19 Agosto 2023

Hiroshige, l’artista di nebbia, neve e pioggia: un saggio di Mary McNeil Fenollosa, la mecenate di Pound

La ‘regista’ di una delle più clamorose esperienze estetiche del Novecento fu una donna. Riassunto rapido dei fatti. Lettore affascinato di Dante e di Cavalcanti, lirico carismatico, Ezra Pound, l’americano in Europa, era a caccia di una lingua ‘nuova’. Il confronto con la cultura giapponese e con quella cinese, come si sa, è la chiave di volta per scardinare – nei ranghi di una ‘tradizione’ – l’inglese vittoriano, imbolsito, il linguaggio sconfitto – così pareva – dall’abuso retorico. Il primo approccio con l’Oriente accade per Pound al British Museum, nel 1909, tramite Laurence Binyon, poeta in divenire, responsabile, nell’istituzione museale inglese, del reparto disegni & stampe di arte asiatica; studioso di William Blake, proprio nel 1909 aveva pubblicato uno studio sulla Japanese Art. L’approccio, condiviso con William B. Yeats, è ancora, tuttavia, superficiale. La vera rivoluzione – linguisticamente copernicana – accade nel 1913, quando Pound entra in possesso delle carte di Ernest Fenollosa, insigne orientalista di origine spagnola – il padre era un pianista di Malaga, la madre proveniva da una famiglia di Boston di alto lignaggio e con cospicua ricchezza –, uno dei padri degli studi nipponici ‘da Occidente’. Versato nei misteri della pittura giapponese, collezionista – aveva organizzato a Boston, nel 1894, la prima, grande esibizione di stampe antiche dalla Cina e dal Giappone –, Fenollosa era stato professore di inglese a Tokyo, amico di Lafcadio Hearn, l’affascinante scrittore di ‘giapponeserie’, si era fatto buddista, aveva diffuso il culto di Hokusai, “il Dickens del Giappone”, lo chiamava.

Lo studio e la traduzione dei documenti di Fenollosa permettono a Pound una ‘svolta’ estetica. Questa svolta si incarna in una serie di creative versioni dai classici cinesi e giapponesi: Cathay (1915), Certain Noble Plays of Japan (1916), Instigations: Together with an Essay on the Chinese Written Character (1920); e poi, il rapporto ideale, politico, poetico con Confucio di cui ‘Ez’ traduce Analects (1951) e The Classic Anthology (1954), ad esempio. Più che altro, l’indagine dell’ideogramma permette a Pound di precisare il proprio linguaggio lirico: verbi come pennellate, parole-cose, suprema sintesi, concretezza & astratto, associazioni rapidissime, in picchiata, immagini icastiche, costituiscono il nerbo delle avanguardie ideate da ‘Ez’ (imagismo; vorticismo), e l’asse solare della sua ricerca. Che i primi “Cantos” escano nel 1917 – su “Poetry”, benché poi riscritti – mentre Pound sta ‘digerendo’ i documenti di Fenollosa non è un caso: la prima collezione dell’opera-summa, A Draft of XVI Cantos è edita a Parigi, nel 1925, in edizione di pregio, per Three Mountains Press. Insomma: i “Cantos” nascono anche su ispirazione della lettura di Fenollosa. D’altronde, tutti i maestri occidentali cercavano altro per uscire dalla palude del Novecento. James Joyce si volge a Vico e a Laurence Sterne, Faulkner volteggia tra Melville e la King James Bible, Beckett trova una lingua mescendo Dante e Pascal, Thomas S. Eliot trova una sintesi tra Siddharta e Giovanni della Croce: Pound vaga verso l’estremo Oriente. Il testo capitale per capire questa filiazione è L’ideogramma cinese come mezzo di poesia. Una ars poetica, testo di Fenollosa curato da Pound nel 1936. Laconica la chiosa finale, del tutto poundiana:

“Per quanto alcuni di noi abbiano potuto imparare qualcosa dal Fenollosa vent’anni fa, l’intero Occidente versa ancora nella più crassa ignoranza della sonorità verbale che è nell’arte cinese. Dubito sia stata inferiore a quella greca. I nostri poeti sono sciatti, ignoranti di musica e senza orecchio, inutile perciò incolpare di squallore i professori”.

