10 Ottobre 2023

“Perché è bella l’arte? Perché è inutile”. Piccolo discorso sull’inquietudine di Pessoa

Suppongo sia un’attitudine, una vocazione dello spirito, qualcosa di genetico che non ci si può togliere di dosso, l’esprimersi meglio per mezzo degli aforismi e trovare la propria dimensione di scrittore al di fuori di sé, calzando una maschera che nasconde il proprio vero volto. Fernando Pessoa riflette per frasi brevi, dense di significato; probabilmente necessita lui stesso di concentrazione sull’essenza della verità, ma ci stupisce perché parla immaginando di essere qualcun’altro e quel suo immaginare non è soltanto una fantasia, ma una vera e propria generazione di personalità nuove. L’utilizzo degli eteronimi, fenomeno letterario che lo ha reso universalmente celebre, è la cifra stilistica del grande scrittore portoghese ed è anche un caso pressoché isolato in letteratura.

Pessoa non inventa solo le storie, ma anche (e soprattutto) i loro autori: in breve, fa agire scrittori diversi, dotati di proprie idee, esperienze, stili, poetiche e quadri psicologici. Dietro ciascuna di quelle personalità fittizie c’è sempre lui, naturalmente, ma non si cada nella tentazione di poter trovare in Álvaro de Campos, Ricardo Reis, Alberto Caeiro e Bernardo Soares una qualsivoglia somiglianza: se ne troverebbero di più tra quattro estranei che si incontrano occasionalmente a chiacchierare in un bar. Sarebbe pure errato liquidare la faccenda sostenendo che, in realtà, egli ha messo pezzi di se stesso in ciascuno di loro, frammentando la propria personalità, perché vi sono elementi di integrità in ciascuno degli eteronimi (e in ciascuna personalità) che definiscono perimetri esistenziali di individui che sono tra loro totalmente incompatibili.

Un principio di paradosso costringe a diversa lettura: si può ritenere non troppo azzardata l’affermazione che egli sia – davvero – tanti scrittori in uno e gli si può a buon diritto riconoscere questo primato per aver dedicato l’intera vita a dimenticare (letteralmente) se stesso, a desiderare di essere dimenticato. Se questa profonda disaffezione per l’Io delegittima troppo la logica, occorre farsene una ragione e vedere l’evento come qualcosa che non trova una spiegazione soltanto perché non è stato sufficientemente studiato o perché ancora non se ne conoscono le cause. Forse egli è soltanto la dimostrazione vivente che in noi vivono infiniti mondi e punti di vista, che riescono a farsi strada nella realtà solo nella misura in cui ne diciamo e ne scriviamo, liberandoci del troppo opprimente spazio occupato da qualcosa che non è nostro ab origine, ma che ci può solo essere attribuito dagli altri: l’identità. La sua letteratura sente estranea, insopportabilmente scomoda, quell’attribuzione ed è percorsa dallo scrupolo di chi è nato con un desiderio – forse ossessivo e psicotico – di uscire da sé ed essere altro da sé. Questo atteggiamento è per noi stimolo di riflessione sulla complessità dell’intelletto umano, perenne testimonianza della potenza della letteratura per chi la crea e per chi ne fruisce.

L’autore del Libro dell’inquietudine, suo capolavoro indiscusso, è l’alter ego Bernardo Soares: un ortonimo, una personalità molto prossima a quella di Pessoa stesso, qualcosa che dell’eteronimo conserva solo alcune caratteristiche, ma in cui il discostamento dalla personalità dello scrittore è solo parziale e incompleta. Nella mia mente si visualizza l’immagine di quelle maschere del carnevale veneziano che, nella parte bassa, lasciano scoperta la bocca; uno Zorro a noi tremendamente contemporaneo che desidera agire indisturbato, senza il pesante fardello dell’identità, ma che in fondo non accetta di smarrire totalmente se stesso. Il messaggio si fa così misterioso e sottile, come vago e sfuggente è il confine tra l’identità costruita dalle relazioni col mondo e quella percepita dentro di sé.

Dove l’Io si specchia nella sua piena coscienza, intravedendo la vacuità del capolavoro che si manifesta nel puro esistere senza scopo, da lì provengono le parole di Soares. In quella lontanissima terra, quasi irraggiungibile, desertico luogo interiore in cui siamo soli con l’unica verità che ci appartiene – fatta di attesa – possiamo udire la voce di un menestrello scritta su un libro, che canta un po’ di quella sottile inquietudine:

“Considero la vita una locanda, dove devo fermarmi fino all’arrivo della diligenza dell’abisso. Non so dove mi condurrà, perché non so niente.  Potrei considerare questa locanda una prigione, perché in essa sono costretto all’attesa; potrei considerarla un luogo in cui socializzare, perché qui mi ritrovo insieme ad altri. […] Mi siedo alla porta e imbevo i miei occhi e orecchi dei colori e dei suoni del paesaggio, e canto sommessamente, solo per me, vaghe canzoni che compongo nell’attesa. Per tutti noi scenderà la notte e arriverà la diligenza. Godo della brezza che mi è data e dell’anima che mi è stata data per goderla, e non mi pongo altre domande né cerco altro. Se ciò che lascerò scritto nel libro dei clienti, riletto un giorno da qualcuno, potrà intrattenerlo nel transito, andrà bene. Se nessuno lo leggerà, né si intratterrà, andrà ugualmente bene”.

