27 Maggio 2022

“Scrivo per non dissolvermi del tutto”. Eugène Dabit, l’angelo del massacro amato da Céline

Doveva essere una creatura arcangelica, era uno di quelli che, rari, con fare felpato, felino, determinano un’era. Non so perché ma quando penso a Eugène Dabit mi viene in mente un gesto bianco, di assoluta grazia: il tizio, anonimo, che durante i bombardamenti tutela tra bende un Crocefisso, in posa orizzontale – ma non meno svettante. A guardarlo, pare la creatura dai troppi cuori, con le ali in censura, che ci rammenta il compito dell’assolvere e del compatire. Fu destinatario, Dabit, di due libri diversamente atroci, di due autori diversissimi, prometeici. André Gide dedicò a Dabit il suo carnet dall’Unione Sovietica, stampato da Gallimard nel novembre del 1936, “non è possibile immaginare uomo più degno di essere amato”, diceva, dicendo di lui. A Dabit, invece, Louis-Ferdinand Céline dedica Bagatelles pour un massacre, stampato da Denoël alla fine del 1937.

Si conoscevano da tempo, Dabit e Céline: a Céline piaceva l’abulia di quel ragazzo, il grigio rigore della sua prosa, il desiderio di dire la vita senza paramenti, sobria, triviale, selvaggia. Dabit aveva fatto di tutto – dal lavapiatti al portiere di notte – cioè quasi nulla: nato l’ultimo giorno d’estate del 1898, sulle scogliere di Mers-les-Bains, è sconvolto dalle lacerazioni della Prima guerra; anima ipersensibile, che dell’esistere succhia il miele e il fiele, tenta il suicidio, opta per il sonnambulismo dei santi. Amava Cézanne e Van Gogh, si fa ispirare da Rimbaud e Stendhal, adorava Gide, che diverrà il suo ‘padrino’. Negli anni Venti lavora all’Hôtel du Nord, preso in affitto dai genitori, in quai de Jemmapes, luogo di papponi e di agenti di commerci, di fuggiaschi e di prostitute, di artisti in disarmo e di attori sfamati da briciole di fama, di stranieri e di estranei, di straniati. Dabit lavora in sala, fa servizio di notte, spia le vite degli altri in quel luogo di passaggio, di passioni prime: l’hotel del Nord è una specie di Chelsea Hotel, luogo del surreale quotidiano, dove l’eccentrico è in un cassetto e ogni cosa è possibile. Da quell’esperienza trae un romanzo, L’Hôtel du Nord, appunto, edito da Denoël nel 1929 (tradotto da Guanda nel 1941, è riapparso da Garzanti nel 2002, per poi sparire), a suo modo leggendario, premiato con il Prix du Roman populiste (che abbia avuto forma un premio per il roman populiste, ottenuto, tra l’altro, negli anni, anche da Sartre, ci dà il peso di un’epoca).

Céline frequentava l’Hôtel du Nord, apprezzava i romanzi di Dabit, capaci di azzeccare un tono, di intuire un ritmo, rispetto alla bibliografia dei papaveri letterari. Tra tutti, preferiva Villa Oasis (edito da Gallimard nel 1932); aveva delle riserve su La Zone Verte (Gallimard, 1935): “Sapete che sono parziale, cioè cattivo… Ho qualche rimprovero e alcune resistenze… Mi seduce, certo… Ma sarebbe stato meglio restare in quella vostra musica… proteggete il vostro animo, altrimenti la lingua sarà straniera pure per gli stranieri” (il carteggio tra Céline e Dabit è pubblicato in edizioni di pregio: nel 1979 dalle Éditions de la Grange-aux-Belles, come Huit lettres à Eugène Dabit, e nel 1996 da Du Lérot come Douze lettres à Eugène Dabit).

