Non se ne parla, il suo nome sigilla con catena doppia ciò che è passato. Nonostante la doppia ricorrenza rotonda – 110 anni dalla nascita e 25 dalla morte – non sento risuonare ovunque il nome di Eugène Ionesco. Forse non va più neanche in scena. Eppure, se vogliamo stare in tema, quest’anno sono anche i 60 anni da Il rinoceronte, che è, insomma, l’opera emblematica, insieme al ‘Godot’ di Beckett, del secondo Novecento. Devo dire che neppure editorialmente di Ionesco c’è più molto, in Italia: i volumi Einaudi del Teatro completo risalgono al 1997, poi chi si è visto si è visto, anzi, chi l’ha più visto? Come se ci fossimo stancati di pensare.
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Ionesco, infatti, quando la Romania era il cuore dell’inquietudine, il diamante nero dell’Europa, un cristallo, è uno che pensa, che solleva l’ultima scaglia di contraddizione che sta nell’uomo, è uno che va a fondo, per questo è insopportabile. Certo, è strano. L’uomo ustionato dalla sorda assurdità dell’esistere, avo al vigore del nulla – negli anni della Seconda guerra lavorò all’ambasciata rumena sotto Vichy – divenne accademico di Francia e osannato da mezzo mondo. Ora è roba assurda, nell’assuefazione al noto, pure lui.
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In una intervista televisiva del 20 luglio 1990, rilasciata a Gabriel Liiceanu, Ionesco spiega molto di sé parlando di Cioran. Dopo aver rodato i suoi rovelli biblici (“Nasciamo, cresciamo in forza, in bellezza, e a poco a poco arriva il crollo ed eccoci tutti zoppi, brutti, fragili… come è possibile questo, come è permesso e perché?”), medita sull’amico. “Cioran ha la fortuna di avere qualcosa che lo tranquillizza, lo rappacifica, ed è la bellezza del suo stile. Il mio stile non è bello e non mi è di alcun aiuto. Mi ripeto con orrore che morirò. Mi ripeto, con infinita angoscia, che mia figlia, mia moglie moriranno, e senza scampo: si può fare qualsiasi cosa, ma non c’è scampo. Allora mi rivolgo non certo a Dio, ma a Gesù Cristo che è mio fratello e, quindi, più vicino a me. È Lui che invoco, è Lui che interrogo, però nemmeno Lui mi risponde”. Dopo una corretta osservazione stilistica sull’opera di Cioran – “ha letto molto più di me… in tutti i libri di Cioran si ritrova qualcosa dei testi gnostici del III secolo dopo Cristo” – Ionesco mette in dubbio la sincerità dell’amico: “Non credo che Cioran sia sincero del tutto… è mio amico, parliamo spesso, ma non credo nella sua totale sincerità”. L’intervistatore arguisce, “Sembrerebbe un’angoscia più artificiale, più finta”. Ionesco ammette, “Sì, grazie alla pratica stilistica”. Eppure, l’angoscia ‘con stile’ fanno di Cioran il più presente, urtante, abbagliante dei filosofi oggi.
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Dalla discarica dell’oblio c’è un libro fondamentale di Ionesco. Un libro in cui la tensione di Cioran, in qualche modo, trapassa nel verbo più docile, meno caustico, di Ionesco. Il libro s’intitola L’assurdo e la speranza, è pubblicato nel 1994 da Guaraldi, raccoglie le testimonianze ultime del grande drammaturgo rumeno: frammenti, aforismi, confessioni, dal 1987, non intese alla pubblicazione, dunque, pezzi di palpebra, archi di muscolo, ginocchia; poi l’ultima intervista e gli ultimi articoli, pubblicati su Le Figaro. Negli articoli, con disarmata lucidità, Ionesco parla della vecchiaia. “Sono infuriato. Me l’aspettavo. O forse non me l’aspettavo nemmeno. Mi aspettavo di avere i capelli bianchi, un bastone che mi aiutasse a camminare, ma non mi aspettavo e non mi aspetto tuttora un possibile cedimento intellettuale”. Parla, con spregiudicato candore dell’unica cosa di cui occorre parlare, della vita, della morte. “Si nasce per morire, si muore per essere. Il paradiso, il luogo in cui non esiste la morte: il luogo in cui tutto è essere, vita eterna in cui tutto è. Qui, per andare verso la fine. Si nasce, si cresce, si vive, tutta la natura vive e precipita incredibilmente verso la morte, verso ciò che non esiste più… Si dice, d’altronde, che tutto ha una fine. È il contrario, si muore per nascere… L’agonia: dolore della nascita?”.
