20 Gennaio 2020

La fonte “occulta” di Federico Fellini: Pedro Antonio de Alarcón, lo scrittore amato da Borges

Ora che le reti nazionali si sbizzarriscono a mandare in onda Fellini con La città delle donne una piccola riflessione letteraria è d’obbligo. Non sono un fellinologo e ignoro cosa leggesse il maestro. So però dopo aver letto Yucatan di De Carlo che Fellini era un caotico bugiardo. Perciò non mi azzardo a fare ipotesi sulle sue idee germinative quando decideva una trama, un’ispirazione (posto che si agisca e non si sia solo ‘agiti’ dall’afflato divino quando si crea qualcosa).

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Lancio però una pietrolina nelle sabbie immobili delle celebrazioni centenarie. Le date contano: 1978. Maria Ricci pubblica un altro volumetto della collana snob di Borges, La biblioteca di Babele. Autore è Pedro Antonio de Alarcón (1833-91). Contenuto: due novellette, L’amico della morte e l’altra, che fa al caso nostro, La donna alta. Primavera 1979. Iniziano le riprese de La città delle donne.

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Non sono, purtroppo, nemmeno un cinefilo, gli unici cinema bottega che frequentavo erano quelli di Pisa che notoriamente fanno schifo e da allora ho perso il vizio. Forte della mia ignoranza rilevo l’affinità palmare di contenuti onirici tra la versione di Fellini e quella di Alarcón.

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Ne La donna alta (1881) hai un incastro di storie. Un ingegnere che crede solo ai fatti nudi & crudi racconta la vicenda di un amico collega, Telesforo, il quale ha passato un brutto guaio per il suo timore innato nei confronti delle donne di una certa statura. Le cose si fanno pressanti quando si apre la matrioska grande e si vede per bene quella piccola che è il racconto minore di Telesforo: storia grottesca dell’ingegnere che racconta i suoi timori irrazionali al collega scettico: ma sino a che punto, se poi consegna la trama a noi che leggiamo? È la storia insomma di una fobia isterica verso le donne in genere elevate a simbolo antifaustiano, a sfingi sacre che affrontano e mettono a repentaglio coi loro artigli la vita del libertino Telesforo che ha appena perso il padre. (Un tesista di storia del cinema per farsi bello ci direbbe che si tratta di denegazione…)

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Così l’ingegnere Telesforo arriva ad aver terrore delle donne alte: “Ma il suo cinico sguardo e quel sorriso schifoso erano da vecchia, da strega, da fattucchiera, da Parca… non so dire che cosa! Qualcosa che giustificava pienamente l’avversione e il terrore che per tutta la vita mi avevano ispirato le donne che camminavano sole, di notte, per la strada!… Si sarebbe detto che fin dalla culla avessi presentito quell’incontro! Si sarebbe detto che lo temessi per istinto, come ogni essere animato teme e indovina e intuisce e riconosce il suo antagonista naturale prima di aver da lui ricevuto alcuna offesa, prima di averlo visto, ma soltanto sentendone i passi! Non mi misi a correre quando vidi la sfinge della mia vita, non tanto per vergogna o per vanesio decoro, quanto per timore che la mia stessa paura le rivelasse chi io fossi, o le dessi ali per inseguirmi, per aggredirmi, per… non so che… i pericoli che il panico sogna non hanno forma né nome traducibili!”.

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Nell’opuscolo La storia dei miei libri il nostro Alarcon racconta che “ne La donna alta, dalla prima lettera del racconto alla fine del secondo incontro di Telesforo con la terribile vecchia, non c’è un singolo dettaglio che non sia pura verità. Lo attesto con tutto lo spavento che può provare l’anima umana!”. Per inciso la nota Treccani su Alancon è del ventennio ma purtroppo sbaglia con la data dell’opuscolo segnando 1889 invece di 1884.

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Non dirò altro sul cuento che trovate comodamente qui mentre sul suo autore potete leggere in diagonale le pagine cieche di erudizione della Treccani. 

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E poi pensare a Fellini sul divano che nei fiumi del pensiero carnale incrocia Poe con Alarcon e il gioco è concluso. Si confonde.

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A proposito di confusioni. Quando venni a conoscenza de La donna alta da un amico che me ne parlava la sera in via san Lorenzo col borsone da tennis in spalla lui mi disse, con un piccolo errore ma forzando al massimo il concetto, che il titolo era Le donne alte. Quell’amico, sono passati anni da allora che ne aveva 27, recentemente si è sposato e l’ultima volta l’ho lasciato che faceva soliloqui sul balcone. Sua moglie non supera il metro e sessanta. (Andrea Bianchi)

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Pedro Antonio de Alarcón, da La storia dei miei libri. Capitolo II. Poesieq (1884)

Nella città di Guadix, che ha una cattedrale, l’Alcazaba araba, un fiume, orti, pianura, uliveti, vigneti, montagne, un battaglione di provincia (oggi di riserva), giudice di prima istanza, un paio di lapidi romane e un altorilievo fenicio, scrissi, tra i dieci e i diciannove anni, i miei primi versi, articoli e romanzi (…)

Chi mi ha insegnato? – Nessuno. – Non sono allievo di nessun D. Alberto Lista, né grande né piccino.

