“Ho una cena con la famiglia Scola”.
Sono a Roma per preparare il mio concorso all’Ecole Française de Rome. Lavoro da qualche giorno incollata alla scrivania, quando mio fratello entra nella stanza e mi parla di una cena con la sua recente passione: Ettore Scola. È da qualche mese che al nome Scola i suoi occhi brillano di lusingata fierezza: è nato un legame forte fra loro. Me ne parla incantato. Scola ha tutto per piacergli: grandezza e immmensità coniugate con umiltà, attenzione, curiosità e una generosità disinteressata e irriverente. Un mix fatale e ineludibile per come è fatto lui.
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“Ho una cena con la famiglia Scola… ti va di venire con me?”. Lo guardo con la testa ancora alla Collezione Mattei di Palazzo Altemps. Rifletto velocemente. Non mi sono mai piaciute le cose mondane. Non so mai dove mettere le mani e la gente ascolta solo l’eco della propria voce. “Non so… ma è una festa?”, “No, è una cena. C’è anche la sua famiglia…”, insiste. Lo guardo incerta. Esito, cosa che non sopporta mai quando pensa che la proposta sia interessante. “Vabbé, io ora esco. È per le 20h, se vuoi venire passo a prenderti alle 19h30. Andremo in moto”. Taglia corto. Bene, penso, ho tutto il tempo per riflettere.
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La cosa pare surreale. Ettore Scola. Il nome è talmente altisonante da paralizzare. Mi vengono in mente tutti i suoi bei film; a ben pensarci ognuno di noi ne ha uno preferito. Ripenso a Il Viaggio di Capitan Fracassa che tanto mi stravolse quando uscì (alcune delle scene non mi hanno più abbandonato). Andareacenaconettorescola, la cosa suona fin troppo bene ma è di quelle che possono rivelarsi di una fatuità indicibile. E poi le persone famose hanno spesso la tendenza (assolutamente legittima) a parlare solo di sé e io, privata di dialogo, non so più che fare della mia esiguità. In ogni caso mi rimetto a studiare i restauri barocchi della bella collezione di statue romane imperiali.
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Rientrato a casa il fratellino è nervoso e teso come una corda di violino. È tardi. Sono le 19h45. Per evitare che si metta ancora più in collera mi dico che è meglio accettare al volo l’ultimatum. “Si, certo che vengo! ”, (e poi si vedrà!). È gennaio e fa freddo. Mio fratello, pur nel rispetto del codice stradale, è determinato a fare il meno tardi possibile e sfreccia fra le macchine come la pallina del flipper. “Fratello e sorella deceduti in un incidente con moto: corsa frenetica per raggiungere Ettore Scola”, gli grido leggermente in ansia.
Arrivati a destinazione, corriamo verso il risorante. Una volta dentro, una signora dal viso dolce ci accoglie e, guardando mio fratello che il mondo riconosce facilmente come PIF, ci invita con gentilezza a seguirla. Le figlie, Paola e Silvia, un amico di famiglia che aveva conosciuto Walt Disney in persona, la moglie, signora Gigliola, seduta ad un capo della tavola rettangolare proprio di fronte a lui, e lui, Ettore, ci accolgono sorridenti e divertiti dalle scuse in cui si prodiga mio fratello a causa del ritardo.
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Io vengo invitata con un allegro sorriso a sedere alla sua sinistra. Alla sua destra, il fratello. Mentre aspetto l’inevitabile imbarazzo che se pur per brevi attimi piomba immancabile in tali circostanze e che invece non arriverà mai, Ettore, come mi impone di chiamarlo, va dritto al punto e confessa di amare moltissimo che altri arrivino in ritardo. Mio fratello ed io lo guardiamo, contentissimi di lasciarci sorprendere. Avendo trascorso gli anni ad essere occupato, una delle cose di cui ha più sofferto nella vita è stata proprio la mancanza di tempo. “Ecco, considero il ritardo di qualcuno come un inaspettato regalo che mi viene fatto” perché i momenti di attesa sono in realtà momenti “regalati” dalla vita. Aspettando il ritardatario è come se il tempo si fermasse concedendoci questa manciata di attimi eccedenti.
Nessuno quella sera volle bere del vino e ancora oggi mi diverto a pensare alla sua risata quando gli dissi che se mio fratello era astemio, io, invece, bevevo per due.
