“La bellezza ci dispensa dal vivere”. Cioran su una bicicletta da corsa
Filosofia
Livia Di Vona
Il libro di Massimo Mugnai su «come non insegnare la filosofia» (Raffaello Cortina, 2023) ha un difetto che oggi risulta imperdonabile, cioè presentare il dibattito intorno alla didattica della filosofia in Italia all’interno di uno schema ormai obsoleto: meglio insegnare la filosofia storiograficamente o sistematicamente? Meglio un manuale di storia della filosofia (dall’acqua di Talete all’Idea di Hegel), eventualmente farcito di nozioni sociologiche e/o psicologiche, o un manuale sistematico di filosofia? All’obsolescenza di questo schema si aggiungano pure l’esterofilia e la solita disputa tra analitici e continentali, così che il gioco è fatto: un nuovo libro di filosofia a carattere divulgativo, piacevole ma inutile.
Quello schema non ha dato frutti in passato, ed è improbabile che risulti proficuo oggi. Piuttosto sarebbe il caso di chiederci come mai. Sostengo che esso non funzioni in quanto basato su alcuni equivoci. La prima confusione di cui è affetto riguarda la distinzione tra metodo di insegnamento e disciplina: la storia della filosofia non è un metodo di insegnamento della filosofia, più semplicemente è una disciplina filosofica tra le altre. In altre parole, nei licei italiani non si assiste all’insegnamento della filosofia mediante metodo storiografico, magari giustificato dalla tesi idealistica o storicistica della identità di filosofia e storia della filosofia, quanto piuttosto all’insegnamento di una particolare disciplina filosofica (e storica): la storia della filosofia. Si può sostenere – come io farò – la legittimità didattica dell’insegnamento della storia della filosofia senza con ciò stesso sentirsi impegnati a difendere la tesi della identificazione della filosofia con la storia della filosofia, o senza sentirsi almeno un po’ continentali.
Il rapporto didattico che in relazione alla filosofia l’insegnamento della storia della filosofia realizza nei licei italiani è dello stesso genere di quello che si realizza tra l’insegnamento – poniamo – dell’aritmetica dei numeri naturali e la matematica. Per ragioni didattiche o di psicologia dello sviluppo, si può legittimamente ritenere che il primo approccio alla matematica debba essere fatto attraverso lo studio della aritmetica dei numeri naturali. Ciò non implica né la tesi della riduzione della matematica all’aritmetica dei numeri naturali, né che l’aritmetica dei numeri naturali sia un metodo privilegiato di insegnamento della matematica.
Il tema della didattica della filosofia potrebbe essere riguardato da una diversa angolazione. Mugnai lo fa, ma non fino in fondo. Vale a dire: possiamo domandarci se la storia della filosofia sia la disciplina filosofica più adatta nel perseguire gli obiettivi didattici – in termini soprattutto di competenze e di abiti cognitivi – che il ministero italiano della pubblica istruzione si propone di realizzare relativamente all’insegnamento della filosofia. Attraverso l’analisi di alcuni documenti ministeriali, Mugnai è fin troppo bravo nel mostrare la «confusività» che alberga nelle menti di chi dovrebbe far chiarezza sugli obiettivi didattici dell’insegnamento della filosofia. Questa strada non è dunque percorribile.
Nel tentativo di superare (termine, questo, filosoficamente impegnativo) il vecchio schema, dovremmo forse prendere atto che in realtà non esiste la filosofia come disciplina di insegnamento, più di quanto non esista la scienza naturale. Esistono invece la biologia, la chimica, la fisica, etc. Analogamente, esistono l’epistemologia, la logica, l’etica, etc. Ciascuna disciplina filosofica ha una sua parte istituzionale, i suoi metodi e i suoi problemi. Come in un percorso di studi potremmo ritenere utile insegnare la fisica, ma non la chimica, senza per ciò impegnarci nella riduzione delle scienze naturali alla fisica, così, nella stessa ottica, potremmo introdurre l’insegnamento della logica e dell’epistemologia nei licei scientifici, della storia della filosofia antica nei licei classici (con la lettura di classici in lingua originale), della filosofia del diritto nei percorsi di studi con marcato orientamento giuridico, della più giovane filosofia del linguaggio nei licei linguistici, etc. Insomma, rinunciare all’insegnamento della filosofia come disciplina autonoma in vista di un insegnamento al plurale delle filosofie, potrebbe fornire una chiave di lettura alternativa per affrontare il tema della didattica della filosofia in Italia. Una simile impostazione pluralistica dell’insegnamento filosofico richiederebbe una riforma del corso di laurea in filosofia? Non necessariamente. Più avanti forse sì.
Luigi Pavone