Ciò che andrebbe sbriciolata è la statua della leggenda, la statura del mito. Eppure. Forse. La fiammata della leggenda c’è. Io ho fatto l’esperimento. Biblioteca di Cattolica. In questa frangia di landa romagnola, una delle più fornite. Più di una volta, rompendo l’origami estivo, ho trovato diamanti – l’ultimo lo ricordo pure: Maksim Gor’kij, il diario che registra i suoi incontri con Lev Tolstoj, in parte pubblicati su questo foglio digitale. Cerco. Non trovo. M’intestardisco. Sussurro il nome al giovane bibliotecario. Manca. Fa il nome di un paio di altre biblioteche. In effetti. Più tardi faccio una ricerca in solitudine, nel magazzino delle biblioteche patrie. Pochissimo. Dante Arfelli. Nome notissimo, cognome poco diffuso, che sa di ‘farfalle’ e di ‘inafferrabile’. Dante Arfelli ha una sua nota su Wikipedia, ma non l’ha nel portale digitale della Treccani. Eppure. Non si parla di un autore ‘di nicchia’, come Davide Brullo: Dante Arfelli, nel 1949, quasi settant’anni fa, pubblica per Rizzoli un libro, per così dire, ‘generazionale’, dal titolo bellissimo, I superflui. Il libro nasce già nell’onda della leggenda: l’autore, piuttosto giovane – ha 28 anni – “aria di un uomo fatto; bell’aspetto, spalle larghe, buona statura, oltre i settanta chili; camminata lenta, propria di chi mette giù i piedi con avvertenza” (Enea Casagrande), dice di averlo scritto in una settimana e mezza. Il libro diventa la testimonianza di un’epoca. Che è. Drammaticamente. Questa. In modo sintetico, con una lingua non conciliante, Arfelli racconta il delirio – economico, esistenziale – dei giovani riemersi dalla guerra. La crudezza è fascinosa. Il libro, soprattutto, si fa leggenda. Grosse vendite in Italia – nel 1954 esce una ristampa per Vallecchi – e soprattutto all’estero. “Ho avuto l’edizione americana dei Superflui. Ne sono contento… l’editore Scribner di New York è buono: lo stesso di Hemingway”, scrive Arfelli. Siamo nel 1951. L’italiano che pubblica con l’editore di Hemingway negli Usa fa il botto. Quasi un milione di copie vendute. “Arfelli si è dimostrato abilissimo impegnandosi a fondo in una storia di gente sconfitta in partenza… ciò che avvince il lettore e rende tollerabile la tristezza del libro è la virilità del lamento”, scrive, sul New Yorker, Anthony West, che non è proprio un nome qualunque: figlio di Rebecca West e di H. G. Wells, è stato tra i critici letterari più autorevoli del tempo. In quello stesso 1951, Arfelli, autore ‘di fama mondiale’, pubblica, ancora con Rizzoli, La quinta generazione. Arfelli continua a esplorare i temi di una stirpe minata dal dolore, sopraffatta dall’inedia – così Aldo Capasso nella riedizione Marsilio del 1995: “Nel romanzo il titolo deriva da Esiodo: ‘la quinta generazione’ è quell’età del ferro in cui ‘gli uomini non avranno tregua dalle fatiche e dal dolore…’”. Insomma: Dante Arfelli avrebbe potuto essere l’Albert Camus italiano. Solo che. Ora non lo trovi in libreria – le riedizioni dei due libri ‘epocali’ fatta da Marsilio risale a quasi 25 anni fa – e fai fatica a trovarlo in biblioteca. La leggenda dice altro. Dante Arfelli è di Cesenatico, è stato amico di Marino Moretti, ha optato per il silenzio. Lo scrittore è sempre così: il narcisismo si combina con l’eremitaggio. L’ambizione di essere riconosciuto da tutti si scontra con un certo timore verso il ‘pubblico’. Lo scrittore, insomma, fugge l’umanità, per dire l’uomo scappa dalla folla, ha un rapporto ambiguo con la sua arte perché le parole creano e uccidono, dicono la verità e partoriscono menzogne. Si può dire, addirittura, che se uno scrittore non è naturalmente schivo, se non schiva il palco, il pulpito, la via più facile, non è autentico scrittore. Lo scrittore è autenticato dalle sue rinunce. In questo – nell’arte della rinuncia – Arfelli è stato geniale. Ha preferito sottrarsi da tutti, subito. “La