Mai dolce fu tanto amaro. Qui l’elemento macchiettistico, nella cruda raffigurazione di contesti di sbando etico e di perdita di senso dell’esistenza, sfocia nel De Profundis di vite mortifere e consegnate ad un edonismo senza capo né coda. Un film che potremmo definire episodico, che non ha una trama evenemenziale e in cui il solo vero accadimento è la protratta deriva e l’assottigliarsi del senso di esistenze condannate all’insignificanza e al ripetersi informe dell’uguale entro una ritualità vacua, aspra e crudele.
Se i paparazzi di Fellini rappresentano una stampa scandalistica frivola e sciacallesca, lo stile di vita che costoro iconizzano in maniera grossolanamente pacchiana è esso stesso in disfacimento e l’ipertrofia di foto e rotocalchi volti a parassitarlo sono tutt’uno con la sua metastasi e ingombrante inconsistenza. Ciò che è fatuo diviene legge e ciò che è documentabile è documentato da una parte romanzando un niente punteggiato di verità solo qua e là e come per eterogenesi (paparazzi) e dall’altra con raggelante immediatezza e veridico distacco intervallati da una carica vitale cui mette la sordina solo una sconsolata malinconia (Fellini).
Quello del regista è anche uno spietato ritratto di una società classista, che si esprime mirabilmente nell’episodio in cui la stanca, assuefatta e capricciosa aristocratica amica di Marcello, e in sua compagnia, recluta una prostituta – una delle poche figure proletarie presenti nel film – come se fosse un suo giocattolo, finendo col suggellare la sua ospitalità in casa propria con l’atto (ossimorico e perverso) di fare sesso con il protagonista nel letto popolano di lei, nascosto solo da esigue tendine: ambiente tale da alimentare le fregole della donna altolocata (interpretata da una sfuggente Anouk Aimée).
Il film si apre con un feticcio religioso trasportato in elicottero: da subito sacro e profano si contaminano senza soluzione di continuità. E se la statua del Cristo sembra abbracciare pietosamente l’intero panorama di Roma, mai abbraccio è stato così figlio della distanza (o la vicinanza è solo un’illusione prospettica?). Perché in questo film anche la Fede è merce e spettacolo da consumare. Come accade per l’apocrifa apparizione della Madonna ai due bimbi che divengono star da luci e lustrini: il fatto religioso si fa isteria collettiva ed è drammatico e assieme grottesco vedere il luogo dell’apparizione trasformarsi in un gigantesco teatro di posa e la folla acefala seguire a singhiozzi i ghiribizzi puerili dei due miracolati, con tanto di malati e sofferenti accampati in cerca di una grazia. Uno di essi morirà con le prime luci del mattino, in un luogo gerbido e polveroso ma ormai sgombro di tutti gli attrezzi da scena, nel silenzio generale che sembra un rimedio medicamentoso di ritorno alla realtà, dopo il chiasso dell’evento nazionalpopolare e malsanamente religioso.
Il discorso di Fellini abbraccia una quantità così ampia di simboli, rimandi e relazioni che pare di assistere a un caleidoscopio di esistenze in dialogo tra loro, ma nel segno manifesto, questo non episodico, di una incomunicabilità terribile.
Il rapporto della fidanzata (Ivonne Furneaux la interpreta in modo intenso) con Marcello (un Mastroianni mai così malinconico e ricco di sfumature, dal sorriso triste e sfuggente), invece, oscilla tra una purezza incontaminata e realmente oblativa, e l’ossessione più delirante, divenendo per il protagonista un amore morbosamente materno, vischioso, egoistico e asfissiante. La scena in cui Emma lo imbocca è un simbolo di nutricazione materna che vorrebbe forse stabilire un rapporto da fase orale e di regressione infantile dell’amato. Egli non ricambia e ella ama Marcello certamente più di quanto egli ami se stesso, ma tradisce in questo gesto un egoismo solipsistico. Anche Marcello è figlio, come la gran parte dell’interminabile carrellata di tipi umani presenti nella pellicola, di un disarmo valoriale e dell’eccesso, di un edonismo spinto che si fonde a un’angoscia dell’esistere insopprimibile; dice di voler cambiare vita più volte e appare sincero seppure svuotato e destinato all’immobilismo. Questo ripetuto congegno azionale si rompe nella famosa scena della fontana di Trevi dove la diva Sylvia (Anita Ekberg) fa il bagno e lui la segue in un raro momento di ispirazione e senso di libertà. Ella rappresenta forse una incontaminata forma di energia vitalistica ingenua e di grande carica erotica. Marcello arriva a definirla: madre, amante, sorella e infine “casa”. Senza dubbio in lei il protagonista vede un possibile approdo, un porto di innocenza e splendore che rimarrà insulare in tutto il film se non ritornando come un’epifania sacra nel finale. Ma nell’ambito del flirt, non consumato, con Sylvia (v’è un momento paradigmatico in cui le mani di Marcello sembrano carezzare il viso di lei ma senza lambirlo, quasi fosse un’icona sacra oggetto di venerazione pura), esattamente come si perde la comunicazione nel fragore delle onde a fine film, così va perduto ciò che egli pronunzia in presenza della statuaria bellezza di lei: egli dice cose sincere e ispirate a una donna che non parla la sua lingua, e seppure tanto vicini da sentire l’uno l’alito dell’altra, quello di Marcello resta un monologo, un profluvio di parole che devono sembrarle una cantilena dolce ma incomprensibile.