Nel 1924 aveva sposato Béatrice Appia, la pittrice svizzera, ma la sua vita era costellata di muse. No, Dabit non aveva il profilo del donnaiolo: semplicemente, voleva sfracellarsi nell’istante, vivere di puro intuito, giocarsi tutto per un bacio. Grazie agli auspici di Gide, nel 1936 cominciò un lungo viaggio in Unione Sovietica: ciò che ci resta di quel vagabondaggio, il micidiale Journal intime (edito da Gallimard nel ’39), di cui si traducono qui alcune righe, è il referto di un’anima in pena, in piena, di un angelo al giogo, del tutto disancorato dalla politica del tempo; eppure, la continua allusione alla guerra, alla distruzione, donano a queste pagine valore di preveggenza, il cupo carisma del profeta. Ci sono uomini che in sé soffrono i dilemmi di una civiltà intera. Dabit morì in viaggio, il 21 agosto del 1936 a Sebastopoli, falciato dal tifo, pare; Gide, che era con lui, restò pietrificato dal dolore, Louis Aragon insinuò i sospetti di un avvelenamento. La purezza di Dabit divenne agiografica. “Fatemi un cenno, vorrei vedervi… Ho finito Zone… Ammirevole…”, gli scrive Céline. La lettera non arrivò mai. Accompagnò le spoglie dell’amico al Père-Lachaise, non gli restava che scrivere alla vedova, “Ho pensato spesso a voi… passerò per pranzo, la prossima settimana… con molto affetto, Céline”.

In realtà, Dabit era posseduto dal demone dell’arte. Esponeva con Modigliani, Utrillo, Soutine. Non raccoglieva – è ovvio – il pubblico sperato. In un autoritratto – da Trecento nordico – si vede livido, tumefatto, lo sguardo indifeso, per questo così schiacciante, bello, fiero.    

***

Diario intimo. Viaggio in URSS

20 giugno 1936

Ancora indugio nella mania. Trascino la vita, traino il passato. Non voglio scrivere. Il nulla. Il viaggio per porre fine a questo stato statico. Non è chiara la fine, per altro. Tutto crolla, tranne il senso della vita e dell’opera. Quanto ad amore, gloria, bellezza, giovinezza: tutto è cenere! A cosa mi aggrappo, dunque? Che vita farò domani? Il domani mi pare impossibile. Eppure, la vita è un credo. E la desidero.

*

25 giugno

Secondo giorno a Londra. Afa, sfinimento, vertigini. Moltitudine. Ebetudine. Donne. A volte mi pare che potrei vivere in questa città mostruosa; altre mi assale l’angoscia, coagulo di disgusto e di noia, disperazione, istinto del fuggiasco.

Cosa mi attende? Cosa attende tutti? Dovremo sostare nel presente, ma come non gettarsi nel fuoco del futuro? Voglio vivere. Voglio scrivere un romanzo, mi ci devo inabissare: è passato troppo tempo dall’ultima opera. Sarà il prossimo inverno?

*

30 giugno, tra Kiel e Leningrado

Sono felice – la bellezza dei giorni – il mare, pago. Tuttavia: insoddisfatto, teso, sono così banale, tutto qui, insensibile e lucido.

Specie di caccia alla donna in nave… vi partecipo? A mio modo, sfiduciato, senza gusto, privo di desideri: implacabile voglia di vivere, ma dove fare razzia della vita?

Questo viaggio è la soluzione?

Non voglio pensarci. Potrebbe essere soltanto una gita, pur fitta di scoperte. Che sia in viaggio, che sia a Parigi, la vita, come olio, fluisce tra le dita, sibila.

Consapevole della mia felicità: mi inchino al cospetto del mio personaggio, pieno di ansie, di turbe; interpreto il tipo avido, terrorizzato, incendiato, timido. Mi conosco bene. La mia voce non sempre ha un’eco.

*

9 luglio. Mosca

La vita che percorriamo è trepidante, movimentata, sorprendente, senza cura né coerenza, e di rado scrivo. Non ne sento il gusto: la vita scassina ogni intenzione, non ho tempo, siamo in giro, impieghiamo le attese. Così i giorni passano. Su Leningrado, per dire, non ho scritto un rigo: ricorderò? Dovrei ricordare qualcosa? Cene, visite ufficiali, gite informali. Poca fatica perché il mondo è nuovo, qui.

Non capisco nulla della lingua. Posso solo guardare e guardare. Contemplare. Sorprendermi. Ricchezze che si accumulano per forgiare la mia vita segreta.

Isole, campi, la Neva, una parata, sentore di “rivoluzione permanente”, lo splendore di certe architetture, la strada, la vita: tutto è un insieme assai complesso.

Arrivo a Mosca durante la processione sulla Piazza Rossa: migliaia di uomini e donne, gioventù, gioia apparente, salute: esilarante e terribile al tempo stesso. Visita al mausoleo di Lenin: il suo viso, le sue mani.

