Fabrizio Coscia ha sempre insistito su un tema, perché solo in questo poteva in realtà vivere e scrivere, che non è il rapporto ingenuo e scontato tra arte e vita, come fossero astratte entità paragonabili, quanto sulla necessità di porre tale relazione in una radicale scissione; ora in questo ultimo libro, Nella notte il cane, uscito nella preziosa collana S-confini della napoletana Editoriale Scientifica, lo affronta viso aperto, diremo senza difese: da una parte la velenosa verità della letteratura, dall’altra la menzogna della vita, per usare le stesse parole con cui Coscia termina la sua acutissima lettura di Indagini di un cane di Kafka, che non credo di sbagliare nel considerare il cuore del libro.
La sua opera ha sempre lavorato su questa divaricazione, senza cercare conciliazioni, nascondendola forse dietro l’apparente chiarezza della scrittura che in realtà è sempre stata un sottile strato di ghiaccio pronto a rompersi, quasi un confine messo provvisoriamente a proteggere dal caos, dall’assurdità del vivere e dello scrivere. Una conciliazione tenuta sempre lontana, perché l’unione sarebbe una ingenuità, quella che permette serenamente di costruire ‘storie’ o meglio ‘trame’ che si rivelano false nel loro atto originario. Coscia deve tenere divaricate arte e vita, verità velenosa e menzogna, perché in quella lacerazione che va tenuta aperta si può porre il problema essenziale. In questo iato, in quella distanza non c’è una irriducibilità ma un inevitabile silenzio, una complicità indicibile, o un filo invisibile che tenta di accostare i lembi di questa ferita additando un segreto che più si avvicina più diventa inaccessibile, incomprensibile: eppure è movimento necessario, perché la letteratura e la vita si uniscono nel profondo in questo abitare diversamente il silenzio.
La domanda radicale è dunque: come abitare il silenzio? Con quali parole? Ripeto, è il filo rosso della produzione di Coscia, che già ne La Bellezza che resta indagava cosa si può dire con quelle parole che nascono da una visione improvvisamente rovesciata, non dalla conquistata sapienza della vita ma dal suo denunciarne l’impossibilità o l’inutilità. Tenendo presente questo, non ci si può non rendere conto che in questo libro Coscia ha portato tale domanda al limite, seguendo con coerenza il suo discorso, non si è tirato indietro dallo sporgersi sull’abisso, di sé, della propria vita, della letteratura. Un libro drammatico per uno scrittore, perché taglia i ponti, impedisce vie di ritorno, si addentra personalmente in quel silenzio sapendo che le sue parole devono abbandonare ogni difesa, che non avranno continuazione o vera spiegazione, vivendo solo della propria autogiustificazione, diremo ponendosi, per un atto di umiltà e pietà non certo di arroganza, al di là del bene e del male.
È il libro di una svolta o meglio la volontà, immagino quanto sofferta, di chiudere un periodo e rivolgersi al futuro a occhi chiusi, non sapendo cosa troverà, perché penetra in quel regno della libertà che ha lasciato alle spalle il rumore e le attese del mondo. Per l’opera di Coscia si continua a parlare di libri ‘ibridi’ pur di non accettare che ibrida è la nostra vita, la scrittura, quasi si avesse paura a ammettere che oggi una qualunque trama non decifra più il mondo né lo decostruisce; ogni trama ha il sapore dell’artificiosità rispetto alla imprevedibilità della vita e in assenza di un modello ‘archetipico’ di personaggio, mettiamo il Napoleone ottocentesco che Zola sosteneva essere dietro ogni romanzo della sua epoca; mentre la decostruzione dovrebbe avere un riferimento di unità di senso che non esiste più e si riduce a un parlarsi addosso, a pura autoreferenzialità. Vie d’uscita, sempre più standardizzate, il complottismo o la distopia, oppure fantasmi di cartapesta che sono innocue maschere di carnevale, come tanti personaggi che alla fine trovano legittimità riparandosi sotto un cielo ottocentesco. Tutto è nella scrittura, trama compresa, il problema è se fare della realtà una finzione, diegetica o linguistica è lo stesso, o cercare ciò che può essere in quei momenti in cui non l’osserviamo ma ne siamo osservati e ricambiamo stupiti quello sguardo. Da qui solo è possibile una storia comunque sia tessuta, come a dire che non bisogna inseguire uno sguardo puro, innocente, falsamente ritenuto autentico, ma uno sguardo che vede ciò che qualcuno o noi stessi abbiamo già visto donandogli un senso che dobbiamo ricordare.
