13 Giugno 2020

“Tutto sulle mutande e per terra. Mi toccava fare la scarpetta con la carta igienica sul pavimento”. Ipotesi su Fabio Volo e sul suo aedo, Antonio D’Orrico

«La questione non è solo che un libro grande o molto notevole pungola qualità, acume, interessi del buon critico, ma ne può anche mettere a punto e al limite innovare lo stesso metodo. (…) Oggi invece, da noi, è fatale che il moltiplicarsi esponenziale di poeti e narratori della domenica tenda a creare sempre più critici della domenica. E naturalmente vale anche l’inverso, o il cortocircuito: la critica poco rigorosa produce o almeno favorisce una letteratura di mezza tacca. È un’evidenza». Pier Vincenzo Mengaldo, in “L’Ospite ingrato”, I, 2004

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A nostro avviso, la stimmate che ha infettato lo stato della critica letteraria in Italia risale all’avvento degli anni 2000, con l’inizio della rivoluzione digitale e lo svilupparsi della Rete, nella quale oggi siamo immersi fino al collo. La crescita di internet ha creato il mondo dei blog, che ha rivoluzionato lo stato della comunicazione, della diffusione e condivisione di contenuti, delle nuove forme di autopubblicazione e autoesposizione scritta. Le iper-narrazioni individuali si sono irradiate senza freno, com’era inevitabile, e con esse si sono incanalate le attività paraletterarie di segnalazione e recensione di libri nei cosiddetti lit-blog, dove chiunque si dichiarasse appassionato di letteratura dava il suo contributo alla diffusione delle produzioni editoriali, segnalando, recensendo, captando favori dalle case editrici, incoraggiando all’acquisto.

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Si è creata così un’ampia sotto-classe di recensori-segnalatori, di età, estrazione, competenza, esperienza le più diverse e casuali, che si è occupata delle nuove uscite librarie senza aver nulla a che fare con l’attività della critica vera e propria, il cui ruolo rimane comunque necessario per l’andamento vitale della cultura di un Paese. Di pari passo, l’attività critico-recensoria dei giornali a larga diffusione, che negli anni migliori manteneva un suo spessore, è andata via via annacquandosi e assottigliandosi, come per competere “al ribasso” con quanto si sviluppava in Rete, diventando sempre più omologata, sbrigativa, approssimativa, accondiscendente. Quel che è peggio, col tempo si è andata anche affermando la prassi di pubblicare recensioni librarie quasi esclusivamente positive o moderatamente giudicanti, tendendo a silenziare le espressioni autentiche di dissenso o di critica argomentata verso un prodotto editoriale. Questa prassi, che riteniamo esiziale, ha poi fatto da substrato all’affermarsi di un’altra pratica, tanto opportunistica quanto deviante e distruttiva: l’iperbolismo gratuito, l’encomio compulsivo dettato dal narcisismo, travestiti da una sorta di trasgressione verso un’idea di letteratura “paludata”, offerta come pretesto negativo per raccogliere consensi e creare una posizione dominante.

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Come sappiamo, l’artefice principale di questa pratica “rivoluzionaria”, che tante fortune ha regalato ai beneficiari e tanti danni ha causato alla nostra produzione letteraria, ha un nome: Antonio D’Orrico, la celebre firma del Corriere della Sera che per anni ha lanciato diversi autori esaltandone le doti e gridando al capolavoro, con la pretesa di certificarne la superiorità artistica sull’intero parterre di scrittori e scrittrici nazionali. Abbiamo già visto come la sua infantile spavalderia abbia definito il comico Giorgio Faletti l’“incredibile più grande scrittore italiano” e il rocker Luciano Ligabue come il “Raymond Carver italiano”. Ora, per spingerci oltre, riportiamo la dichiarazione articolata che pubblicò nel 2012 su “Il club de La Lettura” del Corriere:Margaret Mazzantini scrive frasi tipo: «La grinta autistica di chi si batte sola con se stessa e non cambia muro». Fabio Volo scrive frasi tipo: «Ho molti sospetti su di me. Ho paura che la mia vita sia un lungo malinteso. Forse non sono la donna che credo di essere». Preferirei Fabio Volo. Gianrico Carofiglio scrive frasi tipo: «Mentre diceva quella bugia pensò che non ricordava gran parte dei film che aveva visto nella sua vita. C’era differenza fra il non aver mai visto un film, o visitato un luogo, o letto un libro e l’averli visti, o visitati, o letti senza ricordare niente?». Fabio Volo scrive frasi tipo: «Mi è venuto in mente quando da bambina, in cucina con la nonna, seduta in ginocchio su una sedia, pulivamo i fagiolini e buttavamo le codine dentro una pagina di giornale al centro del tavolo». Preferirei Fabio Volo.