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“Ecco la cosa più importante che ho fatto nella vita: invecchiare”, questa è l’ultima parola pubblica di Ionesco, in un articolo dal titolo emblematico, Il mio passato si è allontanato da me. Che maestria nel niente, che sfoggio di sfoghi. Apparsa su un quotidiano – sotto gli occhi di decine di migliaia di francesi. Nei bar, in coda, per strada, nel salotto.
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Ecco un florilegio di pensieri di Ionesco, a cui ogni tanto mi riparo, li trovo corroboranti:
“Ma non è di questo che si tratta, è l’esistenza, tutto ciò che è, che esiste, che è esistito (da così tanto tempo esistito): è inaudito, inaudito, inaudito. Il mondo, il non mondo, l’altro mondo immenso, enrome stranezza, calamità!”
“La strada verso Dio è sicuramente semplice e diritta. Bisogna saperlo. Bisogna saper dimenticare le parole. Io, però, volto le spalle a Dio, lo cerco nei miei smarrimenti, attraverso le parole, attraverso un guazzabuglio di… È nel mio cuore, ho scordato perfino la strada del cuore. Per arrivare a Dio, bisogna dimenticare tutto, dimenticare anche che lo si sta cercando? Non si deve parlare, non si deve parlarne e io non faccio altro che questo. Bisogna parlare di traverso”
“Dico a mia moglie: Non poter camminare, avere il male addosso, mi rende la vita ripugnante. Non ne capisco più il senso né la necessità. Per quale ragione posso vivere? Rodica mi risponde: Ma per amarmi. Una parola sola e tutto nel mio animo cambia, vado a riscoprire il senso della vita: l’amore. All’improvviso capisco ciò che avevo dimenticato: la vita è fatta per amare, ecco il suo vero significato”
“Non so né come né perché, ma mi sento prendere da una specie di folle gioia. Attraverso la tristezza, questa gioia luminosa… Ma di notte queste gioie non ci sono. Dopo aver recitato la mia preghiera a un probabile Dio ricado nell’angoscia, nella paura della fine, i dolori e l’angoscia, ancora l’angoscia. Le mie notti sono atroci… Le mie notti sono interminabili e spaventose”
“Non so dire se siamo o meno alla fine dei tempi. Il fatto è che tutta la storia è apocalittica… A me pare proprio di essere alla fine dei tempi. Secondo San Giovanni, l’Apocalisse può arrivare anche oggi o domani, molto presto insomma. Nell’attesa faccio esercizi di flessione e cammino con il mio fisioterapista. Oggi è andata abbastanza bene”
“Mi ero ripromesso di scrivere alcune cose, ma ho già dimenticato quel che avrei voluto dire”
“Come è sempre stato, anche se ora mi sembra un po’ di più, questo sguardo su di me, sugli altri, sul mondo, sul cielo, stellato, per miliardi e miliardi di volte: ‘cos’è, cos’è, cos’è questo?’. Il mondo mi appare ancora irreale, tranne quando soffro… Da ogni parte la domanda, la domanda, l’interrogativo senza possibile risposta mi assilla da ogni parte… La gente si abitua all’incomprensibile, io non riesco ad abituarmi da anni e anni, dai lunghi, numerosi secoli che ho vissuto”
“Sono nato da tanto, tanto tempo. Sono nato da così poco, così poco tempo. Come ho detto, ho vissuto innumerevoli epoche e non le ho vissute. E ho dimenticato tante cose. C’è un significato?, si domandano i filosofi. C’è un significato?, mi chiedo, a mia volta. Soffro per essere stato punito? Comunque sia, niente, niente di buono nella mia vita”
“Il leone o la tigre che saltano nel cerchio di fuoco, si chiedono qual è il significato della vita?”
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Mi guardo il viso, per capire se ho nitore di tigre, ma forse è la Romania, il cerchio di fuoco, l’accerchiamento. (d.b.)