Entrare nelle Isole Faroe e nelle sue leggende è fare un viaggio in compagnia dei giganti. Se guardiamo qualche documentario o qualche fotografia di questi magnifici e terribili paesaggi del Nord, non stupisce che le fiabe faroesi siano impregnate di troll e giganti, prove da superare. Fiabe Faroesi, edito dalla casa editrice Iperborea nel 2018, è il primo testo in italiano che riporta il patrimonio di racconti tramandato oralmente in quelle isole del nord, lontane province della Danimarca, con una lingua e una tradizione tutta loro. Queste isole sono roccia, cascate, verdi prati e pochissimi centri abitati. Le loro fiabe rispecchiano questa austerità; poche ciance nella narrazione, la poesia c’è ma è un legante necessario in alcuni passaggi, per il resto abbiamo figure mastodontiche e pericolose come i troll di montagna e le streghe che compiono sortilegi.
L’elemento magico però potremmo dire che passa quasi in secondo piano, c’è una componente magica che è nascosta alla narrazione, è presente ma non viene apertamente nominata. Questo perché la magia, per come noi oggi la intendiamo, era parte del quotidiano, anticamente; la magia naturale non è altro che la dominazione degli elementi, la possibilità di estrarre da una terra apparentemente inospitale, come quella delle Faroe, tutto il necessario. Le montagne e le grandi scogliere a picco di queste isole nel mezzo del mare del nord sono vive, possiedono letteralmente un’anima, possono dare la vita o la morte. Ecco i giganti delle montagne, ecco i troll di cui la narrazione di queste fiabe è piena. I giganti e i troll sono però descritti come esseri informi e non completi, dotati di una grande forza ma allo stesso tempo di mancanza di controllo. Possono avere anche dieci teste, ma di queste dieci nessuna funziona alla perfezione; diciamo che i giganti mancano di intelligenza. Hanno troppo di molte cose ma l’eccesso è qualcosa che sbilancia l’equilibrio generale, un ordine deve essere ristabilito.
I giganti però sono i primi abitatori del cosmo, dalla loro prospettiva essi stessi sono le montagne e le rocce, hanno diritto di chiedere cibo in quantità e, quando il bestiame non basta, anche gli uomini fungono da croccantini. I giganti conoscono le leggi della natura, sono coloro che abitarono il mondo prima di tutti, sono delle prove di creazione, degli esseri a forma d’uomo venuti male. Qui sta la loro rabbia, la loro connessione totale con gli elementi della natura, e quindi la loro onnipresenza nelle fiabe faroesi. In diverse culture si crede ancora che per scalare una montagna o per affrontare un lungo viaggio nella natura sia necessario invocare gli spiriti della natura, porgere delle preghiere, delle offerte. Questo vale per le montagne sacre in India, ma anche in Tibet. Nella cultura del nord ogni cosa è vivente e ha un proprio respiro; le alte scogliere delle isole Faroe respirano e parlano, se necessario prendono vita e fanno cadere il piccolo uomo che le calpesta senza chiedere permesso. Nelle fiabe faroesi tutto questo non viene descritto semplicemente perché non era necessario farlo, il rispetto per gli elementi naturali era scontato. I troll sono in quasi tutte le fiabe, sono l’elemento con cui un giovano uomo deve scontrarsi, dove l’uomo deve superare sempre tre prove, deve usare l’intelligenza e la scaltrezza.
Nelle fiabe faroesi i giovani protagonisti sono quasi sempre i figli più piccoli, considerati dal padre e dai fratelli come “minori” in tutti i sensi. Sono quindi esseri umani fortemente sminuiti dalle figure paterne, considerati buoni a nulla, a cui viene impedito di misurarsi nella vita. Sono figli svalutati e sottovalutati. Ma cosa avviene, perché proprio questi figli sminuiti sono i protagonisti delle nostre storie? Perché normalmente un ragazzino che viene su in questo modo è davvero un buono a nulla, come Ceneraccio che sta a rimestare la cenere tutto il giorno, e quindi come è possibile che si trasformi in un eroe? Dove sta il passaggio? Il ponte che permette all’ultimo del carro il passaggio a eroe è interno e intimo, è una trasmutazione del dolore nell’intimo della propria anima, è la capacità di far sorgere dalle ceneri rimestate tutto il giorno il coraggio e l’umiltà. Ma il successo nell’impresa non viene concesso gratuitamente, non bastano l’umiliazione della famiglia e la svalutazione subita a far tornare i conti, ci vuole l’applicazione di una vera volontà, la volontà al cambiamento della propria sorte. Ecco quindi comparire le tre classiche prove, tre prove che devono essere superate in serie, spesso con l’aiuto di animali parlanti e saggi, sotto la cui pelliccia si cela in realtà un principe, come nel caso di Fiuto, una delle fiabe raccolte.
