25 Febbraio 2018

Quando Folco Quilici ci mostrò l’Eden in un palmo di mano. Donne di bronzea bellezza, senza peccato, e un piccolo Omero che suona una lira fabbricata con la mascella di uno squalo

Sono lì, sparpagliate, come denti di squalo gettati sulla terra sperando che nasca una generazione di giganti. Le Tuamotu, Polinesia francese, sono il più vasto gruppo di atolli al mondo. Spunzoni di terra in mezzo all’abbacinante blu, miraggi, zattere, lingue di sabbia sulla schiena oceanica di Dio. Sulle Tuamotu Folco Quilici ha girato, nel 1962, un film a cui teneva molto, Ti-Koyo e il suo pescecane. Per quel film, Quilici aveva ottenuto il produttore de Il Gattopardo, Goffredo Lombardo e soprattutto Italo Calvino, alla sceneggiatura. Il film, dicono gli esperti, pecca per eccesso di miele, ma non è questo il punto, ora.

Ultimo paradiso
La locandina della versione inglese de ‘L’ultimo paradiso’, che promette “divinità di bronzo” e “un mondo selvaggio”

Nel 1957 Quilici gira il primo film dalla Polinesia. Si intitola L’ultimo paradiso, e una locandina particolarmente succosa (una divina dal corpo nudo adornato di fiori si stira mentre al suo fianco, in lontananza, uomini muscolosi sfidano uno squalo gigantesco), promette “divinità di bronzo… un audace avventuriero… un mondo selvaggio”, e soprattutto, “ammira dove la civiltà umana non è mai stata prima”. Il culto dell’ignoto associato al forte, all’erotico. Riconosciuto come grande documentarista e geniale divulgatore (cosa rara: oggi i giornalisti non divulgano ma dicono, opinano, pretendono di essere profondi come Heidegger e bravi come Proust), Quilici ha scritto un libro speciale, che è l’esito e il presupposto dei film polinesiani. Per me, ora che Quilici è già storia e i giornali patrii si sono sprecati in vigorosi ‘coccodrilli’, il libro più bello – e quasi sconosciuto – di Quilici si intitola Ultimo paradiso. Il libro, pubblicato nel 1960 da Leonardo da Vinci Editore in Bari, è il diario di viaggio di Quilici alle Tuamotu. Narrativamente sobrio, senza divagazioni da esteta del reportage, Quilici ‘divulga’ e ci porta l’Eden in palmo di mano. L’immersione di Quilici nella vita degli abitanti dell’atollo, alieni dal ‘progresso’, significa sprofondare in una dimensione pre-adamitica, dove predomina la sapiente voluttà di eros. “Affascina l’istintiva femminilità del loro essere, una femminilità quasi animalesca, e la ingenua semplicità (oserei dire purezza) del loro carattere… non c’è traccia in fondo all’animo della donna polinesiana di alcun senso di ‘peccato’ legato all’idea dell’atto sessuale. ‘Quel’ peccato non esiste, nelle Isole, non è mai esistito e nessuno riuscirà mai a farlo esistere se non ci sono riusciti i missionari di dodici religioni diverse che predicano da quelle parti da centocinquant’anni. Da questo ne deriva che l’amore è solamente una cosa bella che ogni donna deve essere fiera di fare e di saper fare, ed il matrimonio è l’unione di un uomo e di una che si amano, e dipenderà solo da loro quanto durerà”. Il libro è adornato da fotografie di fanciulle di divina magnificenza, con seni sodi al sole. La nudità non crea vergogna, la psiche di questi uomini, pare, non è il labirinto in cui roviniamo ogni giorno. Quilici – che nel libro racconta anche l’avvenente caccia quotidiana allo squalo – ci mostra quel mondo dove l’uomo non è diverso dall’albero, dalla pietra, dall’ondeggiare della luce. Dove il tempo è teso tra tedio e titano carnivoro. La vita predomina sulla memoria, la natura sul pensiero. Il naturalista s’inchina al sano desiderio dell’uomo occidentale di perdere se stesso nei mondi alieni: Robert Louis Stevenson, Paul Gauguin, Joseph Conrad… Ma la tara, il tarlo dell’uomo evoluto, europeo, lo sapeva anche Lev Tolstoj (leggete I cosacchi, please), gli impedisce di vivere ‘naturalmente’, di optare per la perdizione nella gioia. L’uomo europeo osserva e documenta – oppure invade, con la fiala di Eden annuale (che si volta quasi subito in inferno), il turismo.

ultimo paradiso
‘Ultimo paradiso’ è il libro di Quilici pubblicato nel 1960 da Leonardo da Vinci Editore

Nella trasfigurazione mistica di Quilici, la Polinesia è il luogo risolto, “L’ultimo paradiso lo si scopre nei Mari del Sud vivendo insieme ed amando la gente delle Isole. Penetrando la loro felicità, sempre nuova per un continuo contatto con la Natura, e sentendo che essa è difesa e protetta dalle forze di un mare sconfinato, si comprende perché quegli uomini e quelle donne sono sempre sereni, pieni di gioia, gioia d’amare, gioia di vedere, di lottare, di non far nulla, pieni di gioia di vivere”. Il lavoro europeo contro il “non far nulla”; il desiderio avido di possesso contro la “gioia di vivere”. Sembra una riedizione tascabile del ‘buon selvaggio’. Nelle pagine iniziali del libro, Quilici descrive gli atti di Atemi, un bimbo polinesiano. Su una spiaggia il bimbo trova “una bianca mascella di pescecane”. Su di essa “aveva teso dei fili di fibra di cocco: toccandoli ne uscivano dei suoni stranissimi e meravigliosi”. “La mascella era come una curiosa lira”, chiosa Quilici. Eccolo lì, Atemi, l’Omero polinesiano, che suona una lira fabbricata con la mascella di uno squalo. Forse, la trasfigurazione di Folco.

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