Premessa. Ogni volta che Fabio Volo pubblica un romanzo, nella bolla editoriale cresce l’agitazione. Da anni, come è uso in Italia, l’affaire Volo si è ridotto a tifoseria (metto la maglietta di Fabio nostro o vado nella curva avversaria per insultarlo?), ed è difficile leggere recensioni distaccate dal clima da stadio. Su Pangea Matteo Fais e Viviana Viviani hanno ben stroncato il nuovo romanzo, “Una gran voglia di vivere”, senza risparmiare ottime considerazioni sugli elementi culturali di un successo non solo commerciale. Per offrire una visione completa di un fenomeno non ignorabile (forzatamente?), mi è sembrato interessante impelagarmi in una analisi del testo di “Una gran voglia di vivere”. Perché è giusto che il testo puro, da solo, parli per l’autore.
La trama. Marco e Anna, entrambi architetti, vivono una crisi di coppia. Lui è molto preso dal lavoro, al contrario lei lo ha messo da parte da quando hanno avuto un figlio, Matteo. Rispetto ai primi tempi del rapporto, le differenze tra i due sono diventate pesanti; tuttavia la decisione di separarsi è difficile da prendere, considerate anche le conseguenze che ci sarebbero per Matteo. Per questo decidono di intraprendere un viaggio in Australia e in Nuova Zelanda, sperando così di risanare il loro legame. La storia è narrata da Marco. Il romanzo è una favoletta morale, durante la quale Marco e Anna incontrano persone che raccontano le loro vite, con crisi esistenziali e coniugali, fughe da lavori stressanti, fughe dalla città verso la natura e la conquista di ciò che hanno capito essere la vita vera. Al lettore potrebbe sembrare assurdo, alla lunga pesante, la facilità con la quale ognuno di questi personaggi sveli dettagli personali agli sconosciuti. Senza considerare che tutti discutono proprio delle tematiche che riguardano il protagonista. Potremmo accontentarci di definirla una esigenza narrativa colmata con molta pigrizia. Ci sono criticità più evidenti.
La struttura. La struttura è sciatta e lo stesso vedremo per lo stile. Non sempre è chiaro dove si trovino i personaggi. Gli spostamenti di narrazione tra passato e presente sono bruschi, talvolta confusi. Ci sono omissioni che definirei comodissime – l’autore fa di tutto per assecondare la pigrizia. Non mancano incongruenze logiche. Partiamo da queste ultime.
Marco racconta di quando ha conosciuto Anna. Era a una cena tra amici: “Gli uomini erano fuori, vicino alla griglia, con delle birre in mano a chiacchierare e ridere. Le donne, in cucina, preparavano insalate, tagliavano pomodori e mozzarella, stavano ai fornelli per fare la pasta”. Marco passa in cucina per un saluto e poi raggiunge gli uomini. “Mi hanno subito passato un bicchiere di vino rosso”. Bevono birra, ma offrono il vino? Strano.
Qui una svista grave, soprattutto per un editor: “le sarebbe piaciuto andare in Australia e Nuova Zelanda durante l’estate, quando qui da noi è inverno”. Partiranno a marzo.
Durante un’altra cena, narrata nel capitolo 9, Marco rivede una compagna di scuola.“Di fronte a me c’era Loredana. È sempre stata la ragazza più bella del gruppo, quella che tutti sognavamo e su cui facevamo fantasie. Era ancora una bella donna”. Dopo la cena, chiacchierano nel parcheggio. Sempre Marco: “Guardavo Loredana mentre parlavo, e c’era qualcosa in lei di diverso, attraente, che non riuscivo bene a spiegarmi, durante la cena non l’avevo notato”. Sembra il contrario.
Ancora incongruenza logica al capitolo 23. “Il colpo di grazia è stato quando mi ha detto che le sarebbe bastato anche solo un lungo abbraccio”. In realtà è dall’inizio che leggiamo di contatti fisici tra Marco e Anna, talvolta non intensi come le prime volte, ma che avvengono. Invece qui, improvvisamente, Anna si sta lamentando dell’assenza totale di contatti, non della loro sincerità.