Erri De Luca scrive frasi tipo: «Scorro da molto tempo sopra scritture sacre, senza spunto di fede. Nella lettura gusto l’alfabeto antico, la mia conoscenza avviene nella bocca. L’ebraico antico gira come un boccone tra lingua, saliva, denti e sella di palato». Fabio Volo scrive frasi tipo: «Federica questa mattina è entrata in ufficio stravolta. Mi ha raccontato di essere uscita con un ragazzo… Mi ha detto che uno con una resistenza simile non l’aveva mai incontrato. Hanno iniziato a fare l’amore dopo cena e lei verso le due ha chiesto una pausa. “Quando sono andata in cucina a prendere dell’acqua, barcollavo come se mi avesse svitato le anche”». Preferirei Fabio Volo. Fabio Bonetti, in arte Volo, 39 anni, bergamasco di Calcinate, figlio di un panettiere, disc-jockey, attore, sceneggiatore, doppiatore, cantante, batterista, ex-Iena, primo nella classifica dei bestseller, non è, come pensano gli intellettuali, il peggiore scrittore italiano”.

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Naturalmente, anche noi alla tronfia pomposità di Margaret Mazzantini e allo scaltro minimalismo codificato di Erri De Luca preferiamo altri autori, come abbiamo avuto modo di spiegare. Ma qui Antonio D’Orrico fa un salto di qualità nella sua missione distruttiva: identifica la categoria dei “letterati snob” per poterla incendiare, come si fa coi simulacri nelle piazze, usando la potenza di fuoco del personaggio succitato, offerto come svolta rivoluzionaria verso una nuova era. Si preferisca Fabio Volo, è il suo messaggio. E noi ve lo offriamo: ecco nel suo primo romanzo, Esco a fare due passi (Mondadori 2001), il protagonista-alter ego che si sveglia in piena erezione, deve orinare ma non riesce a puntare la nerchia nel cesso:

«Provavo da seduto e succedeva che dopo un po’ si afflosciava, ma non del tutto, e la pipì usciva tutta da quello spazietto che resta tra la ciambella e il water. Tutto sulle mutande e per terra. Mi toccava fare la scarpetta con la carta igienica sul pavimento». Fare la scarpetta con la propria pipì sparsa sul pavimento. Non è fantastico? Non è liberatorio per milioni di maschi che ci si possono riconoscere? E che dire della striscia marrone che sporca le mutande, dove il tessuto strofina il culo quando non ci si è puliti bene?

«Una volta me ne sono accorto in bagno a casa di un mio amico. Nel tornare a casa mia avevo paura che mi succedesse qualcosa: un piccolo incidente sufficiente a farmi portare all’ospedale. Chissà le infermiere cosa avrebbero pensato: che ero un barbone, invece era solo un calcolo errato. Si sa, a volte ci vuole un pezzo di carta ed è sufficiente, a volte sembra che non basti mai. E quando si guarda la carta e si vede che il colore è ancora molto acceso, viene da sbuffare. Ci sono giorni che io mi stufo anche a pulirmi il culo. Giuro». Infatti, che avrebbero pensato “le infermiere” di quell’ometto che, pur con l’uccello fieramente dritto, si trova le mutande sciaguratamente sporche di cacca? Forse Antonio D’Orrico è andato in sollucchero davanti a tanto coraggio espressivo. Se è vero, come dicono, che lo scrittore deve saper chiamare le cose col loro nome, qui tutto viene indicato per quello che è: la piscia è la piscia, la cacca è la cacca, la scoreggia è la scoreggia.

