09 Febbraio 2024

“Decantando le bellezze della sua Fiume”. I racconti fiumani di Ettore Bonato

Figlio di Rimini, figlio di Fiume, Ettore Bonato è un esule della scrittura. Pare un espatriato perfino dalla vita, autore di una patria insondabile, soltanto sua. I suoi racconti, proverbiali e sporchi, brutali come un sogno, hanno la leggerezza e la severità del bambino belva. Ettore guarda le cose con occhi puri, soppesa la tragedia con la dolcezza, possiede la santità dei folli. Dei suoi libri, vanno citati “RN Romanzo Riminese” (Guaraldi, 2016), illustrato da Vittorio D’Augusta, e “Rincorrendo Brera” (Aiep, 2021); non lo trovate nella classifica delle vendite. Bonato ama i fuoriclasse del fallimento, raccoglie i disperati e i dispersi, i talentuosi della vita al sangue. Ama quando non riconosci più l’amato, pone una parola sul dorso di colui a cui hanno sottratto tutto. È un santo matto. L’ultimo libro – fabbricato da sé – s’intitola “Crocifissi” ed è dedicato, fin dalla copertina – il Circolo della Comunità Italiani Fiume – ai fiumani, all’esodo drammatico, forzato fino al massacro degli italiani dalla città che fu di D’Annunzio e diventò di Tito. Bonato è figlio di fiumani – ne eredita gli smarrimenti, la vita in un labirinto di immeditati labirinti onirici. Qui, un paio di racconti, di cui gli siamo grati.

***

Una nonna fiumana

Il bambino ha pochi anni e, nonostante si creda intelligente, non sa ancora nulla della vita. Tuttavia riesce ad individuare alcuni tipi di automobili dal solo rumore che emette il motore e conosce via Giarabub, una traversa di via Tripoli, a Rimini. I suoi nonni abitano lì, in una casetta che a lui sembra accogliente, i suoi giovani occhi la vedono in questo modo.

Quel piccolo appartamento ha una storia che si lega con un passato tetro e grigio. Il ricordo ci porta a Fiume, città italiana vicino alla frontiera con la Jugoslavia negli anni Trenta e ad una coppia di giovani sposi come ce ne sono tanti, entusiasti della vita, con caratteri completamente diversi: lui estroverso, brillante, affabile, lei chiusa, minuta, dai tratti gentili. Vivono in una di quelle case tanto care a D’Annunzio.

Un felice giorno, rischiarata da una flebile lampada ad olio e riscaldata da una stufa a legna e dalla fiamma del suo amore, la giovane donna mette al mondo la prima di due figli. L’ambiente è squallido, ma tutto è superato quando si sentono i vagiti della neonata. La donna è felice e prevede soltanto un roseo futuro per sé e la famiglia: non può immaginare che la sua vita le riserverà sì belle cose, ma muterà in continuazione e lei dovrà lottare per sopravvivere. Adesso il bambino sta giocando nell’assolato cortile e si diverte ad ascoltare le sconnesse frasi di un ragazzo picchiatello, sotto lo sguardo attento e premuroso della nonna affacciata alla finestra.

Ritornando col pensiero al passato, proprio dalla finestra di casa sua giunge agli orecchi della giovane donna il sinistro rimbombo dei caccia. Anche Fiume viene bombardata e, dopo la sirena dell’allarme si fa appena in tempo a prendere con sé i figli, qualche oggetto caro e correre al rifugio, situato fortunatamente proprio nei pressi dell’abitazione. La nonna racconta spesso al nipotino di avere avuto una vita tempestosa, colma di alti e bassi. Il marito, un commerciante, era pieno di gioia di vivere e lo dimostrava invitando gente a pranzo e a cena. Lei invece era restia alla mondanità e, qualche volta suo malgrado, si esibiva al pianoforte, come quando era bambina. Se il consorte voleva accanto a sé molte persone, e gli piaceva fare baldoria tirando mattina con amici e conoscenti, lei non protestava più di tanto giacché lo amava e ribadiva solamente di non gradire tutto ciò, pur godendosi una popolarità di luce riflessa.

Gli affari andavano bene allora, e tutto scorreva leggero, come in un sogno. Una volta la giovane moglie ballò con un tenente dell’Osna, la temuta milizia slava. La donna sorrideva, mentre scandiva i passi di danza e l’ampio sbuffo della lunga gonna li sottolineava, roteando nell’aria. Ma dietro quel sorriso si celava un odio fiero, uno sguardo carico di sfida, di coraggio e insieme di paura: lei era italiana e il soldato non doveva dimenticarselo mai.

