferirsi nell’altro, tutto costruito, c’è la volontà più o meno inconscia di ingannare… Esasperato dalla lettura, in Questions 3 di Heidegger, del dialogo: Commento a ‘L’abbandono’. In francese non ha alcun senso, e in tedesco è una Wortspielerei [gioco di parole]”.

“L’enorme fama di Heidegger. Tutti si sono lasciati abbindolare dalla sua colossale impostura linguistica… la paranoia etimologica. Ma io mi sono già fatto la mia opinione su di lui. Quello che mi ha detto Ioan Alexandru sul colloquio avuto con il grand’uomo mi ha aperto gli occhi: alle domande semplici e profonde che il poeta romeno gli faceva, il filosofo rispondeva con della banalità. Il fatto è che, non potendo usare il suo gergo abituale, non riusciva a dire niente nella lingua corrente, viva, normale. Barare era impossibile”.

“Heidegger parla di Hölderlin come se si trattasse di un presocratico. Usare lo stesso metro per un poeta e un pensatore mi sembra un’eresia. Vi sono ambiti che i filosofi non dovrebbero toccare. Sezionare una poesia come si fa con un sistema è un crimine contro la poesia. Cosa curiosa: i poeti sono contenti quando si fanno considerazioni filosofiche sulla loro opera. Ne sono lusingati, la prendono per una promozione. Che pena! Non c’è che il sincero amante della poesia a soffrire per questa ingerenza sacrilega dei filosofi in un campo che dovrebbe essere loro vietato, che per natura è loro vietato. Non c’è un solo filosofo (Nietzsche?) che abbia composto una sola poesia accettabile! (Ci sono, è vero, i sistemi a tendenza poetica, Platone, Schopenhauer; ma lì si tratta della visione, o di un’opera che reca l’impronta della frequentazione di poeti, Schopenhauer)… Heidegger si è creato una lingua personale: un insieme di tic. Più esattamente: ha insufflato un alito di poesia nel gergo della fenomenologia. Un abuso di terminologia filosofica condito da un pizzico di poesia. Di ognuna delle sue opere verrebbe da dire: un grande libro illeggibile. Trakl è trattato alla stregua di un presocratico”.

“Rilette pagine di Heidegger: caso unico di profondità e di impostura… Cercato invano per la decima volta di leggere in francese Holzwege. Mi chiedo che cosa possa suscitare in un ‘giovane’ cervello questo stile esasperante, spesso incomprensibile, apparentemente profondo. In tedesco non è privo di bellezza, sebbene dia prova di una dismisura e di una presunzione assolutamente insopportabili”.

“L’incredibile orgoglio di chi usa un gergo inaccessibile. Quando da studente usavo quello filosofico, disprezzavo tutti coloro che non lo adottavano. Se si togliesse a Heidegger il suo linguaggio, se cioè si esponesse la sua filosofia in termini correnti, Heidegger perderebbe non la sua importanza, che è reale, ma il suo prestigio, che, come dice la parola, è illusione, inganno”.

Hai tradotto pressoché tutte le opere più importanti di Fondane in Italia. Raccontami la tua esperienza.

Io non amo tradurre, né penso di essere davvero capace. E dopotutto nessun libro, nessun autore, nessuno uomo o donna delle Lettere mi hanno mai dato, con le loro parole, la sensazione che mi dà l’esperienza di cavalcare un animale non umano di seicento chili, in simbiosi con lui, senza sella, voglio dire un cavallo, sperduti in una foresta o una spiaggia deserta. A uno schermo preferisco il verde, l’incontro con una volpe o un cervo o la compagnia di un cane. In un nuovo libro che sta per uscire, scrivo: “Ormai, in fondo, ammetto solo i libri che mi fanno percepire l’au de-là du livresque. In realtà sono sfinito, anche di leggere libri, è contro la mia natura… quando non ami scrivere e non sei un potente creatore, capace, di tuo, di schiavizzare le orde, ma solo un lettore, i libri sono una trappola, una gabbia, una culla, una cuccia. Un vile rifugio.” Vedi, eventualmente, se fossi capace, mi interessa solo l’idea di creare potente bellezza, anche con questo mezzo insufficiente della traduzione, qualcosa per cui uno possa provare una sensazione di piacere; come si può averla da un bacio appassionato, da un abbraccio voluttuoso, da un abile amante, da una corsa o un ballo sfrenato, da una risata incontenibile o un grido. Qualcosa che ricordi gli elementi, una loro eco atavica. Ma è una chimera, il segno di quanto io diffidi delle parole, di quanto non faccia affidamento in loro, di quanto le ritenga manchevoli. È solo questa sfida, perlopiù sempre persa, a interessarmi, beninteso, con i creatori che interessano a me… ma anche qui, sono molto passivo, non propongo mai nulla, se non cose stimolate da altri, perché non ho questo impulso ‘editoriale’. Tradurre, idealmente, dovrebbe essere qualcosa di fisiologico, una scossa e non qualcosa di intellettuale, da amorosi eunuchi – e lo è quasi sempre.

