Le date contano. Nel 1912 Rabindranath Tagore aveva 51 anni, Yeats poco meno (47) e Pound, beh, Pound ne aveva 27. Chi solletica la storia e cerca le corrispondenze precise, gli incoraggiamenti onesti, le stroncature corrette, non legga mai Pound giovane. Perché nel giro di un anno passò dal lanciare lo stimolo per il Nobel a Tagore al diretto rifiuto del poeta e scrittore.
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Cosa spinse Pound ad agghindare Tagore? Sicuramente una febbre contratta per il freddo della giuria di Stoccolma, che nel 1912 aveva premiato uno scrittore (e tedesco: Hauptmann). E nel 1911 aveva onorato sempre uno scrittore di quelli tra la smorfia snob e l’alchimia: Maurice Maeterlinck. Di questo passo, avrà pensato Pound, rischiamo di lasciare la giuria di Stoccolma nel bozzolo romanzesco. Meglio una ventata di aria pulita: se viene da lontano, meglio ancora.
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Pound incontra e ascolta Tagore per la prima volta a Londra, insieme a Yeats, ad Hampstead, il covo della letteratura poco a sopra il Museo delle Cere – prima che Woolf, Strachey, Fry spostassero la flotta più sotto, verso Bloomsbury. Ma insomma, la scintilla scoccava un giorno di inizio luglio del 1912 e Pound scriveva poco dopo all’editrice di Poetry, Miss Moore: “Questo è LO SCOOP. Tieni dello spazio nel prossimo numero per Tagore. Il quale ha trasformato in canzone la sua nazione, il Bengala, e la versione inglese delle sue poesie è meravigliosa: Yeats sta scrivendo un’introduzione, e noi DOBBIAMO trattenere il copyright per gli States. L’ho pensato in queste scorse settimane che lui sarà l’evento dell’inverno. Yeats me lo ha presentato come ‘qualcuno più grande di tutti noi insieme, uno del quale ho letto poche cose e dopo mi sono chiesto perché si debba continuare a scrivere’. Tagore è la vera febbre scoppiata nella cerchia letteraria da quando sono qui a Londra. E noi di Poetry abbiamo almeno sei poesie sue; e mai altri ce le soffieranno”. Piglio battagliero, Pound era già allora il jeffersoniano che non vuole la fine dell’Europa e perciò, una volta assestato il Nobel a Tagore reputa che si può continuare, meglio non perdersi in ciance, l’aria è greve sull’Europa.
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Il problema con Pound è che lo si tratta come un damerino e lo si strapazza, anziché sentirne la voce poderosa. Proviamo a farlo qui traducendo l’attacco del suo saggio su Tagore, sempre su Poetry, del dicembre 1912: “La comparsa delle Poesie di Rabindranath Tagore è, se mi fermo a pensarci, davvero importante. In nessun modo sono certo di saper convincere il lettore di questa loro importanza. Come prova debbo rimandare il lettore ai testi di Tagore, da leggersi tranquillamente e possibilmente a voce alta perché ad un primo sguardo la loro traduzione in inglese è stata condotta da un grande musicista, uno che convive con la musica, musica più fine della nostra. Meno di un mese fa mi ritrovavo nelle stanze di Yeats, uno Yeats tutto esaltato per la comparsa rapida di un grande poeta che, mi diceva, era ‘più grande di tutti noi messi assieme’. Difficile a questo punto scegliere da dove partire a spiegare la vicenda. Mr Tagore è anche lui grande poeta e musicista. Ha composto per il Bengala qualcosa come l’equivalente della Marsigliese, posto che il paragone sia sensato. Ho sentito eseguire il suo Bengala dorato ed è cosa realmente orientale, eppure ha un grosso potere, potere di muovere le masse, del genere ‘minore’ e soggettivo, ma con i crismi necessari all’azione. Perché il Bengala è nazione di cinquanta milioni di abitanti, e a un rapido sguardo sembra che la sua superficie sia da invadere con fonografi e ferrovie: ma dietro questa immagine sopravvive una cultura che non è azzardato paragonare a quella provenzale del dodicesimo secolo. Sia detto di passaggio, per mostrare che Tagore ha cantato tre argomenti che Dante riteneva degni di essere cantati nel modo più nobile – amore, guerra, santità. E l’ulteriore legame del Bengala col Medioevo è che Tagore insegna le sue canzoni in musica ai suoi acrobati i quali poi attraversano il Bengala. Tagore può vantare il meglio dei trovatori: ‘Ho composto parole e note per loro’. E poi canta anche lui, l’ho sentito personalmente”.
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Così, giusto per evidenziare che non sapeva imbonire e lucidare stivali al passante lirico di turno, ecco come si chiude la premessa di Pound al testo completo che leggete qui in originale: “Quanto alla forma, le sue poesie stanno tra la canzone provenzale e le carole e le ‘odi’ delle Pleiadi. Diversi gli accordi di ritmo, hanno rime di quattro sillabe, di una specie che va oltre il ‘leonino’. Il loro metro si può paragonare al più recente sviluppo del verso libero invece che ad altre invenzioni dell’Occidente. Per linguaggio, siamo direttamente nella discendenza sanscrita, suona greco più di tutto il resto. Lingua pieghevole, facile alle rime. Puoi unire tra loro le parole come fai col greco o col tedesco; lo stesso Mr Tagore mi diceva che quasi ogni poesia consente nuove combinazioni di parole. Scrivo queste cose per mostrare come sia questo il linguaggio sognato dai poeti, fluido, e con un ordine flessibile a consentire precisione. Perciò, puoi fare inversioni in un linguaggio flessibile e questo non scatena confusioni quanto al significato che veicoli”.
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Ma di nuovo, contano le date – poi va bene, l’altitudine morale dei professori togati e puritani sconforta anche chi si attenga alle date, se leggiamo geremiadi astoriche con piglio retorico come questa che fu la prima nel 1964 a documentare la vicenda Pound-Tagore.
Sia come sia: date alla mano, il Nobel per la letteratura fu assegnato a Tagore a fine 1913, mentre il giudizio di Pound è di due stagioni prima: già ad aprile aveva scritto alla solita Moore che “sarà molto difficile per i difensori di Tagore a Londra stampare altre cose sue che non siano quelle migliori. Poi, come maestro di religione, Tagore ci è superfluo. La sua ‘filosofia’ non insegna nulla a uomini che abbiano già ‘sentito i morsi’ dell’Occidente, uomini che siano già stati messi in croce dalla civiltà che abbiamo a Occidente. Quindi finché Tagore si tiene attaccato alle sue poesie lo si può difendere su basi stilistiche contro chi lo attacca perché porta avanti altri contenuti. Nei fatti, nel suo linguaggio bengalese originale, detiene la novità di rima ritmo ed espressione – ma in prosa la traduzione mette solo un altro tassello in più alla teosofia”.
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Ecco il patema. Un grande poeta può avere i suoi vezzi religiosi e segreti come Yeats, studiare il moto delle stelle sulla cima di una scogliera irlandese, e magari (comprensibilmente) se è bengalese lo si può lasciare in pace sul fiore di loto col suo sorriso di Buddha – ma la storia è altra cosa, una macina che preme e stringe all’assurdo gli uomini: prosegue così Pound nella lettera di aprile: “dopo quel boom intelligentissimo del nostro momento, dopo il ‘fiat’ dei letterati onnipotenti per distinzione, Tagore è un relapso, ha peccato ed è ricaduto nella religione nell’ottimismo ed è stato gonfiato dai non-conformisti pii”.
Andrea Bianchi