Cos’altro? Strade, negozi, masse. Un po’ di Oriente, un po’ d’Africa. La casa natale di Dostoevskij. Appartamento: sei camere e cucina… Sera d’estate, cultura al parco.

Che conservi molti o pochi ricordi è lo stesso. Sopraffatto, invaso da tutta questa vita che mi si schianta addosso. Ogni viaggio è così. Assente e presente, desto e sonnambulo. Voglia di solitudine, ferita aperta della solitudine. Famelico di chissà quali avventure…

Le donne sono la vita, attraverso di loro ricevo la vita. Un’audacia fragile mi ha fatto conoscere M. Non è bella, è affascinante: così piena di vita, vorrei darle calore e gioia. Un ricordo gravido di luci. Non la rivedrò più? La vita mi attrae e mi disintegra, mi assale e mi stanca. Scrivo per non dissolvermi del tutto. Cosa devo scrivere? La dolce notte appena passata sulla Moscova…

*

16 luglio. Tiflis

Riconoscente a Gide per il viaggio. Il viaggio illumina su se stessi. Permette di avvicinarsi alla creatura.

A Tiflis, delusione. Palazzi banali, viali vetrificati dalla noia, folla incolore. Fossi a Fez, a Marrakech… Della Spagna conservo il ricordo. Ci vuole un viaggio del genere per farmi amare con più coerenza ciò che amo. La libertà, la solitudine. Una donna accanto a me.

*

12 agosto. Soči 

Dovevamo arrivare a Sebastopoli: non sto bene – coliche, indigestione, febbre – e partiremo questa sera. Voglio lasciare Soči, mi annoia, sogno Sebastopoli. Il viaggio non mi fa dimenticare che sono in Unione Sovietica, che su di noi aleggia un temporale. Ogni anno la minaccia si precisa, diventa familiare. Presto sarà l’inizio dell’orrore e del caos. Ho vissuto un simile orrore nel 1914-18. Mi basta. Non ho mai smesso di oppormi a quel passato, perché tutta la mia vita ne è stata segnata, sigillata, avvelenata. E il futuro, il futuro prossimo, ha lo stesso stigma. Non ho voglia né la forza per vivere questo futuro. Eppure, la corrente mi trascinerà su una riva grave di morte. Le mie proteste, il mio rifiuto, tutto è vano. Vana la scrittura. Eppure, estremo rifugio, ultima possibilità per prepararsi alla morte, combattere il caos.

Non credo al verbo, non credo a nulla, non credo neanche che Dabit sia vivo. Sono separato dai pochi esseri che mi tengono in vita. Quasi nulla, in questo istante che mi risucchia, ha apparenza di realtà. Non è questo il principio del grande caos? Non l’ho forse già immaginato? Spagna, Grecia, Europa sono i teatri del caos.

Siamo braccati, siamo razzolati, razziati. La vita, così, è invivibile. Vorrei sbagliarmi, vorrei dirmi ubriaco. Ma sono lucido, e questa lucidità mi dona una indifferenza letale. Sono staccato da tutto. Non credo nell’arte, nella gloria, nell’eroismo: le parole sono tutte inermi. Eppure, il cuore arde d’amore. Non posso rassegnarmi: questo mondo è crudele, disfatto, stupido, ordine e felicità non esisteranno più.

Avrei voluto vivere. Amo la vita, amo cantarla, intonare un inno alla gioia e alla tristezza. Tra poche settimane compirò trentotto anni, ho piena coscienza di me. Soltanto a noi stessi dobbiamo rivolgere le preghiere. Tenere gli occhi fissi sul mondo, e goderne. Eppure: tutto è stato riscosso, non c’è riscossa.

Spesso mi sdraio sul letto, fisso il soffitto, mi concentro su un ricordo, un evento specifico della mia vita. Presto, in massa, altri pensieri arrivano e scacciano il primo. Sogno a occhi aperti. Non riesco a dare una logica ai pensieri. Comune e banale. Scoraggiante. Solo se scrivo non cedo, lotto.

Impossibile scriverne perché i miei pensieri, la mia vita hanno troppi trabocchetti, troppe deviazioni. Niente si presenta così com’è: franco, nudo, tutto. Niente per me è verità assoluta. Tranne la mia verità. (Ma come illuminarla, ecco il dramma).  

Eugène Dabit

Gruppo MAGOG