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«Da più di quattro giorni stavo a New York e non ero ancora anda­to in bagno. Mi sentivo gonfio. Mentre camminavo per strada spesso rilasciavo attimi di aria, che fra l’altro non sembravano miei. Non li riconoscevo, avevano un odore diverso. All’estero non sono le tue, sono straniere. In giro per Manhattan facevo quelle che si chiamano le ‘se­guge’. Pensi di liberartene mentre le fai e invece loro ti seguono. Sono dense e non ti mollano. L’errore più elementare con le seguge è farle pri­ma di entrare in macchina pensando di lasciarle fuori: invece, dopo un secondo che sei seduto, le senti. Salgono come le nuvole in montagna. In quei giorni ogni volta che andavo in bagno per fare la pipì cerca­vo di capire se, impegnandomi, riuscivo a fare dell’altro. Anche se sono maschio faccio la pipì seduto, come le donne. Cresciuto con mia madre, mia nonna e mia zia ho sempre visto fare la pipì seduti. La faccio in piedi solamente quando sono in un bagno pubblico. Perfino a casa di amici mi siedo. Anche perché in piedi tutti gli schizzi vanno in giro e non mi piace. Poi ho tutte le mie abitudini per andare in bagno. A casa mi tolgo sempre la camicia. Ho paura che si infili da qualche parte. D’estate mi piace addirittura spogliarmi completamente nudo. Via an­che i pantaloni, così posso allargare bene le gambe e mi sento libero. A gambe strette ho sempre l’impressione di cacare fettuccine». (Il giorno in più, Mondadori 2007)

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Questo narrare le cose in modo semplice e diretto, con fiati e puzze, è una cifra che deve aver sedotto non solo Antonio D’Orrico, ma anche l’illustre Francesco Piccolo, che l’ha spudoratamente imitata nella sua saga Le piccole felicità/infelicità, cavallo di battaglia della gloriosa casa editrice Einaudi. È molto semplice: scimmiottando un minimalismo posticcio, si offre il niente quotidiano come lo si racconterebbe al bar, senza metafore, senza mediazioni, senza nemmeno l’idea di cosa possa essere uno straccio di affabulazione. Il rapporto col lettore diventa diretto: io caco, tu cachi; io sporco le mutande, tu sporchi le mutande. Insomma, io sono te, come ai tempi del Silvio Berlusconi che indossava il casco da operaio per sembrare come tutti, sollevando montagne di scandalo. Ma qui si va oltre: così come la cacca è la cacca, anche la sborra è la sborra, e il pompino è il pompino.

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«Le storie di maggiore effetto erano quelle dei due che erano andati al pronto soccorso incastrati uno nell’altra, o di quello che era stato trovato senza reni in un campo vicino a una discoteca, o di quella che aveva fatto diciotto pompini al suo diciottesimo compleanno ed era andata all’ospedale perché aveva bevuto 33 centilitri di sperma… come una lattina di Coca-Cola».

«A volte era difficile da chiedere, il pompino, e quindi per far capire le tue intenzioni, le appoggiavi una mano sulla spalla e facevi una piccola pressione. Quelle che non volevano si irrigidivano e non si abbassavano neanche se usavi tutte e due le mani a piena forza. Quelle favorevoli, invece, appena facevi una piccola pressione scendevano subito con una flessibilità da far pensare che avessero il servosterzo incorporato».

«Non vorrei sembrare superficiale ma credo che non riuscirei a fidanzarmi con una ragazza che non fa i pompini. O peggio ancora che li fa con la bocca larga». (Esco a fare due passi, Mondadori 2001)

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Dunque, egregi lettori ed estimatori di Fabio Volo, fra le regole auree si ricordi: diffidare delle femmine che non fanno i pompini, o li fanno male. Sempre.

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«Mi faccio trovare subito. Lei la trovo anche per l’odore: un profumo che mi manda fuori di testa. E poi il seno sodo, le gambe dritte, e un culo che parla. In svariate lingue del mondo tra l’altro. Perfino i peli sono morbidi. Sembrano di cotone. Non come quella che ti ho presentato in palestra l’anno scorso, che aveva il pelo come il filo da pesca dell’otto, quello con cui puoi prendere anche pesci da due chili. Cazzo, in mezzo alle gambe aveva la paglietta di alluminio per pulire i fondi delle padelle! Pensa che quando si faceva la ceretta mi mandava un messaggio, perché aveva una ricrescita così veloce che aveva l’autonomia di una serata prima di pungere. Comunque con Sara non è solo una questione fisica. Hai presente quando dopo aver fatto l’amore le donne ti chiedono di non uscire? Lei è l’unica dentro la quale rimango volentieri, nemmeno me lo deve chiedere. Con le altre, dopo essere venuto, vorrei sempre salire su una catapulta e ritrovarmi vestito a passeggiare dall’altra parte della città». (Il tempo che vorrei, Mondadori 2009)