Così si presenta al lettore l’ortonimo Bernardo Soares. Il Libro dell’inquietudine, scritto dalle mani che gli ha offerto in prestito Fernando Pessoa, porta il lettore in quel luogo appena descritto, dove ogni cosa ha la consistenza e la durata di un refolo di vento. Ogni possesso è perduto, ogni traccia è coperta, compresa la memoria di esserci stati.

Tre frasi di quel libro ci permettono di assaporarne la consistenza.

“Passare dai fantasmi della fede agli spettri della ragione è solamente un cambiare di cella”.

In una manciata di parole, Pessoa sfugge a tutte le classificazioni: egli non è un credente, ma non è nemmeno un ateo. Forse è un simbolista ma, per chi ha la necessità di classificare le persone secondo lo scopo che imprimono alla loro esistenza, rappresenta un enigma irrisolvibile. Probabilmente, per avvertire meglio l’essenza di questa personalità e la filosofia di questo libro è meglio disconnettersi dall’impostazione (occidentale) che pretende ogni essere orientato ad un obiettivo e conciliarsi con una visione dell’essere come entità che nulla sa, possiede o pretende, ma semplicemente fluttua nel cosmo, generando segni di sé – che da questo si distaccano come raggi di luce, nell’attesa di venir meno e in altro trasformarsi.

Ragione e fede sono confrontate come due forme di pura invenzione, due modi in cui la mente umana è ammaestrata e impara a comportarsi secondo parametri prestabiliti. Entrambe si adoperano per trovare un ordine nel caos e, forse, proprio in quell’atto di ricerca orientata, generano una fantasia. Limitare la prospettiva significa costringere, imporre regole, attenersi, rispettare. Siamo di fronte all’eterno dilemma del filtro di osservazione, che anche la natura, nelle sue manifestazioni atomiche, quantistiche, infinitamente piccole, ci conferma essere il principio di errore più diffuso nell’umano agire: chi indaga finisce per cambiare la realtà e si trova di fronte qualcosa che prima non era. Ma è davvero possibile eliminare il fattore che guasta la visione? Se la risposta è negativa, allora significa che una capacità è del tutto assente nella coscienza di sé e cioè quella di eliminare se stessa. L’uomo è comunque sempre presente a se stesso, se non per brevi momenti in cui sfugge a quella morsa per fattori naturali: il sogno, l’infanzia, l’amore giovanile, le fasi appena precedenti il morire. In ogni altro momento della sua vita opera una scelta tra le regole cui si deve attenere l’esercizio dell’intelligenza. Fede e ragione sono gli estremi di quell’esercizio di contenimento: mutano i parametri della verità e gli strumenti della sua ricerca, ma entrambe limitano l’azione nel ristretto campo delle loro regole.

Pessoa, tuttavia, inquadra un difetto ma non fornisce un’idea di quale dovrebbe essere la prospettiva di osservazione corretta della realtà, di dove si trovi la chiave per liberarsi dalla cella. Si suppone che una parte della sua soluzione stia però nell’invenzione degli eteronimi. Di nuovo – spersonalizzare la propria azione per sfuggire al vincolo dell’identità. Ha così dimostrato a se stesso – e a noi – di poter essere chiunque voleva essere, ma questo l’ha davvero liberato dai vincoli della ragione? Quando si opera nel perimetro dell’essere (altrui) si può dire di essere usciti dallo stringente limite dell’identità, ma non da quello dei parametri di verità cui ogni essere si attiene. Se l’esistenza può essere ritenuta autentica solo quando completamente indipendente dal destino personale, dall’identità, dalla coscienza dei propri limiti come avviene in animali, infanti, innamorati e morenti, quando non interpretiamo, anche solo temporaneamente, uno di quei ruoli, sembriamo essere destinati ad una scelta che ci costringerà comunque a vivere intrappolati in una rete. In questo senso Pessoa è riuscito a svincolarsi dalla prigione dell’identità, individuando una possibile soluzione nel disaffezionamento al sé e spingendosi così lontano dai propri territori spirituali da aver potuto essere contemporaneamente se stesso o chiunque altro.

“Tutto è imperfetto, non c’è tramonto così bello da non poterlo essere di più, o brezza lieve che invita al sonno che non possa favorire un sonno ancora più sereno”.