Il vuoto etico e esistenziale si palesa anche nella figura di Steiner (“barbaro e alto come una guglia gotica”, irrimediabilmente distante, nelle parole pronunciate dalla poetessa in presenza di Marcello stesso, ma in realtà “piccolo” come una misura esigua indicata tra pollice e indice, nella risposta di Steiner stesso), figura incarnante una vita sobria e quasi ascetica, tra famiglia, vocazione religiosa, libri e ospiti scelti, ma in definitiva prigioniera di un mondo perfetto almeno quanto soffocante, tale anch’esso da essere vissuto come un obbligo e non un dono. L’accoglienza di Steiner (interpretato sottilmente da Alain Cuny) verso Marcello si fa teatro di un contrasto tra una realtà anomica e dissipata e una nomica e sobriamente morale. Una morale che, però, scivolerà nella pazzia di un gesto estremo di negazione della vita di sé e dei suoi piccoli figli. Steiner è prigioniero della propria stessa sensibilità e di un ordine morale fatto di riti esangui di vita familiare in cui ogni ombra la si tiene dentro e non si può far manifesta se non in sporadiche frasi oscure almeno quanto emblematiche, come quelle che scambia con Marcello a casa propria. Ma agli occhi del protagonista, la vita e la famiglia di Steiner rappresentano un’isola di incontaminata, temperata gioia e tenera familiarità con un lato dell’esistenza che egli agogna almeno quanto rifugge. La stabilità, la cellula-famiglia, la religione come vertigine del sacro ma anche rito usato, le raffinate letture, attraggono Marcello e sono per lui un paradigma di sicurezze a lui non concesse. Tutto ciò crollerà ai suoi occhi dopo il gesto estremo di Steiner stesso, infelice anche lui, anche lui smarrito in una vita che seppure così diversa, finisce per somigliare come uno stesso semantema a quella dell’amico.
Tutto sembra finire a strapiombo nell’abisso dell’immagine a ogni costo, della persona come maschera e della spettacolarizzazione di eventi futili e salottieri o nazionalpopolari nel senso più deteriore: si ricordi l’arrivo di Sylvia in aeroporto e le parole del cronista che saluta il suo arrivo con enfasi di oleografiche parole (genuinità, colore e gusto, questa la sua sintesi dell’italianità) che si reificano repentinamente e in modo grossolano nell’enorme pizza offerta alla diva appena scesa dalla scaletta dell’aereo.
Alienazione e angoscia sono il tragico rovescio di riti vacui, nevrosi, vizi, stereotipi e snobismo di classi abbienti senza più una bussola esistenziale, così simili, negli eccessi e nel degrado, a certe rappresentazioni di George Grosz. I caratteri a tratti espressionisti, appunto, o barocchi e perfino di connotativo realismo che Fellini mirabilmente miscela nel film, sono una rappresentazione aniconica almeno quanto iconica e figlia di una profondità di campo fatta di visuali che incorniciano e moltiplicano altre visuali. I luoghi del jet-set perennemente (e stancamente almeno quanto vistosamente) festaiolo, sono ricostruiti con puntiglio e dovizia di particolari, conferendo alla parola realismo un significato quasi inedito: tutto è alla vista, tutto appare in mostra, sfacciato e suasivo, nel momento stesso in cui celebra la propria stessa, invisibile, sotterranea perdita di ogni senso e direzione.
Se Marcello è svuotato come un dandy blasé e indolente, il film è punteggiato di piccole e grandi prese di coscienza da parte sua, ma che non sfociano mai nell’azione, egli sembra attendere amleticamente, in quel limbo di inesprimibile insensatezza ai margini del veridico, qualcosa che lo salvi dallo sperpero del meglio di sé.
Nel finale viene apostrofato ben duramente da Laura, ospite della stessa ennesima festa caricaturale, che ne mette a nudo le debolezze condannando l’illusorietà adulatrice e mercenaria di ciò che scrive per rotocalchi da giornalettismo. Ma lui è ormai lontano, presente e assente al medesimo tempo, e risponde meccanicamente in modo caustico e neppure tanto sofisticato. La festa degenera nel sadismo di Marcello, nell’esibizione di un cinismo estremo e mostruoso (cavalca per gioco una donna ubriaca, la “trasforma” in gallina con le piume di un cuscino, offre il peggio di sé).
Marcello è così simile a quel mostro spiaggiato sulla riva vicino alla casa dei suoi ospiti, da poter essere ormai solo oggetto di compassione. Il mostro, morto, sembra ancora guardare seppure inerte: esattamente come il protagonista, testimone freddo e immobile di un mondo che non gli appartiene più di qualsiasi altro, vissuto nella solitudine e nell’estraneità. Giunge un richiamo epifanico di purezza incontaminata da parte di Paola (Valeria Ciangottini), ragazzina conosciuta in un ristorante in riva al mare. Ella esprime gesti apparentemente indecifrabili e parole che si perdono nel fragore delle onde, in un richiamo di innocenza che fa il paio col proprio puro, virginale sorriso, e che Marcello non potrà che salutare senza raccogliere che stancamente, distante ormai da tutto e tutti, ma soprattutto da una verità e un’innocenza sempre più sfuggenti e lontane da una capziosa sofisticazione ferace di nausea e nonsenso.
Il film, a ben vedere, è una Babilonia di linguaggi, ma all’insegna, come detto, dell’incomunicabilità di fondo e di una raffreddata distanza da ogni cosa, che si esprime nel delirio stesso di poter vivere tutto sino all’estremo, con un’indolenza e una malintesa “autarchia” affettiva che altro non sono che solitudine e disprezzo per la vita stessa.
È un film acre e spietato almeno quanto vitalistico e sfrenatamente fuori da ogni schema di quanto si fosse fino ad allora visto nel linguaggio filmico. Il resto è leggenda.
Massimo Triolo