Ecco, Fondane, a suo modo, era “uno spirito avvincente, maestro nell’arte di animare le idee”, come scrive Cioran. Aveva una presenza. È dunque fondamentale restituirgli, non dico il suo stile, di cui nulla mi frega, ma, ben più importante, la vitalità del suo ritmo, il suo tono organico. Ci sono riuscito? Non saprei. Forse, in qualche misura, nelle mie traduzioni, riviste, di Fondane, e nella nuova edizione largamente rivista e ampliata del Baudelaire e l’esperienza dell’abisso, che sta per uscire presso la Nino Aragno, che ringrazio.Da qualche parte ho scritto: “D’altronde, l’unica conferma, l’unica plateale consacrazione che si possa ricevere, rispetto al reato di scrivere, è quando una donna, a tratti così più aderente alla vita, ti rivela che è stata toccata a tal punto dalle tue parole, che ha sentito l’impulso di toccarsi, di fotterti e leccarti, di mangiarti. È l’ammirazione di una creatura nelle cui vene scorra ancora un distillato degli elementi. L’ambrosia della zoologia. Il gorgo degli istinti. La razzia del mesencefalo. L’umido di una fessura che è una voragine. Cosa ce ne facciamo dell’ammirazione di un dotto inghiottito dai libri, di uno sbadiglio delle Lettere? Chi ha metabolizzato l’illicenziabile sa che le sole parole che hanno un senso e vita uccidono ogni disputa intellettuale, artistica, letteraria… sono uno sputo sul foglio, una rasoiata alla gola.” Questo mio testo, come sai, ora lo troverai nel libro che io e te abbiamo appena scritto insieme, e che a breve uscirà per la Nino Aragno, ossia: ONÇA. L’albero della scienza non è l’albero della vita, con una mia parte, intitolata “Sotto una luce fredda”, che rappresenta la trascrizione di un lungo dialogo avuto all’aeroporto di New York insieme al mega direttore di uno dei maggiori quotidiani nazionali italiani, e la tua sezione, intitolata “Bestiario”, una bella raccolta di racconti in tema con il dialogo.

La stessa cosa vale per la traduzione, almeno per me… so che la mia è una pretesa anomala, una personalissima visione, inattuabile come metodo; non fa statistica… e poi, è un’indole che, o ce l’hai per natura, o non ce l’hai, non te la puoi dare come tecnica, in modo costruito, artificiale. E ti dico anche questa. Io, se fossi un editore, ospiterei solo traduttori che, a loro volta, sono creatori, ossia potenti scrittori o poeti; i traduttori che non creano, infatti, sono in una posizione molto più equivoca; in fondo, la maggior parte delle volte sono nevrotici che, incapaci di creare, sublimano la propria impotenza vivendo da parassiti delle opere altrui; vivono di luce riflessa, quando mettono il loro nome come traduttori o curatori, perché sentono, e sperano, che quel libro diventi, almeno in parte, qualcosa che appartiene anche a loro. Così… vietato tradurre e chi non sa creare di suo. Sono un po’ rigido, vero?

Perché, infine, leggere questo libro Magog di Fondane?

Come sempre, ti posso rispondere solo con una risposta personale. Se io fossi interessato alla filosofia, vorrei leggere qualcuno che ne fa esperienza come ha fatto Fondane, ossia mettendo in causa il fatto stesso di esistere. E poi, se ho ripetuto più volte, nelle nostre chiacchierate pubbliche, che io percorro strade diverse da Fondane, e che non ho la minima inclinazione religiosa, la ragioni sono due… per preservare la mia autonomia, dato che non seguo nessuno, e la mia strada non è la sua; ma anche perché, se uno fa questa distinzione e si interessa comunque a un autore, vuol dire che questi è realmente importante, potente, bello e supera le categorie, le differenze. È l’indizio di un valore.

Di fronte a un’Umanità in preda a un assopimento profano, il poeta veglia. Ipnotizza tutti. Vi pone nel suo incantesimo. A lui non potreste chiedere di meglio che distrarre il vostro inscalfibile dubbio, di sentirvi complici della sua inevitabile sconfitta e, quando sospende l’incredulità, di offrirgli la giugulare, a tratti, forse, per solidarietà con l’impossibile. L’Umanità non ha dimenticato, si è solo abituata al dolore, alla perdita di questa dimensione, benché sia da sempre temuta. Buona lettura.

Gruppo MAGOG