Tuttavia, Pound non riuscì a conoscere Ernest Fenollosa: il grande studioso muore nel 1908, lasciando diversi scritti inediti o incompiuti. Pound ne diventa, di fatto, l’erede culturale e ‘morale’ grazie alla vedova, Mary McNeil Fenollosa, che sceglie di consegnare i testi del marito a quell’ardimentoso poeta americano. Proprio la figura di Mary, tutt’altro che una vedova passiva, merita di essere ricomposta. Nata a Wilcox County, Alabama, nel 1865, figlia di un alto ufficiale confederato, Mary va in sposa, diciottenne – per sanare una instabile situazione economica –, a un uomo, Ludolph Chester, che muore dopo due anni di matrimonio lasciandola con un figlio, Allen. Pare fosse donna ferrea, vivace, virile, di evidente bellezza, Mary. La giovane vedova è circondata da corteggiatori: tra tutti, preferisce un vecchio amico, Ledyard Scott, che le scrive da Tokyo. Lei ci pensa poco e con il figlio neonato salpa per il Giappone, dove sposa, quasi subito Ledyard. Anche questa unione, tuttavia, ha lo stigma di una stella nera, senza spiragli: dopo due anni di matrimonio e una figlia, Erwin, Mary divorzia dal damerino, ripiglia la nave, torna in Alabama. Il Giappone, però, comincia a roderla: ne studia i cardini culturali e la lingua; si sente l’esatta figlia del ‘mondo fluttuante’, una Madama Butterfly con gli artigli, dall’apertura alare da condor. Nelle sue poesie – scritte sull’onda di occasioni effimere, evanescenti, raccolte nel 1899 come Out of the Nest – il genio giapponese è ovunque, come in questa Fantasia al mattino:

“Lasciami morire mentre canto
Lasciami sprofondare nella luce.
Un altro giorno spicca il volo
Dai nidi della notte.

L’occhio puro della gloria mattutina
Perfetto come un gioiello:
La mia anima è una libellula
Il mondo un canneto che ondeggia”.

Nel 1895, trentenne, tersa intelligenza, una folgore, Mary fa domanda per essere assunta nella sezione orientale del Boston Museum of Fine Arts. È lì che conosce Ernest Fenollosa, di cui diventa discepola. Di dieci anni più grande di lei, sposato, l’orientalista perde la testa per lei. La coppia fa di Boston un’alcova di scandali: Fenollosa divorzia, si sposa con Mary, ma deve lasciare l’incarico al museo e la città. I due si trasferiscono a New York, poi in Giappone.

Il terzo matrimonio, per Mary, è quello fatale, fondamentale, fecondo. Con lo pseudonimo di Sidney McCall, Mary scrive una serie di romanzi ‘giapponesi’ che all’epoca ebbero grande successo, come The Breath of the Gods (1905) e The Dragon Painter (1906). Da quest’ultimo – la storia di un anziano pittore giapponese che teme l’ingresso della civiltà occidentale, a ledere le antiche tradizioni – è tratto un film, nel 1919, con Sessue Hayakawa, icona del cinema muto. La raccolta di poesie per bambini, Blossoms from a Japanese Garden (1913), fu molto apprezzata; quell’anno, alla porta di Mary si presentò Ezra Pound.

Più che altro, Mary aiutò il marito nei suoi studi: dopo la sua morte, completò l’opera a cui avevano lavorato per anni, Epochs of Chinese and Japanese Art: An Outline History of East Asiatic Design (1912). Nel 1901, Mary McNel Fenollosa aveva compiuto il primo studio negli Stati Uniti sull’opera di Hiroshige, che insieme a Hokusai rappresenta, in Occidente, il cuore dell’immaginario nipponico. Lo studio, più che altro un’arguta suggestione – inedito in Italia, è tradotto in calce all’articolo – fu pubblicato da una editrice di San Francisco, Vickery, Atkins & Torrey. Secondo Mary, Hiroshige eccelle nel rappresentare l’irrappresentabile: la nebbia, la neve, la pioggia. Ciò che si scioglie, il segno destinato a spegnersi, che raffigura il mondo morituro, l’icona delle cose fuggevoli. Tutto sfugge e muta forma: la nebbia che rendeva spettri gli alberi ora è piantumata di luce; la neve ha conquistato una dolcezza inquieta, di chi traccia ideogrammi sull’effimero; la pioggia è una scrittura simpatica, appena la interpreti si dissecca. Così, forse, era stata la sua vita: tesa ad afferrare il miraggio, il riflesso, l’ambra d’ombra.