Un brutto giorno, mentre il marito si trovava a Venezia per lavoro e la guerra era ormai finita con l’annessione di Fiume alla Jugoslavia, la donna dovette fuggire in Italia portando con sé i figli e abbandonando tutto ciò che possedeva. Evitò il disagio dei campi profughi dove erano ammassate migliaia di persone, non le altre umiliazioni a cui erano sottoposti i suoi compatrioti, anche se, in cuor suo, covava la speranza per un futuro migliore, nella tanto decantata e amata terra italica.

Quando piove forte nell’appartamento sito al pianterreno di via Giarabub entra l’acqua delle fogne; anche Rimini, come Fiume, regalò alla donna periodi duri, alternati ad altri entusiasmanti, e questo era un momento difficile, il commercio di frutta e verdura stava andando male. Però la situazione poteva e doveva migliorare: la figlia era sposata e lavorava, il figlio guadagnava già qualcosa con la pittura, e c’erano i nipotini, le gioie della nonna.

Ora via Giarabub è soltanto un ricordo. L’anziana signora, con la mente sempre lucida, racconta al nipote la storia della sua vita, decantando le bellezze della sua Fiume, e il ragazzo, ormai quasi uomo, non si stanca mai di ascoltarla e sogna ad occhi aperti le avventurose gesta di una coraggiosa donna fiumana.

Lui è Ettore Bonato, vista mare

**

La nave Toscana, dal 2 febbraio del 1947, trasporta via gli ultimi esuli, gli abitanti di Pola. Per più di un anno i polesani hanno sperato, sognato, tutto sommato erano convinti di restare in terre ormai jugoslave come italiani, ma il Trattato di Rapallo fu stracciato dal governo dell’epoca, presieduto dai partigiani – ma è giusto chiamarli così? – di Tito, proclamati comunisti. Anche la città di Trieste avrebbe potuto avere una fine come quella di Pola. L’ultima città avvelenata dall’esodo, invece, nel 1954 fu proclamata definitivamente città italiana. Ecco cos’erano i polesani per gli ex jugoslavi, erano fascisti perché si ribellavano ai comunisti, non erano solo nemici italiani, no, per molti no. E potevi rimanere a Pola, in Jugoslavia, solo se dichiaravi di essere un comunista.

Il polesano sarebbe stato, comunque, un cittadino di serie B, mal accettato dal governo titino dell’immediato dopoguerra. Dai filmati dell’epoca mi accorsi che se ne andarono via in giorni tetri. Dietro di loro, dietro il Toscana, vi erano frotte di delfini che sembravano aver assimilato la tristezza di quelle date, le date dell’esodo, e non giocavano con la spuma del mare, perché il mare non era più il mare italiano, l’Adriatico era un mare nero come il petrolio, freddo come una pinza emostatica, eppure ancor pieno d’amore e di speranze.

Il porto di Venezia attese vari sbarchi dal Toscana, che in circa un mese portò via più del 90% della popolazione istriana, ovvero circa l’intera città di Pola. Ma gli abitanti di Pola, ondivaghi nell’umore, prima di lasciare per sempre le loro amate terre, hanno vissuto l’orrore. Nella spiaggia di Vergarolla, abitata da fuggiaschi, da illusi, da patrioti e da uomini e donne liberi, avvenne un fattaccio omicida. Tanti ordigni sistemati nella spiaggia, materiale bellico disinnescato, nello stesso lasso di tempo, brillarono da soli, uccidendo circa cento persone e ferendo molti polesani.

Il dottore Geppino Micheletti, che aveva il cognome come un mio compagno delle medie e del liceo, un tipo un po’ rigido e con idee strane in testa, era lì. Con le mani sporche di sangue cercava di dare un primo ausilio ai suoi concittadini. Con le stesse mani cercò di strappare alla morte i suoi familiari. Nell’esplosione di Vergarolla, Micheletti perse non solo il fratello Alberto e la cognata, ma soprattutto i suoi due unici figli, Carlo e Renzo, rispettivamente di 5 e 9 anni, recatisi in spiaggia come tanti altri bambini per una tradizionale gara natatoria. Quando ebbe nelle sue mani il sangue dei figli, sputò il magone che l’avvinghiava in gola, e si diede da fare per dare un primo soccorso ai tanti feriti.

Dicono che Geppino Micheletti, ricordato come l’eroe di Vergarolla, viva ancora lì, in quella spiaggia, con i ricordi, con la speranza, con il terrore di essere deportato. Risate lontane, risate bambine. Rimbalzi di echi. Ogni notte, sempre.

Ettore Bonato

Gruppo MAGOG