08 Agosto 2019

“Andate a vederla” ci esorta il Carmelo Bene, “guardatela in questo orgasmo, in questo suo venir meno, da monaca”. Discorso intorno all’“Estasi della beata Ludovica Albertoni”

Ludovica mon amour! Avrebbero dovuto imbastire processioni sacre a quel tuo orgasmo celeste, elevare il tuo candore femmineo a vessillo di luce. Proteggere il bianco latteo del tuo marmo lucidato fino all’accecamento. Avrebbero dovuto riporti in un altare d’oro e cristallo, al centro di qualche svettante cattedrale o, al massimo, rinchiusa in una teca, visibile solo ai Re e alle Regine. A miglia di distanza dal sudiciume di Roma, dalla miseria e dai latrati dei cani. Avrebbero dovuto fare tante cose! Di sicuro salvarti, risparmiarti dal degrado. Invece nulla, neanche una piazza come si spetta.

Ti hanno lasciata lì, cara Ludovica Albertoni, tra i selciati di Trastevere, in uno slargo divenuto ormai un parcheggio, dentro una cappella di San Francesco a Ripa. Piccola chiesa edificata nel X Secolo, sulle strutture di un ospedale per poveri e bisognosi. La stessa che nel “Dugento” diede asilo al frate mendicante Francesco d’Assisi venuto a Roma per incontrare il Papa. Oggi, in coerenza con la sua umile origine, è il punto di ritrovo per clochard e sfortunati di ogni sorta. Un posto infame, da sempre. L’impiccio con il carabiniere Cerciello Rega, accoltellato dai due cocainomani americani, ebbe origine nei dintorni.

È all’interno di questa anonima chiesa, che da 1674, offri il tuo santo gemito ai devoti. Tu, superbo capolavoro scultoreo di Gian Lorenzo Bernini, insieme alla Teresa d’Avila, completi il duo delle estasi trasfigurate nel marmo.

Adagiata in un letto di pregiato diaspro, Ludovica, è in realtà il più grande schiaffo inferto ai trastulli del Barocco. Il minuto corpo della monaca, esploso dal di dentro, contorto e anatomicamente errato, si lascia a malapena individuare tra un voluminoso turbine di pieghe marmoree. A irradiarle il volto uno striminzito fendente di sole, lasciato filtrare da un’apertura laterale. È così che la rivelazione divina si schianta sul bianco della pietra/carne, la schiena inarcata abbandona gli ormeggi terrestri. La vertigine del vuoto, dell’abbandono. Il volto lascivo, leggermente rivolto allo spettatore e il capo abbandonato all’indietro, hanno davvero ben poco di divino e tanto di umano.

Fuori dalle comuni rotte turistiche, in San Francesco a Ripa, Roma, un capolavoro di Gian Lorenzo Bernini

Il vortice di pieghe in cui è avvolto il suo corpo rifà il ciuffo ai boccoli del barocco. Si spinge oltre. Non è più la serpentina di pieghe che tanto fece scrivere a Leibniz e Deleuze, ma è fiamma. È il fuoco a render conto di quella tunica, di quei merletti stritolati da esili mani femminili, scolpite in punta di cesello. Una grazia sconcertante da non aver eguali nella storia del marmo. Mani di ragazza, meticolosamente scolpite, si avvinghiano a un seno acerbo, appena pronunciato. Gli occhi serrati, trasognati. Poi la bocca: sensuale, carnosa, ingemmata da labbra semi-chiuse in un sibillino soffio di voce. Pizia colta dall’indicibile e, per questo, impossibilitata al racconto.

Guscio vuoto di donna. L’Io dissenna, trasloca per cedere il posto a Dio. A riguardo Meister Eckhart ci ha lasciato pagine di meravigliosa letteratura mistica. “Andate a vederla” ci esorta il Carmelo Bene, “guardatela in questo orgasmo, in questo suo venir meno, da monaca… Tra i merletti marmorei, tra queste mani che non tornano anatomicamente. E vedete davvero cos’è una cosa mancata, non è una mancanza, è mancata da sempre… Bernini eccede il capolavoro che fa del Bernini un capolavoro… è prima delle parole e dopo delle parole, non appartiene più al discorso…”.

È così che Bernini supera il suo tempo. Supera sé stesso. Consegna Dio al piacere della carne, il coro celeste all’orgasmo. Tutto è abbandono, tutto è assenza, il corpo un vuoto contenitore in balia della luce.

Solo un maltrattatore di materassi come Gian Lorenzo (chissà cosa direbbe Costanza Bonarelli!) poteva escogitare una serie di soluzioni furbette e ammiccanti che lasciano pochi dubbi allo spettatore (e non deve essere nemmeno troppo malizioso per accorgersene).

Nessuna cattedrale sul colle e nessuna processione orgiastico-pagana per te, Sorella Ludovica, ma poco più di una cappella scrostata dal tempo erta nei regni della miseria romana. Questa tua condizione da reietta, attorniata da tossici e disgraziati, monnezza e gabbiani, ti ha preservata dalle forze del male, quello vero: il turismo di massa. La fiumana di trolley e infradito della Capitale non fa tappa presso la tua dimora. Fila dritta, respinta (forse spaventata) dalla presenza e dai deliri alcolici di questi tuoi custodi speciali. Piantoni apotropaici, cherubini 2.0 in astinenza. Sdraiati pancia all’aria su quelle gradinate in travertino, sbeccate e innaffiate di Tavernello. È così, al riparo dalla fallica folla, l’intimità tra la monaca e l’Altissimo è pressoché inviolata. Ed eccoti qui Ludovica, “la fuori di senno”, diamante tra la melma. Coloro che ti amano sanno che nello iato tra degrado e stupore è racchiusa la bellezza del Bel Paese. Chi non capisce questo è condannato a non capire nulla dell’Italia, che è così da (per)sempre: marmo di Carrara e sterco di cane.

[…] inanimata informe a orgica nolente
indifferentia tua
si sta se no estasiata in essere prescelta
esplosa come dentro polare il cielo attonito
di bianche nubi ‘n blocchi diacci sospesi
in dunque giù precipiti d’immane
eliogabalico dismembrato corpo […]

(Carmelo Bene, ’l mal de’ fiori)

Martino Cappai

 

Gruppo MAGOG