08 Giugno 2024

“Ci ha lasciato cose immortali”. Enrique Banchs, il poeta che ossessionava Borges

Enrique Banchs, in fondo, non ha mai vissuto. Ha desiderato un’esistenza tra le ombre e il frantoio dei fraintesi: all’apparenza, è stato un modesto intellettuale, membro dell’Academia Argentina de Letras, firma consueta sui periodici dell’epoca. Negli anni Trenta cominciò a scrivere alcuni racconti per bambini, pallide imitazioni di Esopo, dal tono moraleggiante. Enrique Banchs ha vissuto tutta la vita a Buenos Aires, che è, in fondo – per via dei vasti viali e dei molti café – una specie di Parigi sudamericana; non fosse per quel lucore, ipotesi di giaguari dietro l’angolo. Amava gli appuntamenti fissi, gli amori cauti, i corpi in trasparenza, le parole lignee, ben foggiate; morì il 6 giugno del 1968, aveva compiuto da poco ottant’anni.

Nella sua vita povera di eventi che non fossero quelli interiori – e lì, si sa, accadono apocalissi quotidiane, la deriva dei continenti nel tinello –, Enrique Banchs pubblicò quattro libri di poesia in cinque anni. Esordì nel 1907 con Las barcas; nel 1911 licenziò La urna, da molti ritenuto il suo capolavoro. Nel 1967 la rivista “Capitulo” ha dedicato un numero – il 35 – a La poesia de Enrique Banchs; l’attacco è affascinante:

“Siamo di fronte a una poesia che resiste a qualsiasi classificazione, che non si installa in alcuna scuola, movimento, generazione. La poesia di Banchs si distanzia dalla lirica del suo tempo, che sia modernista o postromantica, perché è il frutto di un lavoro solitario che corrisponde a una rigorosa scelta di isolamento”.

Nella nota inviata alla rivista, a decoro del lungo servizio dedicatogli, Enrique Banchs fa della reticenza una forma d’arte:

“I miei genitori, entrambi morti, entrambi argentini, furono don Enrique Banchs e donna María Laplace de Olive. Ho quattro fratelli. Mi sono sposato il 3 ottobre del 1912. Mia moglie si chiama Luisa Malinverno. Ho due figli e due nipoti. In quasi sessant’anni, ho sempre lavorato come giornalista. Non ricordo di aver mai pagato per far stampare i miei libri, eccetto per El cascabel del halcón, uscito per la generosa cura di un libraio. Non ho fatto studi regolati: sono un autodidatta. Ho sempre vissuto a Buenos Aires. Ho viaggiato molto poco: appena quattro mesi in tutta la mia vita”.

Jorge Luis Borges fece di tutto per non conoscere Enrique Banchs: ne intuiva, forse, una radicalità di cui avrebbe voluto appropriarsi. Genericamente, le sue poesie non gli piacevano molto; ma serbava un culto assoluto per La urna. Così ne scrisse, era il 1936:

“Benché sia apparso un quarto di secolo fa, L’urna è un libro contemporaneo, per sempre nuovo. Oso dire – pronunciando questa parola portentosa e satura – che è un libro eterno. Le sue due virtù essenziali sono la limpidezza e il tremore, non l’invenzione che deve dare scandalo né l’esperimento gravido di futuro”.

Le poesie di Enrique Banchs – qui ne abbiamo tradotte una manciata, finora inedite in Italia – sono come degli specchi d’acqua. Sono come dei laghi. La quiete apparente permette al lettore di riflettersi in essi; sotto la superficie covano coccodrilli, carnivori in agguato. Ciò che agguanta, in Enrique Banchs, è la naturalezza mescolata al sofisma, il verde vigore congiunto al vampiro. Cosa voglio dire? Che Enrique Banchs, al contempo, parla di alberi e di albe, di grilli e di pergolati, ma anche – e soprattutto – di sopite ombre, di tigri che ispirano alle virtù dell’odio, di vani amori, dell’inutilità del vivere. Secondo i critici, Banchs si rifà ai poeti del “Siglo de Oro”, ai giochi lirici di Francisco de Quevedo e di Luis de Góngora. Invero, Banchs è alieno al ‘concettismo’, scopre una lucidità propria, ferina e senza tempo, che ricorda – trascendendo le cronologie, inutili in poesia – Georg Trakl.

È naturale che piacesse a Borges: Banchs – più poeta di Borges – anticipa tutti i suoi temi, con austerità di tono, però, e smaliziata umiltà. In una conferenza del 1977 dedicata a La poesia, per spiegare perché la poesia è un “fatto estetico” che “sentiamo come sentiamo la vicinanza di una donna, o una montagna, un’insenatura”, Borges commentò con enfasi un sonetto di Banchs dedicato – va da sé – agli specchi (potete leggere poesia e commento in: Jorge Luis Borges, Sette sere, Adelphi, 2024, pp.118 ss.). Citava, secondo il suo stile, Plotino e Poe, autori estranei alla ricerca di Banchs.

