Apprezzata poetessa e traduttrice dal russo, dall’inglese e dal polacco, Esther Kinsky (classe 1956) si è imposta in Germania anche come narratrice nel 2014 con il romanzo Sul fiume, finalmente edito ora anche in Italia (trad. di Silvia Albesano, Il Saggiatore 2021, p. 352, € 24,00), dopo che il suo ultimo in lingua tedesca, Macchia. Il romanzo dei luoghi, era stato proposto dal Saggiatore già un paio d’anni fa. Poco importa, il lettore-salmone ha ora l’occasione di risalire la fresca corrente dello stile rigoroso e immaginifico della scrittrice tedesca, fino a raggiungerne la sorgente.
Gran parte di Sul fiume è ambientato a Londra, dove Kinsky ha lavorato per oltre dieci anni come traduttrice a servizio del Jewish Refugee Committee. Londra, la “città immensa” che “sorge su un fittissimo reticolo di fiumi di età diverse”, tanto che “il fango di ogni fiume sotterraneo ha un colore e una storia propria“. E una storia propria ce l’ha anche il River Lea, “il piccolo fiume popolato di cigni” che l’autrice attraverso la narrazione accompagna fino al suo confluire nel Tamigi, dopo aver “ripetutamente sfiorato la città e le sue storie marginali”, “dopo anse piene d’irresolutezza”. “Camminavo sempre seguendo il corso del Lea”, scrive Kinsky, “facendo ogni volta un tratto in più e tenendomi attaccata al fiume come ci si aggrappa a una fune per mantenere l’equilibrio su un ponticello molto stretto”. Ed è accompagnando il corso del fiume che trova “pezzi d’infanzia”, “frammenti di foto di gruppo” e “paesaggi ritagliati”.
Molto prossima al genere che gli anglo-americani chiamano nature writing, in Germania qualcuno ha definito Kinsky, a buon diritto, una “parente percettiva” di naturalisti esploratori come Alexander von Humboldt e Georg Forster, fino a sembrare particolarmente legata al residente della capanna della foresta americana Henry David Thoreau, di cui non a caso ha tradotto in tedesco Walden ovvero Vita nei boschi. Del resto Kinsky ha un’idea di letteratura che è geologica. Il paesaggio viene da lei solcato strato dopo strato, le sue eredità umane vengono riportate alla luce e decifrate. Attraverso la scrittura (spesso metaforica) esamina i sedimenti della vita umana, perché ciò che è stato fatto dagli umani giunge prima o poi sulle rive dei loro fiumi, ciò che doveva rimanere viene inondato, viene raddrizzato, inquinato o lasciato scorrere in forma selvaggia.
I fiumi lungo i quali ha camminato Kinsky, oltre al River Lea, sono la Naretva, il Reno, l’Oder, il Po, l’Hooghly e altri. Ma non è solo la natura ad attirare la sua attenzione. Oltre a quelle evocate attraverso ricordi e sogni (come il padre, “il viaggiatore instancabile” dagli “occhi avidi”), vi sono persone verso le quali indirizza un’attenzione discreta; persone che portano con sé miti senza tempo, che sembrano agire secondo un mandato segreto: re, ebrei ortodossi, cercatori d’oro, cavalieri, acrobati, cristiani devoti, sognatori.
Ad un certo punto Kinsky durante le sue passeggiate ha iniziato a scattare foto istantanee e una decina di quelle, nelle quali non si vede altro che sottobosco, accompagnano qui la narrazione. L’essenza di ciascuna è l’essere immagine di qualcosa “che era dietro le cose”. Fenomeni naturali, ma anche oggetti d’uso quotidiano che potrebbero prendere vita e coinvolgerla nel loro destino, “battendo i piedi e infine volendo fumare e chiacchierare “.
Infine, questa la sua descrizione del fiume: ogni fiume “forma lo sguardo sull’altro, costringe a fermarsi, a esaminare con attenzione quel che c’è dalla parte opposta. Il fiume è il palcoscenico in movimento cui la riva di fronte si unisce formando un’immagine fissa, un dipinto sullo sfondo che s’imprime nella memoria”.
Si diceva della lunga esperienza di Kinsky come traduttrice da diverse lingue e come poetessa scrittura. È leggendo Macchia (pregevole traduzione di Silvia Albesano) che è possibile apprezzare in particolare i frutti del suo costante confronto con la lingua, con più lingue, nel tentativo di dare forma a ciò che viene colto dallo sguardo, ai sentimenti, ai ricordi, ai sogni, in una parola, alla vita. A chi altri, essendo così interessata ai linguaggi, poteva affidarsi, nell’epigrafe, se non a Ludwig Wittgenstein, laddove, in Grammatica filosofica, si chiede se la disposizione di un gruppo di alberi non possa anche esprimere un senso: “Non potrebbe trattarsi di un linguaggio segreto?”. E Kinsky pone questa domanda a se stessa in ogni circostanza, non solo di fronte al paesaggio.
Diviso in tre parti, Macchia è un romanzo del tutto italiano, perché narrante nella prima e nella terza i suoi due viaggi più recenti nella penisola e in quella centrale i ricordi di quelli fatti con la famiglia durante l’infanzia.
Kinsky è autrice perfettamente cosciente del proprio essere medium, strumento per gettare ponti oltre il visibile, oltre l’udibile, oltre il percepibile. Ecco perché il romanzo inizia con un richiamo a un’usanza rumena, secondo la quale nelle chiese i fedeli accendono candele in due posti separati, uno per i vivi, l’altro per i morti: “Quando muore una persona per cui in vita era stata accesa una candela nel settore di sinistra, la candela accesa viene trasferita in quello di destra.” E il libro inizia da una perdita: la morte di “M.”, il compagno della donna narratrice, che s’intersecherà con quella, più antica, del padre della stessa.
Con questo romanzo Kinsky si esercita come esploratrice alla ricerca dei luoghi in cui i morti e i vivi s’incontrano, o possono incontrarsi. Ecco perché siamo accompagnati continuamente, senza che questo riveli da parte sua alcuna necrofilia, dentro cimiteri cristiani, israelitici, dentro tombe etrusche, o nell’area dove si trovava la sommersa necropoli di Spina. Ecco perché, attraverso la descrizione dei meravigliosi oggetti che i vivi ponevano nelle tombe, ci viene raccontato l’amore di quelli per i morti. Ecco perché leggiamo continui tentativi di interpretare i sogni: “Sognano?” si chiede Kinsky osservando la predella dipinta dal Beato Angelico raffigurante la messa funebre per Francesco d’Assisi. Se lo chiede a proposito dei frati chinati verso terra: “Come si sveglieranno da quel sogno, ognuno a modo suo, toccato dall’incontro con il morto?” Ecco perché incontri e paesaggio sollecitano il riemergere continuo di ricordi d’infanzia attraverso i quali la percezione della realtà, insieme a quella del tempo, viene completamente stravolta. Questo accade, per esempio, quando il ricordo di un paesino in Italia, lei bambina insieme alla famiglia, le fa domandare: “Che cosa avrei pensato di me stessa vedendo quella famiglia?” Un pensiero al limite, un’idea che doveva presupporre una scissione, “una sortita vertiginosa”, ammette Kinsky, “seducente” e “inquietante”. “Chi sarei stata io in quell’incontro?” è la domanda. È la domanda centrale di questo romanzo, ed è probabilmente il nucleo dell’intera poetica dell’autrice tedesca, tesa com’è a lasciarsi interrogare dagli eventi, dalla memoria, dai sogni, dal paesaggio.
Vito Punzi