L’atto di volontà consiste in una spinta che parte dal plesso solare, una spinta che dal centro della vita va verso la vita stessa; i giovani umiliati cercano solo il bene e attraverso questa ricerca ricevono il bene, dandolo in cambio, aiutando animali magici sulla loro strada che gli offrono preziose ricompense. La lentezza è la risposta, agire in modo lento, fermarsi per strada a osservare la vita, aiutare chi ce lo chiede.
Nelle fiabe faroesi pare che la componente magica, come la presenza di streghe e stregoni, sia scarsa a un primo sguardo. In realtà la pratica della magia è presente in tutte le fiabe, in alcune è più esposta e dichiarata, in altre è totalmente celata perché lasciata sottintesa. C’è però una fiaba di cui mi voglio occupare, molto interessante dal punto di vista di pratica magica: Il re nel corpo del cervo. In questa fiaba si racconta di un re che va a caccia con un servitore: durante la battuta uccidono un cervo. Il servitore chiede al re se vuole imparare a ridare la vita al cervo: qui il passaggio non è descritto ma il servitore evidentemente spiega a livello magico come far sì che il re possa trasferire la propria anima, la propria scintilla vitale, dentro il corpo del cervo morto. In questo modo però il corpo del re rimane vuoto e il servitore mette la sua vita nel corpo del re, pertanto prende il suo posto e incita i cani a correre dietro al cervo. Il cervo riesce a scappare, lungo la strada però vede un usignolo morto e passa la sua vita in lui; vola fino a palazzo e si fa catturare, così da cantare ogni giorno per sua moglie, la regina, all’oscuro di tutto.
La storia continua ma noi ci fermiamo qui, non voglio rovinarvi la sorpresa e il gusto della lettura. Questo passaggio però, in cui un uomo trasferisce la sua anima e la sua vita nel corpo di un essere morto, è una pratica che attiene a due estremi di realizzazione: da una parte sconfina nella negromanzia, dall’altra questo trasferimento di anima temporanea nel corpo di un morto è operazione effettuata dai più grandi mistici e maestri spirituali. Questa altissima pratica è detta in tibetano “drong jung”, significa letteralmente “entrare nella città”: è una pratica segreta di meditazione e yoga esoterici che veniva tramandata da maestri di lignaggio elevatissimo e poi scomparsa. Questo tipo di meditazione prevedeva la capacità di trasferire il principio cosciente vitale dal proprio corpo in un corpo morto, un cadavere, che si animava. Poi bisognava rientrare nel proprio corpo, che in quel periodo di “assenza” rimaneva come immobile, in stato meditativo. Dietro la formula di una bella favola, si descrive una pratica spirituale ardua, un insegnamento pericoloso destinato a pochissimi e poi – si dice – scomparso. Un altro modo per ottenere questo effetto di trasferimento del principio cosciente in un cadavere è quello di utilizzare la magia negromantica o la magia di patto: in queste zone del nord era frequente l’uso della magia di patto, dello scambio equilibrato tra entità specifiche e praticanti di magia. Il servo del re, infatti, chiede al re se vuole “imparare” come si fa a ridare la vita al cervo. Ecco che il servo non è proprio un vero servo, ma possiede una conoscenza ben superiore a quella di un semplice servitore. Probabilmente conosce la magia di patto, un patto ottenuto con il sangue e il sacrificio, che si paga sempre in magia (non credete a chi vi dice che si evita il colpo di ritorno) e questo lo dimostra la fine della storia che vi lascio scoprire da voi.
Una pratica descritta in due paginette, in modo spiccio e scarno, come solo i nordici sanno fare; con quel temperamento che non ammette fronzoli o abbellimenti, la narrazione delle isole Faroe rispecchia il suo spirito, tutto è ridotto al minimo, qui si deve sopravvivere tra giganti di montagne e un mare che non accarezza nessuno. È però interessante ritrovare nei miti elementi comuni tra culture apparentemente distanti; nella parola risiede il mistero della creazione. È quel primo urlo ordinatore del cosmo che impone la prima vibrazione nella terra, dove tutto prima era immobile, senza vento né aria. Quel primo urlo di sacrificio, quel primo pianto del primo bambino nato sono il seme della parola, del logos, dei miti che ancora oggi ci tramandiamo e di cui è fondamentale imparare a conservarne la funzione sacrale.
Clery Celeste