Borges scrive di continuo, coltivando un’ossessione, di Banchs. Nel 1970, a Fernando Sorrentino, disse che “Se quel libro di Banchs, L’urna, non esistesse, il mondo sarebbe più povero. Quei sonetti sono semplicemente perfetti. Tanto che se è molto facile – o meglio: possibile – fare una parodia di Lugones, non credo sia possibile farla di Banchs. Banchs non è un poeta con uno stile, nel senso di un vocabolario specifico: i suoi usignoli, i suoi pomeriggi e le sue solitudini appartengono alla poesia lirica universale”.

Effettivamente, c’è qualcosa di borgesiano nell’esistenza di Enrique Banchs. Il poeta che aveva pubblicato quattro libri in cinque anni, improvvisamente, non scrisse più. Mai più. Con La urna, nel 1911, Enrique Banchs termina di essere un poeta. Che cosa è accaduto? La certezza di aver compiuto un capolavoro? L’incapacità di realizzare un’opera altrettanto cristallina? La paura? La musa che ti avvinghia e poi ti lascia, agonizzante? Misteri della mania poesia. Alcuni malignarono che il matrimonio – contratto poco dopo la pubblicazione del suo ultimo libro – avesse sopito la ragion lirica di Banchs, la sua poetica. Eppure, Banchs continuò a scrivere in prosa – scadente, a dire di Borges – e a collezionare scarni versi; nessuno degno di elevarsi a libro.

Una rara immagine di Enrique Banchs

A proposito del corrosivo silenzio di Banchs, così scrive Borges, pareggiandolo – nel suo modo, in picchiata – alle scelte di “Lawrence d’Arabia”, alla glossolalia di Joyce:

“Lawrence, nel 1918, capeggia la ribellione degli arabi; nel 1919 compone I sette pilastri della saggezza, forse l’unico libro degno di memoria fra quanti ne abbia prodotti la guerra; verso il 1924 cambia nome, perché non dobbiamo dimenticare che è inglese e che la fama lo infastidisce. James Joyce, nel 1922, pubblica l’Ulisse, che può equivalere a un’intera e complessa letteratura che riunisca molti secoli e molte opere; oggi pubblica dei giochi di parole che senza dubbio equivalgono al silenzio più assoluto. Nella città di Buenos Aires, nell’anno 1911, Enrique Banchs pubblica L’urna, il migliore dei suoi libri, e uno dei migliori della letteratura argentina; poi, misteriosamente, tace. Tace ormai da venticinque anni”.

Ora in: Jorge Luis Borges, Testi prigionieri, Adelphi, 1998

Borges non fu in grado di una simile dedizione: abbandonare la letteratura, fare di sé una vuota urna. Lo spettro di Enrique Banchs lo tormentò fino alla fine – e se Banchs avesse continuato a scrivere, incessantemente, all’ombra, tra ritagli di sogni? Nell’ultimo libro pubblicato in vita, Los conjurados (1985), Borges dedica a Banchs una poesia che è in fondo il fermento del proprio destino, dell’altro se stesso:

“Un uomo grigio. Una equivoca fortuna
fece in modo che nessuna donna lo desiderasse;
questa storia è la storia di chiunque
ma di quante ce ne sono sotto la luna
è quella che fa più male. Avrà pensato
di uccidersi. Ignorava che quella
spada, quel fiele, quella agonia
erano il talismano che gli fu dato
per giungere alla pagina che vive
al di là della mano che l’ha scritta
nell’alto cristallo delle cattedrali.
Compiuto il lavoro, fu, oscuramente,
un uomo che si perde tra gli altri;
ci ha lasciato cose immortali”.

Non è inutile – nel mio caso – rimarcare le ricorrenze del caso, le cifre che infettano una coincidenza, il rimbombo del numero che, inclinato, suggerisce che anche l’infinito ha un fine. Enrique Banchs nasce l’8 febbraio del 1888.

***

Parlando di tigri

Scintillante nel sinuoso
andare, la tigre è dolce come
un verso, ha la lucida ferocia
del topazio, l’occhio arido,
vigoroso. Allunga gli insidiosi muscoli
dei fianchi, languidi, perversi
e si muove, lenta, tra le sparse
foglie d’autunno. Il riposo…
è vero, lei riposa nella silente selva.
La testa tra gli artigli sottili
lo sguardo fisso, in veglia.
Ci spia mentre fissano nervosi
le assi della cancellata: l’assalto
è rimandato… tale è il mio odio.  

