Abito in una delle tante città italiane. Un paio d’anni fa, d’estate, rientrando a casa da una passeggiata, notai da lontano un’insolita forma verde brillante appoggiata sul metallo del portoncino del mio condominio. Avvicinandomi vidi che si trattava di una grande insetto, una mantide.
Ne avevo visti altri esemplari in vita mia, ma soltanto in campagna o in montagna e quando ero piccolo. Ma in una città mai.
Le mantidi non spiccano salti, sono una specie lenta e quindi sapevo il pericolo che un altro essere umano avrebbe potuto costituire per lei. Se fosse sopraggiunto un qualsiasi casigliano, la mantide sarebbe stata uccisa o colpita e lasciata in terra ad agonizzare con le zampe fratturate. E credo che lo sapesse anche lei. Quando fui davanti al portoncino con le chiavi pronte a essere infilate nella toppa, mi chiesi come avrei fatto a portare in salvo l’insetto senza procurargli dei danni. Ma prima volevo osservare un esemplare di questa specie così affascinante.
A quel punto accadde qualcosa di davvero insolito.
Non appena a pochi centimetri da lei, la mantide voltò la testa verso di me con una certa lentezza e mi fissò negli occhi. Era calma, anzi immobile. Mi immobilizzai alla mia volta. Ci guardammo negli occhi per tre, cinque secondi, o poco di più, durane in quali ebbi una netta, nettissima percezione. Fu come se sentissi, non con gli orecchi ma con la mente, la mantide parlare.
E con estrema serietà, ma altrettanto con calma e rassegnazione mi disse: «Lo so, potresti uccidermi, ma non farlo, per favore. E se devi, fai che sia senza dolore». Subito le risposi, anch’io con la mente: «Stai tranquilla, non voglio farti alcun male. Voglio solo guardarti un poco e poi portarti nel prato». Poi, mentre aprivo il portoncino, aggiunsi: «Non ti muovere e cerca di nasconderti. Io arrivo subito». A quel punto vidi la mantide rilassarsi e piegare il capo in un gesto in un ringraziamento finalmente sollevata e libera dalla paura.
Un minuto dopo tornai dalla mia mantide con un contenitore di plastica in cui per così dire la feci accomodare e andai a depositarla in un prato poco distante, sana e salva.
Immagino il lettore adesso si aspetterà una dichiarazione di fantasia. E invece essa non arriverà, perché ciò che ho riferito è accaduto davvero.
Pensate ciò che volete, tranne che sono pazzo o bugiardo. Che motivo avrei?
Se non fossi sospettoso circa certi scherzetti giocatici dai nostri cervelli, potrei persin giurare sulla veridicità dello scambio che ci fu tra me e quell’insetto. Certo, è accaduto tutto ed è accaduto in pochissimi secondi che ora nel racconto sembrano dilatati, come spesso accade in situazione del genere. Ma è ovvio che, per l’appunto, è possibile che sia il mio cervello ad aver ricamato, anche seduta stante, su qualche normalissimo movimento della mantide e che il dialogo sia avvenuto soltanto nella mia testa. Eppure, non scommetterei nemmeno un centesimo che sia stato tutto solo il frutto d’un mal funzionamento dei miei neuroni, magari per una digestione difficoltosa o per il gran caldo di quei giorni. Dirò di più: se fossi costretto, direi che quello scambio c’è stato davvero, anche perché più volte in passato mi è occorso di avere scambi analoghi con animali superiori, in ispecie i gatti.
A rafforzare ciò che potrebbe essere persino una certezza è la continuata lettura dei Ricordi di un entomologo di Jean-Henri Fabre. Da poco Adelphi ha mandato in stampa il terzo volume di questa vasta e stupenda opera (ne mancano ancora due, dei primi ho parlato anche su questa rivista) che nonostante sia trascorso un secolo dalla sua stesura è ancor vigorosa e utile. Anzi, direi di più, vistoché alcune branche della scienza – discutibili ma non trascurabili – hanno compiuto passi da gigante nelle penetrazione dei segreti della vita.
Fabre non era soltanto uno scienziato ma anche un umanista equipaggiato di robuste letture filosofiche e sensibile. Con Anassimandro e sulla scorta dei suoi studi entomologici è persuaso che l’universo sia mosso da una grande mente – che egli non chiama mai Dio –, senza la quale a suo giudizio sarebbe difficile se non impossibile spiegare i fenomeni che egli osservò per decenni in natura. E non è certo l’evoluzionismo – che Fabre, come usava all’epoca in Francia, chiama “trasformismo” e non si perita di ridicolizzare – la risposta ai nostri quesiti, anzi.
Ciò che tra l’altro colpisce in quest’uomo è la capacità di cogliere la bellezza del cosmo, nonostante egli si occupasse di creature che, sbagliando, gli uomini ritengono mostruose. (Non so se e cosa abbia pensato la mia mantide quel giorno sul mio aspetto, ma non credo sia rimasta ammirata come davanti a un Prassitele). Ma la bellezza cui riguarda Fabre non è da intendersi in quel senso volgare, che apprezza soltanto le forme rispettose di certi canoni alla moda. È piuttosto l’armonia, la perfezione anche nell’imperfezione o, meglio, in ciò che gli esseri umani leggono così, dimenticando che i nostri parametri quasi sempre sono artificiali e distanti da quelli della natura, la quale notoriamente se ne frega dell’essere umano che, al contrario, si dà tanta importanza. (Non ci dimentichiamo mai delle sagge parole di Hume: per l’universo un essere umano ha lo stesso valore di un’ostrica).