Nel capitolo 16 Marco visita un albergo particolare. “Ogni materiale era organico, riciclato, non trattato chimicamente”. Mi permetto un inciso professorale: in natura tutto è chimica. Tornando a noi, stupisce leggere che un architetto, che sospettiamo essere esperto di design, possa definire un materiale riciclato come non trattato chimicamente. Ma torneremo presto sulla professione di Marco. Per ora ci concediamo una previsione ironica: trattandosi soprattutto di legno, se davvero il materiale non fosse trattato farei sgomberare la struttura.
Nel capitolo successivo Marco chiacchiera con una barista: “Una parte seguiva il dialogo con lei, rispondeva alle domande, cercava di dire cose interessanti e divertenti con l’intento di sembrare brillante”. Non viene riportata una sola battuta di questo dialogo dall’intento brillante. Scelta comoda per l’autore.
Riassumo una scena del capitolo 18, nella quale Anna convince Marco a comprarsi un cappello. L’acquisto viene effettuato controvoglia. Marco si sente ridicolo e lo ribadisce più di una volta. Ciò non gli impedisce successivamente di andarsene in giro con il copricapo della discordia. “Prima di uscire ho indossato il cappello nuovo. Nel tragitto, ho avuto la tentazione di togliermelo, avevo paura di sembrare ridicolo”. Né durante la scelta del cappello, né successivamente troviamo una minima descrizione. Non conosciamo il modello, neppure il colore. Perché il cappello è ridicolo? Ancora una pigrizia. Vero è che qualcosa all’immaginazione del lettore va sempre lasciato. Qui però siamo davanti al nulla.
Al capitolo 25 c’è un passaggio poco chiaro. I protagonisti entrano nel negozio di un artigiano. Marco sottolinea: “da sempre mani capaci mi affascinano, qualsiasi sia il lavoro che stanno facendo”. Con un ingiustificato e oscuro cambio di registro, mentre chiacchiera con l’artigiano Marco comincia a trovarlo ridicolo. E così pure Anna. Entrambi si trattengono dallo scoppiare a ridere. Cosa che faranno appena usciti.
“«La prima cosa che ho imparato è stato concedermi una semplice passeggiata, non per andare da qualche parte, ma per il piacere di farlo.» Anna mi ha guardato, non mi ha detto nulla, ma ho capito che si stava sforzando di non ridere. «Poi ho iniziato facendo piccole cose, cose apparentemente stupide.» «Di che tipo?» ho chiesto. «Una sedia.» Io e Anna non potevamo guardarci, ero sicuro che saremmo scoppiati”. Marco specifica: “Non diceva cose insensate, era il modo in cui lo faceva a rendere tutto ridicolo”. Quale sia il modo in cui parla, perché Marco e Anna stiano scoppiando dal ridere sono misteri che restano tali.
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Tocca dilungarmi sull’incongruenza del capitolo 31. L’ennesimo personaggio che descrive il proprio matrimonio finito ha una figlia. Marco ha una domanda importante da porgli: “«Vai d’accordo con tua figlia?» gli ho domandato. Volevo capire se fosse possibile mantenere un buon rapporto con i figli dopo la separazione, non avrei sopportato di mettere a rischio il futuro tra me e Matteo”. Il problema è che nei due capitoli precedenti si legge che le cose stanno migliorando, e di molto. Infatti nel capitolo 29: “C’era una buona energia quella sera, tutto girava bene, in modo naturale, senza fatica”. E il capitolo si conclude con con risate, scherzi e Anna che: “Mi ha messo una mano sul petto e mi ha spinto in camera”. Azione importante, in quanto era lei a rifiutarsi di fare sesso.
Il capitolo 30 invece è dedicato – seppure con superficialità – al rapporto tra Marco e Matteo. Rapporto che, sempre da ciò che narra Marco, si solidifica. Per questi motivi leggere nel capitolo 31 che l’idea della separazione sia tornata a essere concreta è davvero illogico. Prima del lieto fine – c’è da dire poco approfondito –, la coppia vive un periodo di separazione. Nel capitolo 36 seguiamo Marco che torna al paese natio. “La verità era che del paese non ricordavo quasi nulla, solo la stanza d’albergo in cui mio padre e mia madre ridevano complici”. Poi racconta di un episodio che si conclude con il padre che ride: “Era l’unica volta in cui avevo visto mio padre ridere”. Ma nel capitolo successivo: “Mi mancava ridere con lui, le poche volte in cui era accaduto”. Un padre che ha riso più volte davanti a Marco, il quale dichiara di averlo visto ridere un’unica volta.