Morì vecchia, Mary, nel 1954, a Montrose, Alabama, nella casa dei parenti della madre. Si era ritirata dalla mondanità culturale molti decenni prima: preferiva le libellule e i piccoli insetti d’acqua ai premi in memoria; la futile ninfea all’incarico dal prestigio improprio. Fluttuava.

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Hiroshige, l’artista della nebbia, della neve e della pioggia. Un saggio

L’arte giapponese degli ultimi secoli è nettamente divisa in due parti. La prima, dalla formula aristocratica, è un’arte basata sulla tradizione classica cinese e praticata dagli artisti Kano della Corte degli Shogun Tokugawa. Vi si trovavano ancora poeti, artisti, imperatori e famosi dipinti paesaggistici cinesi. Ben poche sono le rappresentazioni puramente giapponesi. La seconda è il risultato naturale di un popolo intriso di gioia, tagliato fuori per casta e professione dalla nobiltà che lo proteggeva e opprimeva al tempo stesso. Il nostro saggio si occuperà di quest’ultima forma d’arte.

Nelle fasi iniziali di tale corrente artistica, i soggetti preferiti sono individui e gruppi di persone. Qui, per la prima volta, vengono raffigurati momenti di vita contemporanea, ritratti di bellissime donne, vicende domestiche, riti religiosi, picnic e feste in barca, bevute e cerimonie del tè. Nello stesso periodo, vengono fondati i teatri Yedo, con rappresentazioni scritte da e per il popolo e con locandine pubblicate dagli artisti emergenti di stampa a blocchi. Ritrarre gli attori più amati nei diversi ruoli divenne una tendenza. A quei tempi non esistevano telecamere. La vita quotidiana si rifletteva in mille stampe e libri illustrati simili ai nostri periodici e supplementi colorati; a questo movimento, a questa nuova e prolifica scuola, un qualche Thackeray giapponese diede il nome di Ukiyo-e – il mondo fluttuante o alla deriva.

I paesaggi, fino a quel momento, figuravano sullo sfondo e non erano mai stati trattati come soggetti indipendenti. Erano abbozzati, scarni e inadeguati, ma con qualcosa nelle loro linee eleganti e nell’armonia con gli oggetti in primo piano che richiama gli sfondi dei primi pittori italiani, in particolare Giotto e il Beato Angelico.

Il primo artista Ukiyo-e che cercò di trasformare la pittura paesaggistica in una branca indipendente dell’arte fu Utagawa Toyoharu che, intorno al 1770, dopo aver visto e studiato alcune vecchie xilografie olandesi entrate nell’Impero grazie alla piccola colonia olandese a Nagasaki, pensò di rappresentare con forme simili il paesaggio della propria nazione. È interessante osservare i suoi primi tentativi di realismo e prospettiva stranieri. La chioma degli alberi è disegnata con faticosa minuzia tanto da perdere qualsiasi somiglianza con la vegetazione giapponese; le nuvole bianche, tonde e attentamente modellate sembrano essere sorrette da fili invisibili, mentre, in alcuni dei suoi conflitti con la prospettiva, il giardino di una casa da tè è posizionato lontanissimo dall’edificio a cui appartiene e gli scorci della strada si tuffano a capofitto sotto l’orizzonte stupito. L’allievo più famoso di Toyoharu, Toyohiro, continuò questi esperimenti ottenendo risultati sempre più soddisfacenti per sé e per i suoi ammiratori.

Verso la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX, il popolo giapponese, in gran parte privo di istruzione e preso da divertimenti, liti e dissolutezze, iniziò lentamente a spostare l’attenzione verso l’esterno, al mondo naturale. Uccelli, fiori, animali e alberi vennero studiati e inseriti nei dettagli del paesaggio. Questa propensione alla raccolta di dati scientifici era dovuta soprattutto all’influenza degli olandesi, che continuavano a disseminare in tutto il Giappone un tenue bagliore del sapere storico e scientifico, proprio dei Paesi occidentali.