«Esaminiamo ora alla luce della riflessione – scrive Fabre – l’elegante edificio che abbiamo sotto gli occhi. Tutti noi, giovani o maturi, incolti o di mente raffinata, vedendo l’incantevole spiga del bombice diremo che è bella. E a colpirci di più non saranno le graziose perle di smalto, ma la loro composizione, così regolare, così geometrica. Giudizio molto serio: un ordine stupendo governa l’opera di un inconsapevole, di un umile fra i più umili. Una misera farfalla segue le armoniose leggi dell’ordine».
E ancora:
«Esiste… un bello austero, dominio della ragione, uguale in tutti i mondi, uguale sotto tutti i soli, che siano semplici o molteplici, bianchi o rossi, gialli o blu. Questo bello universale è l’ordine. Tutto è fatto con peso e misura, grande formula la cui verità splende tanto più quanto più si sonda in profondità il mistero delle cose. Questo ordine, base dell’equilibrio universale, è il fatale risultato di un cieco meccanismo? Rientra nel piano di un Geometra Eterno, come sosteneva Platone? È il bello di un Esteta Supremo, ragione di tutto? Perché tanta regolarità nella curvatura dei petali di un fiore, tanta eleganza nelle cesellature delle elitre di uno scarabeo? Una tale grazia, persino nei più piccoli particolari, è compatibile con la brutalità di forze che si abbandonano alla violenza? Sarebbe come attribuire lo squisito medaglione cesellato da un artista al maglio che elimina le scorie sulla forgia».
Nonostante fosse uno scienziato, Fabre non aveva la boria dei suoi colleghi – di ieri di oggi e, ahinoi, temo anche di domani, nonché di ogni orientamento; e infatti dice:
«Appena si vuole approfondire un po’ il minimo particolare delle cose, ci si trova di fronte un perché al quale l’indagine scientifica non può rispondere. L’enigma del mondo non ha certo la sua spiegazione nelle piccole verità dei nostri laboratori».
Se le cose stanno come dice Fabre, niente e nessuno, neppure il camice bianco più titolato, può escludere la comunicazione tra noi, gli animali e gli insetti. D’altra parte, se taluni singolari fenomeni occorrono tra esseri umani, soltanto un arrogante può pensare che essi non soltanto siano errori del cervello, ma altrettanto che non possano verificarsi tra uomini e animali, fosse pure un insetto.
In questo terzo volume ci sono anche due istruttivi capitoli (III e IV della Sesta serie) intitolati «L’atavismo» e «La mia scuola» che ci permettono non solo di inquadrare meglio l’animo dell’autore ma anche di imparare qualcosa sull’essere umano (almeno in via ipotetica). Fabre, infatti, è uno di quegli scienziati (ma è riduttivo definirli così: sarebbe meglio parlare di umanisti con interessi “tecnici”) i quali sanno cogliere il mondo con un unico colpo d’occhio e non separano mondi e regni con arbitrio e boria. Lo studio della natura è infatti anche studio dell’essere umano, che ne fa parte, con buona pace di chi pensa che Homo sia una specie tutt’affatto differente. E il primo oggetto di osservazione da parte di uno “scienziato” onesto è sé stesso.
In questi due capitoli Fabre racconta della sua famiglia, fin dove possa rintracciarne l’origine, e della scuola, una più scalcagnata dell’altra, e varrebbe la pena leggere queste pagine anche solo per le descrizioni pittoresche e veridiche di un mondo per noi quasi inimmaginabile. I famigliari di Fabre erano tutti analfabeti o quasi, buoni ma grezzi, alieni da qualsiasi interesse per il mondo che non fosse la sopravvivenza. La scuola elementare, allocata in una stamberga rifugio per galline e maiali, forniva meno dei rudimenti necessari e il così detto maestro del villaggio svolgeva soprattutto non era di certo una persona colta. Immerso in questo ambiente ostile alla curiosità e alla cultura, diremmo volentieri alla vita che non sia quella “animale”, Fabre mantenne tuttavia intatta la sua tensione per l’esistente, la sua attenzione per la natura vivente, e a mano a mano che cresceva, e senza incentivi che non fossero le cose stesse, esse si sviluppavano, montavano, si espandevano.
Insomma, ciò che Fabre vuole dirci è che non è possibile ascrivere alle proprie ascendenze o all’ambiente sociale il genio, il talento, le passioni. Persino le scuole serie frequentate dopo aver spiccato il volo dal suo villaggio di campagna, compresa l’università, non ebbero parte nella formazione del futuro entomologo. Ma allora da dove vengono questi i nostri “pallini”? Fabre lo ignora:
«In direzione diverse e a gradi più o meno elevati, siamo tutti costituiti dalle caratteristiche che ci marchiano come un sigillo speciale, caratteristiche la cui origine è insondabile. Sono perché sono, e nessuno ne sa di più. Non è un dono che si trasmetta: l’uomo di talento può avere un figlio idiota. E nemmeno si acquisisce, ma si perfeziona con l’esercizio. Chi non ce l’ha in nuce nelle vene non lo possiederà mai, nonostante tutte le premure di un allevamento in serra».
Invero – lo dico con tutta la doverosa cautela del caso – questo mistero così come quello della mantide può essere almeno avvicinato grazie a recenti studi. Ma di questo, forse, un’altra volta. Intanto leggiamo Fabre, che peraltro ha un valore aggiunto: è uno prosatore eccellente, come pochissimi in ambito scientifico.