Cosa accade se si desidera qualcosa che si contribuisce a rendere impossibile? Un tumulto si scatena quando si comprende di essere, probabilmente, i principali responsabili della propria infelicità; a meno che non sia proprio il permanere in quello stato di sottile e costante afflizione che consente di sopravvivere. In realtà non è dato sapere quali siano i fattori che garantiscono all’essere umano un equilibrio. Vi sono parecchie teorie psicologiche che individuano nella difficoltà, nell’adattamento alla complessità del vivere, la chiave per la serenità interiore e la soluzione di molti stati nevrotici; ma è certo che la perfezione è un concetto astratto, tipicamente umano, una pura invenzione. Questa è la riflessione che ci sottopone Pessoa nella frase. Il controsenso insito nell’atteggiamento umano nasce dall’abitudine a darsi degli scopi: vincere la noia e porsi degli obiettivi, anche inventati, purché idonei a motivare la propria azione e mantenere l’esuberanza cerebrale in uno stato di ragionevole bilanciamento. Un prodotto mentale, tuttavia, che per quanto necessario (e utile) non corrisponde necessariamente ad alcuna realtà. Per l’essere umano, dunque, desiderare la perfezione vuol dire fare esattamente ciò che serve per rendere un obiettivo impossibile da raggiungere. Il disagio perenne nasce da questo equivoco, che potrebbe essere facilmente risolto accettando l’idea che la perfezione non esiste e che non v’è motivo di dolersene. Il valore che l’uomo attribuisce alla realtà non sarà, comunque, mai sufficiente per descriverla e porsi come obiettivo la perfezione significa non aver compreso la natura della vita o, forse, non aver inteso la natura della perfezione.

“Perché è bella l’arte? Perché è inutile. Perché è brutta la vita? Perché è tutta fini e propositi e intenzioni. Tutte le sue strade portano da un punto a un altro punto. Magari ci fosse una strada in un luogo dove nessuno va!”

Un elogio alla “bellezza dell’inutilità” e allo stesso tempo una condanna alla programmaticità dell’esistenza. Agire unicamente in ragione della profittabilità di un accadimento significa impostare una vita intera su quel meccanismo e, di conseguenza, perdere il legame naturale con le azioni prive di utilità. Quello tra le attività umane e la loro funzione è un legame antico, che trae origine dalla lotta per la sopravvivenza. In natura gli esseri viventi passano buona parte del loro tempo alla ricerca del cibo, dunque appresso ad un agire che pretende stretta connessione tra l’azione e la motivazione. Questo meccanismo, nell’uomo, è andato incontro a varie forme di degenerazione, ma il vero cortocircuito corrisponde al passaggio dall’indispensabile al superfluo. Il superfluo, in sé e per sé, ha valore per ciò che è, non certo per la sua utilità. In questo senso sembra soddisfare il paradigma dell’“agire senza scopo” di cui parla Pessoa. Il problema dell’uomo, tuttavia, è che non anela all’inutilità beatificatrice di azioni, eventi ed intenzioni, ma ad un preciso rapporto con il superfluo basato sul possesso. Attribuire utilità al superfluo che si ricava dal possesso delle cose e, di conseguenza, fare qualunque cosa pur di possederle è ciò che spezza quel legame antico tra l’essere e la generatività intrinseca dell’ozio operoso. Il controllo, il dominio, il possesso sulle cose del mondo – anche quelle poche che un povero o un modesto uomo si può permettere – pretende un cursus honorum, una sequela di eventi nella quale ciascuno si trova a spendere gran parte del suo tempo a programmare, pianificare, progettare. Se in questo quadro si vede dipinto uno scenario che sa, in fondo, di pura normalità, forse valutare le conseguenze di questo atteggiamento collettivo su se stessi può aiutare a metterne a fuoco il (vero) profilo orripilante e a renderne più chiare le conseguenze tragiche. Per far questo occorre trasformarsi da soggetto attivo a soggetto passivo e immaginare come si è visti dagli occhi dell’uomo che insegue la materialità e il possesso delle cose (superflue): valutati unicamente per i vantaggi che si offrono o che non si offrono. Possiamo essere certi che, in assenza di una utilità da offrire come merce di scambio, (pressoché) nessuno si curerebbe di noi.

Tuttavia, in un mondo dove tutti si muovono in questa direzione, la scelta obbligata diventa quella di rinunciare alla grandezza e alla bellezza, ossia al superfluo senza possesso. Magari, portando con noi questa riflessione, spaventati dall’essere, in ultimo, aguzzini di noi stessi, faremo pervenire un diverso e più benevolo sguardo al musicista di strada che propaga per la via in cui ci troviamo a camminare la sua bella melodia, senza nulla chiederci in cambio; e faremo così, invece di concentrarci grettamente sul suo capello rivoltato a terra, trafitti dal pensiero che – come penserebbe il meschino – stia suonando soltanto per averne un tornaconto.

Riccardo Peratoner

Gruppo MAGOG