Nel corso di tale risveglio non sorprende che il Giappone abbia cercato una consapevolezza di sé in quanto nazione. Gli aristocratici dello Yedo disprezzavano e temevano le influenze esterne. Il Mikado, nel suo grande palazzo a Kyoto, omaggiava i suoi antenati senza curarsi di quelli stranieri; ma il popolo iniziò a chiedersi “Cos’è che ci rende una nazione? Qual è il nostro posto nel mondo?”. Artisti e scrittori si affrettarono a dare la loro interpretazione. Comparvero grandi romanzi storici illustrati da nientemeno che il genio di Hokusai, così come enormi collezioni enciclopediche di disegni che delineavano ogni aspetto e oggetto del mondo conosciuto e sconosciuto.

Sempre nello stesso periodo, la ben nota passione dei giapponesi per il viaggio ricevette nuovi stimoli. Ci fu un’invasione di fedeli, che visitarono templi e panorami famosi, percorsero strade tra le fitte foreste sui pendii del Fuji-San e sentieri su per le distese innevate della vetta. Intere famiglie ben equipaggiate di vestiario, utensili da cucina e neonati in ceste da picnic, passavano i mesi estivi a vagabondare piacevolmente lungo spiagge e laghi, o sulle montagne. Le guide turistiche erano in competizione per l’accuratezza delle informazioni topografiche e per la bellezza dei disegni a corredo. I preziosi paesaggi di questi libri sono spesso opere d’arte di linea e massa eppure, quando furono creati, costituivano le illustrazioni più economiche per le guide.

Tra gli allievi di Toyohiro c’era Hiroshige. Questo giovane artista fu abbastanza acuto da cogliere la magnifica opportunità offerta dall’interesse del popolo per la paesaggistica e svilupparne un’arte del tutto indipendente. Come primo esperimento stampò i suoi disegni su fogli singoli senza rilegarli in pesanti libri. Poi, non soddisfatto di lasciarli in bianco e nero, iniziò a utilizzare quei colori a noi familiari dei bellissimi dipinti di gruppo di Harunobu, Kiyonaga e altri. Alla fine dichiarò l’ambizione di rendere al Giappone la sua ricchezza scenica a colori come nessun artista prima di lui aveva mai pensato di fare. 

Fino a quel momento non esisteva una scuola di paesaggistica in cui il colore degli oggetti naturali costituiva la chiave dell’intera composizione. Sia a Kano che nella scuola di uccelli, fiori e paesaggi di Shijo, la composizione si basava su linea e massa, mentre i colori non erano che una lieve sfumatura per variare dalla monotonia dei grigi. Invece, negli antichi paesaggi Tosa si utilizzavano colori vivaci, ma anche in questo caso si trattava di poco più che uno sfondo illuminato per mettere in risalto gruppi di persone tutte agghindate. Col nuovo metodo di Hiroshige i giapponesi videro per la prima volta l’arte paesaggistica come un mosaico dei caratteristici colori locali. I cieli erano a tinta unita, blu, rosa, viola o piombo, con nuvole o tramonti in sfumature realistiche; le chiome degli alberi di verdi monocromi e complementari. Il rosso dei templi, il marrone e i grigi e gli azzurri dei ponti e delle costruzioni in legno, persino i vestiti dei contadini appartenevano alla stessa scala di colori di cielo e terra, diversificandoli anziché dominarli.

Un’altra peculiarità del metodo di Hiroshige era la piattezza dei toni e l’incredibilmente rara quantità di colori richiesti per un effetto pittorico completo, tecnica resa possibile, se non necessaria, dall’economicità della stampa a blocchi. Così, tutta la ricchezza dei colori atmosferici che gli artisti occidentali modulano a fatica con infinite pennellate, veniva spesso ottenuta con quattro o cinque calchi istantanei da altrettanti blocchi tagliati grossolanamente. Ovviamente, per ottenere tali effetti, le relative tinte e luminosità dei pochi colori usati dovevano essere selezionate in modo squisitamente equilibrato. Fu così che i principi della “grammatica” del paesaggio, per così dire, furono scoperti in Giappone prima di essere sviluppati in Occidente dalle moderne scuole francesi.