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Se in quella che è rimasta nel mio ricordo come una delle serate più belle della mia vita mi fossi annoiata anche solo per un breve attimo, mi verrebbe più facile parlarne. Al Poeta riuscì meglio descrivere la pena dell’Inferno che il rintontimento noioso della beatitudine del Paradiso, ed io, per una volta a corto di parole, non riuscirei certamente a descrivere la delizia provata quella sera, senza il rischio di precipitare nell’agiografico. La decenza mi impone così di limitarmi a sottolineare, di quella sera, ciò che più mi colpì, come l’ammirazione di entrambi i genitori per le figlie Paola e Silvia, esaltate ed elogiate con sorprendente equanimità, la fierezza negli occhi di Ettore nel raccontare di come le figlie avessero trasmesso il cognome “Scola” agli amati nipoti, la benevolenza diffusa e affettuosa in ogni gesto e in ogni frase di questa famiglia aperta di spirito, dissacrante e solidale, o lo scambio di battute fra mio fratello ed Ettore che si vide costretto a firmare una ventina di DVD di suoi film portati dal fratello, e soprattutto quei preziosi, indimenticabili momenti in cui gli altri si distraevano e a me era concesso di parlare direttamente con lui e, delizia di ogni attimo sprovvisto di compiacenza di sé, lui con me.
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La caraffa di un ottimo, corposo vino dei Colli che scelse lui, la dividemmo in allegria parlando dell’assoluto silenzio imposto sul set di Ladri di Biciclette, perché “De Sica doveva sussurrare le battute agli attori mentre si girava”, del concorso che preparavo, del modo in cui vivevo la celebrità del fratello, del suo rapporto con gli attori sempre magnifico (affettuoso persino con Jean Louis Trintignan!). Fu proprio durante uno di questi momenti che intuii l’umanità del suo sguardo sul mondo. Mi resi conto che ci sarebbe potuto essere chiunque altro al posto mio su quella sedia, con una storia più o meno sfaccettata: lui lo avrebbe ascoltato con lo stesso interesse, curioso di tutto, rispettoso dell’infinità dell’essere. Spinta così da non so quale frenesia, presi il coraggio a due mani e glielo dissi. Tutta immersa nella passione per la ricerca scientifica, osai confessargli che la mia unica dimensione esistenziale restava la scrittura. Il romanzo la mia sola cifra stilistica. Invece di ridere di me, mi chiese con interesse di cosa scrivessi, mentre io, dimenticando completamente con chi stessi parlando, mi aprii senz’ambagi all’interlocutore attentissimo che tutto faceva fuorché parlarsi addosso.
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All’uscita del ristorante ci salutammo tutti con grande calore mentre lui sembrava invece preso dagli impegni venturi con mio fratello, ed entrambi si soffermarono a lungo su certi dettagli. Mi ero preparata ad un commiato leggero e distratto, come capita spesso quando ci si congeda da qualcuno che si è appena conosciuto. Con mio grande stupore, invece, si avvicinò a me e nello stringermi la mano, rimase qualche istante a riflettere. “Sorellina… ma lo sai che sei proprio simpatica?”, disse infine come se ci avesse pensato su per bene.
Nel gennaio del 2015 conobbi gli amati Scola e nel gennaio dell’anno seguente Ettore, che possedeva la rara capacità di vedere gli uomini per ciò che sono, importanti e preziosi tutti, fino all’ultimo, ci lasciò. Come scrissi a Paola e Silvia il giorno in cui se ne andò, se Ettore fosse stato panettiere, avrebbe fatto delle forme di pane uniche e buonissime, se architetto, avrebbe progettato dei palazzi popolari eleganti e funzionali in cui gli abitanti avrebbero vissuto benissimo… Il destino volle invece che fosse regista e che lasciasse al mondo questi film indimenticabili.
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Giorni fa è uscito per Rizzoli Chiamiamo il babbo – Ettore Scola. Una storia di famiglia, il libro scritto a due mani proprio da loro, le sue due amate figlie, Silvia e Paola Scola. A testimoniare dell’amore assoluto del mondo per il grande regista, è la bellissima introduzione di Daniel Pennac.
Ne ho letto solo qualche estratto e mi sono subito commossa. Eccola là l’atmosfera di quella indimenticabile serata romana con la famiglia Scola. Fra aneddoti familiari (esilaranti quelli che coinvolgono lo “zio Alberto” – Sordi –) e intime risate, eccola in tutte le sue sfumature l’umanità dell’uomo Ettore.
Non sapremo purtroppo mai cosa avrebbe detto oggi lui con esattezza degli efferati episodi di matrice fascista del Cinema America o del ripetuto incendio doloso della libreria la Pecora Elettrica di Centocelle. Lo potremo di certo indovinare, però, ritrovando l’uomo magnifico che fu Ettore fra le pagine di questo bellissimo libro scritto da chi riflette negli occhi la sua stessa umanità dolce e irriverente.
Manuela Diliberto