vita letteraria mi ha molto scoraggiato. Io mi sento tagliato fuori, forse perché sto in un paese e cerco di seccare gli altri il meno che posso? O sono antipatico, o do fastidio, non capisco… il pubblico non ha più voglia di leggere, la vita moderna distrae in tanti modi che la lettura è l’ultimo e il più faticoso… Scrivere è quasi una impresa disperata… io ne sono sfiduciato. A volte penso che se avessi dei soldi me ne infischierei della letteratura. E di tutte le beghe e le noie di tanta gente sciocca che ci vive e comanda”. Questo Arfelli lo scrive nel 1952, al culmine della sua personale gloria. Forse, vien da dire, scavando nella leggenda, c’è un atteggiamento genetico e geografico. Cesenatico è il porto canale di Leonardo che, letteralmente, porta il mare in mezzo al paese, sotto le case, questo mare che pare una piastra di metallo, che induce a una specie di sconfinata rassegnazione, che il sole, d’inverno, devi disseppellirlo sotto strati di nebbia e di umidità. C’è, forse, insediata in questo paese romagnolo, una rustica nostalgia, una plumbea meraviglia, del tipo che sta nel cuore dei portoghesi. Tornando ai reali. Arfelli si chiude in un esausto silenzio. Rotto, nel 1975, da una raccolta di racconti, Quando c’era la pineta, per le piccole, auree edizioni del Girasole. “Questa raccolta di 26 stupendi racconti”, ricorda Walter Della Monica, approdò “nella ristrettissima rosa dei finalisti del Premio Campiello 1976”. Ovviamente, quell’edizione andò ad altri, meno bravi ma più titolati (vinse, per la cronaca, Il busto di gesso di Gaetano Tumiati). Rientrato nel silenzio, spaccato dal Parkinson, Arfelli ha le forze di scrivere Ahimè, povero me, un diario dal male, dall’afrore del dolore, che Marsilio pubblica nel 1993. L’autore morirà due anni dopo. Esattamente trent’anni fa, nel maggio del 1988, a Cesenatico, un gruppo di studiosi e di amici realizza le “giornate di studio” Per Dante Arfelli. Il libro, giuntomi attraverso una miracolosa studentessa, è utile a sfatare la leggenda – che s’innalza quando si tratta di lavarsene le mani. L’amico di Arfelli, Enea Casagrande, è di austera limpidezza. “Arfelli è stato conseguente fino in fondo, senza dirlo, senza parlarne, senza innalzare le brune bandiere della rinuncia. Si è messo semplicemente di lato, evitando spesso perfino di guardare quel fiume di umanità che scorre rumorosamente sulle strade della vita, ma senza rinunciare alla investitura che aveva ricevuto chissà quando e perché, e che ne aveva fatto un cavaliere destinato ad andare per sempre tra i monti e i piani della poesia”. Negli atti del convegno – stampati dalle Edizioni del Girasole nel 1990 – Ferruccio Benzoni, tra i grandi poeti di quel lato di mondo, spiega, ricalcando “una lettera aperta” ad Arfelli pubblicata nella rivista Sul Porto, la necessità intrinseca, a-storica de I superflui. “Quella défaillance che lei acutizzò problematicamente in un’esplorazione di anime… trova di questi tempi, il suo epilogo atroce… una sordida sistemazione provvisoria; la ricerca frustrante del posto di lavoro; la sessualità decrepita e infantile; l’alienazione dei corpi; l’amore come inattuabile evasione; il dissidio e la repulsione a un’idea di maternità, paiono il viatico delle coppie di una contemporaneità sempre più struggente”. Sottolineate le frasi qui sopra e giurate: non è la descrizione della nostra era, quella? Al di là delle flebili battute – tra tanti scrittori che dovrebbero star zitti, ad ammutolirsi sono sempre i più bravi – è inutile sbandierare Dante Arfelli come una leggenda. Arfelli va letto. E se gli uomini sono smemorati, gli editori sono becchini che seppelliscono i grandi di ieri sotto pale di cemento armato. Ristampiamo Arfelli. Chi dice la verità una volta, con allucinata nitidezza, poi tace per sempre, la lingua mutata in nodo, le labbra in tana di istrici. (d.b.)