Proseguiamo con piccole sciatterie. Capitolo 1, ripetizione inutile: “Ho fatto un lungo respiro e, per la prima volta, le ho detto la verità, le ho detto quello che sentivo veramente”. Capitolo 18: “Quando ero piccolo, per colazione mio nonno faceva un piccolo buco in un uovo e poi lo beveva. Alla fine mi dava il guscio vuoto. Anna ha fatto lo stesso con me, mi ha svuotato ed è rimasto solo il guscio”. Il ricordo del nonno è improvviso e senza seguito; inoltre non rinforza la similitudine del guscio, che per quanto scontata avrebbe fatto il suo anche senza introduzioni. (Tranquilli, torneremo sulle similitudini).
Nel capitolo 20 Marco conosce Elias, un ragazzo che viaggia con la bici e dorme in tenda. “Scriveva su un taccuino. Ho immaginato fosse il suo diario di bordo”. “Il suo diario” sarebbe stato sufficiente. Tanto più che Elias non naviga. Se mi si volesse tacciare di pignoleria, potrei rispondere che mi aspetto altrettanta pignoleria da un libro Mondadori.
Il capitolo 24 si apre con una descrizione paesaggistica imbarazzante. Ricordiamo che a descrivere è un architetto:“un paesaggio così perfetto da sembrare un dipinto: sulla sinistra un lago blu intenso, sulla destra una montagna che passava dal verde chiaro al marrone scuro. Il cielo era attraversato da nuvole bianche e gialle. Siamo rimasti a bocca aperta, senza parole”. Senza parole.
Il capitolo 25 si apre con una nozione enciclopedica: “Petricore è un termine coniato da due ricercatori australiani e indica il profumo della pioggia sulla terra quando ha appena smesso di cadere”. Bisogna considerare che il capitolo precedente si era concluso con un acquazzone. Tuttavia questa informazione, riportata con un notevole cambio di registro, non ha un seguito. Infatti continua: “Mi sono svegliato e sono uscito subito dal camper, fare la pipì all’aperto è una delle cose che più regalano un grande senso di libertà. Passeggiavo vicino al lago, tutto era tranquillo e silenzioso, sentivo il sole tiepido sul viso, sulle braccia, l’aria tersa, vivificante”. Nessun accenno al petricore.
Altro pleonasmo al cap 32: “vedere nell’altro quello che si vuole vedere”. Fine del capitolo 34: “«Ho un lavoro da fare qui» ho risposto ingoiando le lacrime”. Peccato che Marco non stia piangendo, lo farà dopo. Il lettore dovrebbe intendere “trattenere le lacrime”? Ancora: “I bambini vivono a una velocità diversa dalla nostra, muoiono ogni volta che vanno a dormire, e ogni mattina rinascono”. Non vedo l’esclusività dei bambini in questo. Tanto che la metafora, largamente inflazionata, è possibile leggerla in molti altri testi con riferimento a personaggi adulti.
Concludo gli esempi con un passaggio simbolo della sciatteria, che introduce in parte il discorso sul personaggio di Marco. Nel capitolo 13 Marco ricorda: “lì abbiamo fatto l’amore per la prima volta. È stato intenso e coinvolgente”. La narrazione si sposta subito altrove, e difficilmente posso credere che un lettore rimanga coinvolto leggendo questo comunicato stampa.