Con questa tecnica Hiroshige dipinse, piuttosto rapidamente, quegli aspetti ordinari della vita e della natura che la stampa su blocchi di legno sembrava suggerire. Concatenò le audaci e scintillanti distese di schiuma sulla spiaggia curva di Kamakura; impresse le rocce nere fuori da Enoshima in silhouette irregolari o, lasciando intatto l’immacolato candore del foglio, il cuneo tagliente dell’Impareggiabile Fuji-San. Quanto ai ritratti, a volte raffiguravano un gruppo di lavoratori stanchi su una strada solitaria diretti verso casa, o ancora le pagliacciate di una comitiva a un picnic, per cui i piaceri del fustino di sakè si erano rivelati più inebrianti della bellezza dei ciliegi in fiore sopra di loro. Non ci furono artisti di questo o di qualsiasi altro periodo che conoscevano e adoravano lo Yedo come Hiroshige. Le innumerevoli e straordinarie viste della grande città e della sua vita iridescente hanno fatto sì che il suo nome fosse amato e onorato in Giappone persino dagli aristocratici, che tuttavia disprezzavano la scuola in quanto volgare e rifiutavano di definire arte i suoi capolavori.

Ma non fu solo questo a rendere Hiroshige ciò che è diventato per gli artisti in Occidente. Un maestro, per essere ricordato, non deve solo inventare nuove tecniche, ma con esse offrire al mondo qualcosa di indimenticabile, di inimitabile, ed è proprio quello che fece Hiroshige nella magnifica resa del vago, dell’elusivo e dell’occasionale nei fenomeni atmosferici. Respirare nelle tonalità graduate di inchiostro la consistenza impalpabile del vento e del vapore, l’umidità appiccicosa della neve, l’essenza, la personalità, l’odore della pioggia, si direbbe, era il suo punto di forza. Il suo spirito sembrava parte di queste cose. Non fu soltanto la tecnica a suggerirgli come sfumare i contorni di un comune oggetto rendendoli splendidamente impalpabili, o come coprire i tetti delle case con vuoti ammassi bianchi di neve.

A un primo impatto, i suoi metodi sembrano inspiegabili, ma una volta conosciuti sono così semplici da risultare banali. Chiediamo: «Come può quest’uomo con i suoi rudimentali strumenti a mano e con mezza dozzina di blocchi di legno ottenere effetti per cui Corot avrebbe impiegato mesi invano?». «Inchiostro diluito» ci risponde lo stampatore moderno. «Un’abile sfumatura col dito sul blocco bagnato appena prima di applicarlo alla carta assorbente; una gradazione intenzionale e insieme nervosa della forza di pressione del blocco». Queste istruzioni, tuttavia, ci danno solo un’idea dell’abilità e del genio necessari per applicarle. Dopotutto, solo Hiroshige è capace di attirare all’interno di un piccolo rettangolo d’inchiostro l’impressione immutabile di un momento di bellezza passeggera, diffondere la nebbia in posti ventilati dove non vi è nessun vento a spostarla, far sciogliere la neve sotto il sole invernale, far cadere una pioggia incessante e senza fine.

In nessun altro Paese del mondo ho mai visto una nebbia come quella in Giappone. Riempie l’universo di compatte particelle azzurre o, mista al fumo di sigaretta, sprofonda in strati spettrali sopra un piatto deserto di tetti blu. Trasforma allo stesso modo città e sobborgo; le risaie brillano attraverso la nebbia come grezzi smeraldi in nuvole di quarzo e gli alberi assumono forme nuove e misteriose. A Tokyo vale la pena alzarsi prima del sole, anche solo per una passeggiata lungo il canale interno. I vecchi pini cinesi si contorcono in enormi evanescenze sopra le mura del fossato che sembrano scavate da spessi cubi grigi di nebbia; un corvo di passaggio è un’ombra ambigua, l’entrata appuntita del castello nuota distaccata in uno strato superiore di ametista in polvere. Al di là delle alte mura del fossato e parecchi metri sotto, si trovano le strade pedonali della città. Sui bordi del canale sono piantati salici a intervalli regolari. Nella nebbia mattutina sembrano grandi spugne che traspirano umidità.