*

L’ombra

Se la morte è la fine, l’oblio totale,
l’anima, in questo insensibile sogno,
è nulla, perché non sa di aver vissuto;
nulla, nient’altro che il vuoto di se stessa.
Ma forse è l’ombra di ciò che è stato
e nella sua vana vena scocca l’eco di un
battito, l’orecchio scorge un cuore illusorio
le secche foglie di una melodia estinta.
Ombra. L’ombra di ciò che è perduto,
il mero riflesso che raccoglie
l’amore fugace e l’istante di agonia
e da sempre, nel Tempo ergastolano,
sogna che sia vera la vita menzogna:
d’altronde, ancora attende la morte.

*

L’urna

I

Entra l’alba nel giardino, scuote
i calici rosa; passa il vento
e ravviva la fiamma morta nella casa,
una stella cade, solca il firmamento;

il grillo canta sulla soglia
e il passante si ferma un momento,
clamore nella dimora deserta
un’eco insonne gli risponde;

e se un uomo dorme sull’erba
si divina l’orma del suo corpo:
anche il marmo che serba i nomi

invoca il Ricordo che su lui si inclina…
Soltanto il mio amore, sterile e remoto,
vive senza segni, senza fare rumore.

II

Anche la sorgente sotterranea
nel suo letto di prigioniero diaspro
soffre, finché si spezza la vena
e gorgheggia alla luce del cielo;

reca un funebre vello
il rostro rosa dell’aurora finché
la risata del tordo non squarcia
il severo lutto notturno;

dorme a lungo tra solchi
e laboriosi sogni il grano
finché non spalanca l’occhio

all’estate: anche il mio amore
sterile e nascosto si erge tra le strofe
con il suo nobile stampo umano.

*

L’urna: 33

Era odio: non è più. Non esiste
altra febbre che fiacchi la fibra carnale.
Finché muore non resiste
questo orgoglio di altera violenza.

Prima che il mio essere fosse tutto
tormenta, tutte le contraddizioni
le menzogne, le lotte, regolavano
il torbido arco dell’ira.

Ma in forze contrarie mi divido
e oggi sono la dimora di una sola
suprema energia, alimento di eterni gesti:

un amore premuroso, dolente.
Per lei, non sono che un lago
tra grandi montagne, in inverno…

*

L’urna: 44

Quanto ho scritto… eppure
così poco ho detto del mio essere
quasi nulla; quanto ho desiderato
senza comprendere il desiderio!

Quanto ho pianto… eppure
che mistero, non ricordo alcuna
sensazione. Sono lo stesso che ero
senza aver pianto: perché le lacrime

allora? Notte, spegni la mia anima
come una candela. Non farmi pensare
né sognare; non rivelarmi cosa voglio.

Notte, avvolgi con la tua quiete
l’inutilità della vita, la vita vana
quella che vivo, in cui mi avvito.

*

L’urna: 68

Triste fortuna la divina sorte
di non sentire la ferita della morte!
Aspettare ciò che non arriverà mai
vegliare nella posa del cieco.

Oggi spera ciò che ieri voleva
di nuovo pretende ciò che ieri sussurrava…
quando da tutto mi sento lontano
è la morte che mi porge la mano.

Passi, Tempo, vai furtivo
come un cristiano che porta
un ramo di cipresso nelle catacombe:

ti esisti, Ombra, ma non ti vedo
pur inclinato nelle fauci della tomba
il mio primo desiderio impenna gli occhi.

*

L’urna: 82

La giovane fermezza dei miei versi
ti parla oggi come ti parlerà domani.
La bella età passa, ma io confido
ai versi la tua bella età lontana.

Quando la vecchiaia sarà fredda
e il colore verginale ti sarà aureola
non conoscerai soltanto i miei versi
ma questi ti parleranno con la mia voce.

Quando sarà perduta la bellezza
i miei versi ti ricorderanno
quanto sei bella – quando

sarai cenere, mia amata,
i versi, ancora e ancora
ti diranno quanto ti amo.

*

L’urna: 99

Tutto è buono e reca una misteriosa
grazia. Tutto è dolcezza
e trabocca di gioia come spumeggia
l’ombrosa freschezza del pergolato.

Gli alberi danno i fiori, perché questo
è il loro magico compito. Il sole
fa brillare le finestre. Gli usignoli
sono il segno che l’amore esiste…

Mio Dio, tutto è come era!
L’inverno è passato, la primavera
arriva e tutti sono felici; e la vita

passa in silenzio, benedetta,
nulla dice del nulla, del mai…
ma so che non la vedrò più.  

Enrique Banchs

Gruppo MAGOG