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Il lavoro di Marco. Sia chiaro: i personaggi non hanno spessore. I dialoghi non rivelano nulla. Le voci sono identiche tra loro. Qualcuno potrebbe obiettare che in un romanzo simile la bidimensionalità sia, addirittura, auspicabile. L’idea non mi convince. I personaggi di un romanzo risultano articolati e definiti se lo sono altrettanto le loro relazioni. Purtroppo queste ultime sono accennate. Non solo le relazioni con i personaggi secondari, ma la stessa relazione con Anna, che di conseguenza rimane impalpabile. E non parliamo del piccolo Matteo. Tale inconsistenza non risparmia Marco. All’inizio del romanzo leggiamo: “Quando Anna mi ha chiesto se la amavo ancora, ho capito che lo stava facendo in un modo diverso, voleva una risposta onesta. Non potevo risponderle come avevo sempre fatto. Sono rimasto in silenzio, dovevo decidere se essere sincero o dire una bugia che mi avrebbe permesso di rimandare ancora. Non ero sicuro di voler rendere ufficiale la nostra crisi. Se avessi dato una risposta vera, non avremmo più potuto far finta di niente”. Queste considerazioni rimarranno inalterate fino alla fine. Saranno ribadite con petulanza, con giri di parole che non hanno effetto diverso di un copia-incolla del paragrafo sopracitato. A causa di una evoluzione del personaggio inesistente, la decisione finale di rimanere insieme nasce senza cause decisive. Né da parte di Marco né, figuriamoci, di Anna. Giusto perché – ci risiamo – l’autore aveva deciso di chiudere il romanzo.
Ad avermi spiazzato è ciò che chiamo Il problema del lavoro di Marco. Sappiamo che è un architetto, che lavora in uno studio, si presume importante, certamente con professionisti di pari livello. Marco dichiara più volte di amare il lavoro e le sfide che comporta, di non poterne fare a meno, di dedicare tantissimo tempo della giornata ai progetti che gli vengono commissionati. Se tali dichiarazioni sono numerose, e mi pare inutile riportarle, purtroppo non abbiamo una sola scena nella quale Marco stia lavorando. Viene narrata una riunione nel capitolo 5, successivamente Marco incontra il capo in ufficio. Ma non sappiamo come Marco, nel concreto, trascorra le molte ore di lavoro giornaliero. Nel capitolo 6 Marco racconta di quando Anna, anche lei architetta, decise di non lavorare per stare con Matteo: “si era resa conto che rientrare a pieno regime non sarebbe stato così facile, […] lei non si sentiva di lasciarlo ad altri per dieci ore al giorno”. Volendo ipotizzare che anche Marco lavori dieci ore al giorno, mi tocca constatare che di queste non ne viene descritto un solo minuto. Tanto che è disorientante leggere al capitolo 7: “E quando era nato Matteo mi chiedeva di accompagnarla dal pediatra. Mi sembrava che spettasse a lei, al limite poteva domandarlo a sua madre. Mi stupiva che mi facesse quelle richieste, Anna conosceva bene il mio lavoro, sapeva quanto era difficile”. Anna lo sa. I lettori no.
Ultimo esempio. Nel capitolo 14 Marco descrive un hotel design nel quale aveva portato Anna. “Conoscevo lo studio che l’aveva realizzato e avevo il sospetto che avrei visto cose che mi avrebbero infastidito. Non mi sbagliavo, non era bastata la vasca in mezzo alla stanza, l’architetto aveva pensato fosse una bella idea non mettere la porta al bagno, nascondendo il water dietro un muretto. Ho dovuto usare sempre i servizi vicino alla sala colazioni”. Per quanto sia dubbioso, un insolito ottimismo mi spinge a credere che un architetto esperto capisca quale sia il problema. Sembra un tentativo di dare solidità alle conoscenze del personaggio. Tentativo fallito.
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Similitudini. Ammetto che un discorso sulle aspettative potrebbe rendere poco efficace questa parte dell’analisi. Vorrei però ricordare che Fabio Volo non ha mai risparmiato lamentele per il fatto che non venga considerato nei premi letterari importanti. Mia modesta opinione è che una aspirazione del genere dovrebbe portare uno scrittore a evitare di scrivere come chiunque – sì, in alcuni casi mi arrendo all’idealismo. Prima di riportare alcune similitudini scontate, confesso di avere provato a contare quante volte appaia nel romanzo la parola come. Parola che non sempre introduce un paragone o una similitudine, questo è chiaro. Ma intanto in un volume di 216 pagine ho trovato la parola come più di 150 volte.
Per amore di precisione: ho smesso di contare non ricordo dove, ma sospetto possa superare le 200. Stavolta perdonate la mia, di pigrizia. Per rifarmi dichiaro di avere contato una parolina da tenere sempre d’occhio: tutto. 142 volte. E un’altra che mi ha sorpreso ritrovare così spesso, tanto da inserirla nei conteggi: momento. 45 volte.