Serva questo a scusarmi, o meglio a scusare i miei lavori, dato che non presi a far letteratura né per scelta né per  capriccio, ma cedendo a una forza interiore, spontanea e travolgente come la vita, organica, e per di più considerato  che mi fu necessario prender la cosa come un lavoroconsegnare al tipografo i miei poveri scarabocchi, se non volevo seppellirmi a Guadix e cantar messa, quando la mia vocazione era il matrimonio, o finire in qualche negozio o merceria, costretto a rinnegare la mia qualità di nipote di gentiluomo che visse e morì “libero ed esente dal pagare e partecipare a tributi, diritti o servizi reali o municipali, come l’altra buona gente popolana” come dice il testamento del padre di mio padre, uguale a quelli dei suoi ascendenti, vergati in lettera gotica.

A dire il vero, quasi nessuna delle composizioni poetiche dei miei albori è entrata nella mia recente raccolta, né, del resto, nella prima che pubblicai nel 1870 col titolo Poesie serie e facete (…) E tuttavia comincio da qui questa recensione bibliografica, visto che il mio primo vagito letterario fu la composizione di versi dettata da non so quale innata fatalità, come quella che disegna i tratti di ogni volto (…) La cosa non vuol dire che quei frutti selvatici fossero meno sgradevoli e odiosi, però mi piaceva farvi sapere che, tra i nove e i quattordici anni, non solo cantavo, come tutti gli altri, il compleanno e le feste di genitori e fratelli, ma anche i primati d’una certa miniera che, alla fine, ci costò un sacco di soldi, la presa di possesso di un vescovo, l’antica possanza dei Mori, le cerimonie della Cattedrale, i miracoli dell’apostolo San Torquato e i grandi spettacoli della natura, mattina, pomeriggio, notte, luna, eclissi, ecc.; tutta roba che fini nel caminetto in poco tempo (mi riferisco alle poesie).

Giunto alla crisi fisiologica in cui la legge consente all’uomo di fare testamento e sposarsi; cioè, alla maliziosa pubertà, cambiai musa come cambiai voce e naso; e la donna, l’amore, l’idolatria fisica o le illusioni poetiche riguardo ad una certa figlia d’Eva che differiva da me solo in alcuni dettagli di forma e abbigliamento, diventarono gli unici oggetti delle mie canzoni. – «Ai suoi occhi…» «Alla sua bocca…» «Al suo piede…» «Al suo fazzoletto…», «Al suo ventaglio… », e pure «Ai suoi giuramenti…», «Alla sua leggerezza…», «Al suo spergiuro…», «Alla sua dimenticanza… », « Alla sua morte…» si intitolavano tutte quelle composizioni, buttate giù in una torre di casa mia, prima o dopo la lezione giornaliera di Sacra Teologia al Seminario e anche di loro non rimane nulla, perite anch’esse sul rogo, penso.

Fino a quel momento Espronceda e Zorrilla erano stati i miei modelli. Gli attori ambulanti, che venivano a far la fame a Guadix in tempo di fiera, mi recitavano a memoria i canti di quei due celebri vati. E così, da quattordici a sedici anni, ho composto e bruciato quattro drammi in ottosillabi e endecasillabi, che tra l’altro mi hanno procurato, al Liceo che era il teatro amatoriale di quella città, trionfi e corone senza numero, bramati (capii presto) solo in virtù della graziosa figliola che mi piaceva tanto, la quale faceva la protagonista nello spettacolo ed a cui offrivo tutti i miei allori. – Morì pochi anni dopo, poveretta, ed i versi funebri intitolati Le nuvole, che scrissi in suo ricordo poco prima di lasciare il paese, sono i più antichi che figurano in questa collezione, forse gli unici ad essersi salvati dai ripetuti, meritori autodafé.

Proseguendo la storia delle mie poesie, salvo tornare in seguito sui miei primi anni per dar conto dall’inizio delle mie opere in prosa, dirò che tra le vittime di un rogo successivo figura una Continuazione de Il Diavolo-Mondo, iniziata a Guadix nel 1851, continuata a Madrid nel 1853 e resa del tutto vana da quella che pubblicò poco dopo l’illustre amico di Espronceda, il signor Miguel de los Santos Álvarez. Posso dire che, da allora, non sono più tornato a far versi  per l’onore o il guadagno, ma su richiesta di questo o quell’amico per motivi domestici o per impegni sociali (…) Mi ero convinto che, tra essere poeta con tutta l’anima (come ero io, per sensibilità ed entusiasmo del cuore e della mente), ed essere cantore in versi, con l’intonazione, il ritmo e la necessaria sublimità delle forme, ci sono differenze essenziali, e che la mia stessa eccessiva facilità di esprimermi in questo o quel metro era ben lontana dal vero canto; nel quale, come nella buona musica, le cose vanno dette non tramite espressioni dirette, chiare e rigorose, ma con formule semireticenti, fatte d’istinto e di mistero, ossia in una lingua vaga, simbolica e un po’ sibillina, in cui molto resta da indovinare e da supplire da parte dello spirito eccitato dell’uditorio, per la legge di ripercussione armonica. – «Tu senti bene la poesia –mi disse nel 1856 Eulogio Florentino Sanz –; ma poi ti soffermi a riflettere, e finisci per esprimerla in un modo troppo chiaro e scorrevole. Non sei nato per cantare, ma per dipingere con precisione la vita interiore ed esteriore… – Non cantare: scrivi».

Pedro Antonio de Alarcòn

*traduzione di Andrea Giovannini

**In copertina: Federico Fellini e Marcello Mastroianni sul set de “La città delle donne”, 1980

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