L’immagine di seguito raffigura il sobborgo di un villaggio sulla Nakasendo, una delle famose strade di montagna giapponesi. Rappresenta lo scorcio di un laghetto o di un ruscello, i salici che crescono sulle sue rive, un gruppo di contadini che attraversa un ponte, un vecchio agricoltore sullo sfondo vicino a un tetto di paglia seminascosto dietro la riva in lontananza, e un sole bianco e piatto – o una luna – appena sopra l’orizzonte. Si potrebbe contestare che i salici in primo piano presenterebbero più dettagli in natura. Questa critica potrebbe essere valida altrove, ma non in Giappone. Più e più volte nelle mattine estive, i salici del fossato davanti casa nostra assumono forme uguali a queste nel dipinto, conservando la loro unica e piatta tonalità anche a una distanza di pochi metri; mentre di fronte, sopra i vecchi pini del castello, il sole confuso pende spento e opaco come un vassoio di peltro.

Ancor più che dalla nebbia, il successo di Hiroshige derivava dalle caratteristiche naturali della neve, che aveva studiato e dalle quali traeva ispirazione. Per il poeta e per l’amante della natura giapponesi la neve non era qualcosa da dipingere, quanto il vento o la luce del sole. Lui invece la adorava, ne studiava gli effetti e poi cercava di fissarne l’impressione. Stenderla come se fosse calce o glassa non era un metodo adeguato. La percepiva come una pausa, un silenzio – il nome di una divinità. Quindi disegnò, con estrema delicatezza, il contorno di un albero mutato sotto il suo fardello bianco, dipinse la rotonda fioritura-fantasma di un bosco di ciliegi spogli, diffuse la luce candida attraverso lo spazio grafico ricoprendo i ramoscelli di un susino – e questo per lui rappresentava il bagliore roseo di un fiore di susino nella neve. I nostri artisti occidentali sono approssimativi e comunque molto indietro rispetto ai giapponesi, perlomeno in questa branca artistica. Il segreto è che la neve non va mai applicata né toccata: deve restare una suggestione, un’irrealtà – non un semplice elemento grossolano.

Negli studi sulla pioggia Hiroshige univa i metodi utilizzati nella resa di nebbia e neve, la sfumatura di una, l’alterazione dei contorni pieni dell’altra; a questi aggiungeva un terzo effetto, quello della pioggia, indicata da nette linee grigie o nere che dominavano il primo piano dell’immagine. In questo modo, la varietà di impressioni fornita è pressocché senza fine. In una delle sue viste più famose della Tokaido, le linee della pioggia sono dei fasci sfumati e obliqui. I bambù fradici si tuffano tutti nella stessa direzione; i tetti delle case sembrano rintanarsi dietro la strada di montagna; due contadini in primo piano tengono un ombrello di carta semiaperto contro il temporale; i portatori di kago sono nudi e indifferenti; l’immagine sembra frusciare e sgocciolare nella tempesta improvvisa. In un altro scorcio nel cuore della grande città, la pioggia non è che uno spruzzo, un’oziosa civetteria delle nuvole estive. Niente è vago. In lontananza si vedono le tegole blu del castello e il Fuji-San non ha neanche l’ombra di una nuvola. Si percepisce il sole ai piedi della montagna, ma Yedo sarà fresca e gradevole dopo che la pretenziosa doccetta se ne sarà andata ridendo. A volte un’intera immagine è di una tonalità plumbea uniforme. Un velo d’acqua cade inerme dall’estremità superiore a quella inferiore. Alberi e case sono neri, cupi, intrisi di pioggia fino al midollo. Si percepisce istintivamente l’essenza di una piovosa giornata di giugno. I guanti rischiano di ammuffire se lasciati in un cassetto con questa immagine.

Nebbia, Neve e Pioggia! Nomi importanti per chi conosce e ama il Giappone. Riteniamo che nessun sole potrebbe essere così bello; nessun cielo terso e azzurro così dolce. Lasciamo partire verso altre terre chi ama soltanto il bel tempo; per quanto mi riguarda, possa il fertile, generoso anno portare ancora lunghe schiere di salici, nelle loro silhouette a ridosso delle mura grige del fossato, quel miracolo invernale, i vuoti ammassi bianchi di neve e l’odore della pioggia portata dal vento, che si inchina alle scure punte di un fitto bosco di bambù!

Mary McNeil Fenollosa

*Traduzione di Federica Gattafoni

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