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Che simpaticone. Le donne ti chiedono di non uscire e tu vorresti fiondarti via: come può non riconoscersi il maschio medio? Il nome di Mondadori ricorre sempre, perché ha pubblicato tutti i dieci romanzi (sì, dieci) di Fabio Volo. Sappiamo che è la casa editrice italiana più onnicomprensiva e “pelostomacata”, quindi non c’è molto da sindacare. Ma ciò che rileva non è solo la sostanza scatologica, furbesca, ammiccante, spudoratamente sessista, volgarmente nulla di tutto ciò che Fabio Volo pubblica e che il suo seguace Antonio D’Orrico supporta. Ciò che risulta intollerabile è l’ulteriore insulto all’intelligenza del lettore, come quando si scopre che il passo contenuto a pagina 79 di Il giorno in più (Mondadori 2007): «Aiutavo mia nonna anche quando cucinava i fagiolini e bisognava togliere le punte. Si staccavano con le unghie e si mettevano in una pagina di giornale sul tavolo, poi si buttavano via» viene riprodotto quasi uguale a pagina 205 di Le prime luci del mattino (Mondadori 2011): «Mi è venuto in mente quando da bambina, in cucina con la nonna, seduta in ginocchio su una sedia, pulivamo i fagiolini e buttavamo le codine dentro una pagina di giornale al centro del tavolo».

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Brani che vengono replicati a distanza di anni, pensando che i lettori ritardati non se ne accorgano. Ora, ci siamo chiesti più volte cosa poteva indurre il “book-jockey” Antonio D’Orrico a esporsi tanto in celebrazioni sgangherate a favore di questo o quel personaggio (spesso contiguo a centri di visibilità e di potere come radio, cinema, televisione). Forse il bisogno di far parlare di sé, di essere al centro del dibattito, in una dinamica narcisistica abbastanza comune. Finché ci siamo fatalmente imbattuti nel D’Orrico romanziere: Come vendere un milione di copie e vivere felici, edito nel 2010 da Mondadori e lungo 410 pagine. Un libro che passò quasi inosservato, con scorno dell’autore, dove in terza di copertina si legge:

Antonio D’Orrico (Cosenza, Firenze, Milano), cinquantasei anni, acquario, giornalista, dal 1994 tiene su «Sette» – il magazine del «Cor­riere della Sera» – la più discussa, discutibile, indiscussa e indiscutibile rubrica letteraria italiana, in cui cerca di instillare nei lettori il gusto di parlare di libri e scrittori con la stessa competenza e passione con le quali di solito si parla di partite e giocatori di calcio. Questo è il suo primo romanzo.

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Qui il testo autocelebrativo e la sfacciata insensatezza della frase «la più discussa, discutibile, indiscussa e indiscutibile rubrica letteraria italiana» fanno qualche chiarezza sul fenomeno D’Orrico, per il quale affermare A negando B può anche invertirsi nell’affermare B negando A, perché secondo le sue logiche non c’è differenza. E diventa chiaro anche lo schema generale della sua azione: 1) bruciare il feticcio della letteratura “paludata” per promuovere libri di personaggi mediatici e di colleghi più o meno celati dietro pseudonimo; 2) trascurare il panorama artistico-culturale del Paese, lanciando autori improbabili per verificare quanto si è potenti; 3) mantenersi al centro della scena, nella parte di chi può abbattere a capriccio qualunque canone, forte di una lallazione recensoria che crea tanta simpatia.

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Naturalmente, non stupisce che il suo primo romanzo sia anche l’ultimo. Non avendo intenzione di metterci nemmeno la punta del naso, ricordiamo solo che tempo addietro Luigi Ma­scheroni decise di calcolare il numero di pagine che D’Orrico avrebbe dovuto leggere in un mese per le sue recensioni sul Magazine del Corriere della Sera: ne risultarono 5238, una quantità assurda, nemmeno tanto credibile. Ma per la rubrica letteraria più discussa, discutibile, indiscussa e indiscutibile, si può affermare tutto e anche il suo contrario.

Paolo Ferrucci

* Per approfondire gli argomenti correlati, si rimanda a Pippo Russo, L’importo della ferita e altre storie, Edizioni Clichy, Firenze 2013

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