Qui la guida è il cane, o gli animali in generale, che non solo ci fanno comprendere che la verità è qualcosa che non siamo più capaci di vedere (se mai lo siamo stati), ma proteggono e fanno esistere un mistero, come a dire ci indicano un compito che altrimenti eluderemmo. Entrano nella vita dello scrittore e in quella degli Autori che chiama a raccolta, da quella porta sul set che deve essere sempre lasciata aperta, come sosteneva Renoir, per permettere che l’imprevisto accada e si ritrovi a far parte delle nostre storie portando la soluzione che non si trovava. Nelle parole dobbiamo cogliere questo mistero o segreto, non per scioglierlo ma per mantenerlo in vita, mantenere la speranza che possa apparire, attendere ciò che non capiremo perché ci svela la verità. E questo mistero lo si tiene in vita allontanandosi apparentemente da ciò che ci è proibito comprendere o esprimere: compito della letteratura (e della vita), questa vigile attesa diventa la possibilità di parlare d’altro, di non ammutolire o di non vivere, di non cedere alle sirene del mondo, compreso quello della letteratura.
In uno scrittore in cui l’elemento biografico è sempre presente, voglio affermare un apparente paradosso: Fabrizio Coscia inserisce il dato esistenziale ma per evitare una confessione, muovendosi per metonimia, spostandosi dal solipsismo, dalla propria vicenda privata a quella altrui: è questo testardo compito che sta portando avanti; l’arte e la vita sono nella verità, non nella conoscenza, che puntualmente ci tradisce o vuole da noi l’abolizione di quanto più ci appartiene: l’inspiegabile, la fonte primaria della necessità di scrivere. Nell’esperienza sbaglieremo sempre e ancora, il problema è in nome di che cosa. Coscia non ha dubbi: la verità.
Coscia è giunto alla conclusione che il fallimento è l’estrema mossa della letteratura e dell’arte, giungere al fallimento, alla soglia della vertigine, dove ci si arrende, si tace, ci si acceca e così in questo voluto sacrificio può mostrare l’alterità della vita che solo così diventa improvvisamente intima, cioè uno sfondamento della confessione, l’eliminazione di ogni giustificazione, accusa, rancore; Coscia è attratto dalla vertigine perché solo quando giunge sin lì può girare lo sguardo e continuare a vivere, solo quando è costretto a questo volgere le spalle trova la sua forza, il suo paziente e doloroso ritornare alla propria e nostra fragile esistenza, con un sguardo che però è diventato lucido quanto pietoso: sa che tutto precipiterà in quella vertigine e ora lo ama di più e in modo diverso.
Capiamo che quel ricercato luogo del silenzio è lo spiraglio per scrutare l’apparizione di una possibile ultima parola, che in quanto tale non è mai la stessa e diventa memoria per sé e per gli altri, una parola perdutamente priva di ogni conoscenza razionale perché ne fa improvvisamente a meno, capisce che proprio la ricerca della conoscenza, nello studio e anche nell’amore erano una falsa strada. Siamo capaci di questo estremo salto nel buio o meglio nella verità? Di trovare queste parole? Lo scrittore non ci dà rassicurazioni. Aveva posto radicalmente la questione già ne Lo scrivano di Nietzsche: cos’è un discepolo, uno che si mette al servizio della verità di un maestro? forse sacrifichiamo la vita dietro questa verità perché in fondo non abbiamo nostri veri pensieri e vogliamo che coincida con la conoscenza, con i libri letti, le esperienza vissute? Chi scrive come sa di essere uno scrittore e non un caleidoscopio di parole altrui, di possedere una presunta identità e non essere invece una frantumazione dell’identità in tante parti, tante recite in ognuna delle quali si resta dilettanti a vita? I libri di Coscia sono sempre una profonda interrogazione sul perché della scrittura, su quale sia la sua verità, senza mai essere una metascrittura autoreferenziale: la vita è lì a ricordarci che non si può giocare, il cerchio si spezza sempre nella sua scrittura.