Ora una lista delle similitudini più scontate:
“come se in quel buio stessi precipitando”
“sarebbe volata via come un palloncino a una festa di paese”
“mi sono ritrovato a vivere in una distanza densa, come una gelatina”
“come se per la prima volta ci trovassimo su due barche diverse e ognuno andasse al largo sulla propria”
“come se qualcosa dentro di me avesse preso la parola”
“Il cuore mi si è sciolto come burro”
“Le sue parole continuavano a girarmi in testa, come se avessero fatto scattare un cortocircuito”
“sembrava sereno come un lago”
“come se fossi un condannato a morte in attesa della sedia elettrica”
“ho sentito come se qualcuno mi stesse strappando il cuore dal petto”
“mi sentivo solo come un cane”
“Giravo come un animale in gabbia”
Mi ha colpito la seguente: “Come un uccello che vola e che non si cura dei muretti e delle staccionate”. Perché dovrebbe?
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Triplette e anche di più. A rendere la lettura pesante è uno stilema che, per esperienza personale, ho riscontrato spesso in chi è alle prime armi. Posto che rifuggo le ortodossie, le triplette di Fabio Volo sono innumerevoli e ridondanti, in alcuni casi a poca distanza l’una dall’altra. Eccone alcune:
“C’era stato più trasporto, più forza, più passione”
“Ho avuto la sensazione che tra me e lei fosse finito un modo di stare insieme, una bugia sospesa, la nostra storia”
“Era una creatura rara, preziosa, sospesa”
“Amo seguire qualcuno quando ha una visione chiara, innovativa, coraggiosa”
“Un uomo intelligente, pacato, maturo avrebbe ingoiato il boccone”
“Il lavoro è fatto di disciplina, di mestiere, di regole”
“Ero uno spirito libero, rispettoso degli altri, dei loro spazi, delle loro necessità”
“alla fine si era spento tutto, l’amore per lei, l’amore per altre cose, l’amore per me stesso”
“Era difficile accettarlo, mi sembrava stupido, ingiusto, sbagliato, addirittura scorretto.” (Qui addirittura quattro! NdA)
“non ci sarebbero più state cose eccitanti, nuove, avventurose”
“Ero preso dalle mie paure, dai miei dubbi, dai miei inspiegabili umori.”
“Per uscire da quella crisi servivano forza, energia, volontà”
“ma certo sembrava ringiovanito, più sorridente, più pieno di energia.”
“Tutto era delicato, silenzioso, rilassante”
“mi desse un’aria più matura, più profonda, più intelligente”
“quando viaggio mi sento acceso, vivo, pieno di energia”
“aggravavo la situazione con nuove proiezioni, supposizioni, scenari”
“La calma, l’ordine, l’assenza di confusione mi destabilizzavano”
“la mia mente aveva smesso di tormentarmi con mille supposizioni, congetture, proiezioni, paure” (di nuovo quattro! NdA)
“la mia vita era diventata sbrigativa, veloce, superficiale”
“Non avevo bisogno di più cose, più relazioni, più persone”
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Conclusioni. Una caratteristica nominata spesso riguardo i romanzi di Fabio Volo, e letta anche per “Una gran voglia di vivere”, è la scorrevolezza. Dato che da questa piccola analisi sono emersi problemi su più piani e diffusi, e dato che ho letto romanzi scorrevolissimi scritti meglio; verrebbe da chiedersi se un romanzo scritto malissimo possa comunque risultare scorrevole. Se tutti i romanzi scritti male siano scorrevoli, oppure se ci sono romanzi scritti male scorrevoli e romanzi scritti male non scorrevoli, e a questo punto perché. Ho un sospetto sul perché “Una gran voglia di vivere” possa essere definito scorrevole, e nasce proprio dalle criticità viste finora. Un romanzo con personaggi abbozzati, con un narratore interno alla storia che presenta una situazione uguale a se stessa in ogni capitolo, dove le differenze tra ambienti anche distanti non sono notevoli, né il tempo della storia è ben definito, è un romanzo che si può leggere saltando continuamente le pagine. Il rischio di perdersi passaggi importanti è nullo. Forse è questo il grande segreto di un romanzo scorrevole. Al di là di come sia scritto.
Marco Parlato