Quel fallimento sopra ricordato diventa dunque una visione, non una distruzione di ciò che siamo o abbiamo scritto, in fondo è una interrogazione più che una affermazione, oseremo dire: una vocazione cui dover rispondere.
Tornando al tema della categoria dell’ibrido, capiamo che tale forma di scrittura (assolutamente non un genere) è la risposta alla affermazione de Il nipote di Rameau di Diderot, vero incunabolo al romanzo moderno e tremendamente attuale: “essere qualunque cosa ma non se stessi”. Ma nel fare questo dobbiamo imitare qualcun altro, così l’originalità individualistica romantica e dunque ancora moderna nasce su questo paradosso; la via di uscita non è meglio: essere se stessi diventa essere diversi affinché si venga riconosciuti come tali: nessuna vocazione o destino. Solo vanità o per riprendere Lo scrivano di Nietzsche, la mediocrità intesa come potenziale non sfruttato, una assai diffusa consolazione. Ma Coscia dialoga ancora con i Maestri novecenteschi, si pone questo quesito e dà una risposta: la fragilità individuale, l’angoscia profonda per cui Rameau esprime il disprezzo, l’odio che ognuno di noi ha verso la propria vita che dovrebbe essere altra, diversa, felice, è l’inferno quotidiano. Allora essere se stessi, non è un rafforzamento dell’identità ma il luogo dove si è chiunque altro, per pietà e non per rancore, il luogo dove è impossibile non essere osservati: è la nostra imbarazzante nudità di fronte a un animale che ci guarda, è l’accettazione di una vita che nasconde e mostra il suo mistero ma non invidia nessuno e da nessuno vuole essere visto al di fuori di questa nudità, togliendo l’accecamento che ci fa credere che la felicità sia nella vita degli altri.
Concludo con una riflessione che non credo casualmente troviamo verso la fine: la ripetizione che un cane insegna a due amanti, come chiave di un mistero tanto semplice quanto invisibile ai nostri occhi. Viene ricordato Kierkegaard ma anche indirettamente Deleuze, perché quel mistero della ripetizione non può più essere inteso come il filosofo nella famosa analisi dei quadri di Monet, come fuga continua dalla norma: è meccanismo datato. Il libro di Coscia, nella sua stessa struttura intima, ci suggerisce che oggi la ripetizione è necessaria per creare una norma ormai non più esistente, una norma incomprensibile o meglio immaginaria, che non può più esserci data dalla realtà, da un mondo che ci lascia liberi di ‘errare’, di sbagliare credendo di essere nel giusto, per imprigionarci meglio, l’eccezione è ormai prevista e funzionale. Coscia penso sia più vicino a Sestov: “la ripetizione è annullamento del passato della realtà configurata dalla ragione, restituzione di ciò che all’uomo è stato tolto con violenza…”
Vale a dire la verità, perché questa ci è stata tolta. Dunque dobbiamo inventare una norma per poter poi evaderne con la ripetizione, renderla sempre diversa: e non da sempre è questo il lavoro che Coscia costruisce nei suoi libri? La letteratura è questo doppio compito, una possibile salvezza individuale e collettiva, credere in una norma inesistente e sorreggere le fragili ripetizioni della nostra vita come continua invenzione di un possibile nuovo. Per Coscia questo è il compito civile della letteratura, mentre le parole del mondo scatenano il demone della follia, della paralisi, dell’assenza di norme e di evasioni dalla stessa.