05 Novembre 2022

“Viviamo o ci sembra di vivere?”. Elogio di Flaiano, il marziano

Ennio Flaiano è un alieno umanissimo che ha attraversato poeticamente il mondo. Francesca Pansa e Renato Minore – un suo vecchio amico, suo lettore e ammiratore, anch’egli scrittore e poeta – in Ennio l’alieno (Mondadori, 2022) ne riesumano la vita e le opere, le lettere, gli amici, la famiglia, i buoni e i cattivi umori e soprattutto le malinconie, quel profondo senso di noia o di incanto – di nostalgia e di incanto – che trabocca dalle sue pagine pubblicate in vita o postume. Nel loro libro, che è a un tempo un omaggio e una biografia letteraria e umana e uno studio approfondito, ci sono l’infanzia a Pescara, il raffronto con D’Annunzio, le prime solitudini, i viaggi, e poi c’è Roma, ci sono Rosetta e l’amata Lè-lè, Tempo di uccidere, i film e i libri, il relativo successo (“con la certezza di non esservi tagliato”) e i fallimenti, Longanesi e Fellini e Gassman e il Marziano, la malattia della figlia e le depressioni, Melampus e Oceano Canada; c’è insomma Ennio Flaiano con tutte le sue vicissitudini e le sue malinconie.  

La malattia di Lè-lè – che muove le pagine più commosse del libro, nel finale – ha cambiato la scrittura e quindi il destino di Flaiano, spingendolo, per il bisogno dei soldi necessari alle cure, a collaborare sempre di più con il cinema, disperdendo il suo talento fra le tante sceneggiature scritte e i frettolosi appunti dei taccuini e i rari libri editi, le poche opere compiute e pubblicate in vita, quali Tempo di uccidere, Diario notturno, Una e una notte, Un marziano a Roma, Il gioco e il massacro e Le ombre bianche. Pure, Flaiano credeva molto nel proprio lavoro di sceneggiatore, come nelle sue pagine di critica cinematografica o teatrale e nelle sue opere tout court, nei suoi romanzi e racconti e commedie e appunti presi in fretta – in breve nella sua scrittura. “Perché scrive così poco?” gli chiedono, ne La solitudine del satiro. E Flaiano risponde:

“Caro signore, io non ho una vocazione narrativa. Scrivo, che è una cosa molto diversa”.

Scrivere è una cosa molto diversa. Non significa per forza raccontare, non soltanto, ma anche ritrovarsi emozionalmente nella scrittura, sentire la Parola in sé e non più fuori di sé, non più altro da sé, rivoltando le proprie esperienze e sofferenze umane sulla pagina, facendone arte e ritmo e visione e poesia. “La parola serve a nascondere il pensiero, il pensiero a nascondere la verità” dice Anna, cioè Flaiano, nel primo quadro di Un marziano a Roma. “E la verità fulmina chi osa guardarla in faccia”. La scrittura per Flaiano è questa fulminazione, la ricerca del pensiero più autentico e della verità esibita o celata e rivelata attraverso le parole, comunque mai ignorata. Così lo scrivere, o il tentativo di scrivere, diviene sentimento o ricerca del sentimento e del reale, come ne La spirale tentatively, oppure gioco e finzione apparentemente “leggero” ma in realtà altrettanto profondo e sentito delle sue pagine più tragiche, come nel Dialogo per provare una penna nuova, sempre ne La valigia delle Indie:

“Scrivere versi è voler dare
al pensiero il suo numero perfetto
chi sfoglia paga il pegno
di un pensiero mancato
e il cattivo poeta va a letto”.

Ne La spirale tentatively – poema ripreso più volte in Ennio l’alieno – i versi del Poeta sono invece come i battiti di un tamburo:

“Il suonatore di tamburo
non crede che i rumori esistano nella realtà
ma li produce lui percuotendo una pelle tesa
sulla misura dei suoi battiti. 
Il suonatore di tamburo non crede 
che la melodia possa essere altra cosa
dal battito interno che lo guida. 
Da tempo egli rispetta soltanto il tempo
e da questa contemplazione esclude 
tutto ciò che accade incidentalmente,
né sa disporre i suoi rumori di tamburo
in modo da farne un romanzo, o qualsiasi
altra cosa utilizzabile, se si esce
dal campo dei rumori. Quel che conta sono certi
colpi che ogni tanto gli provano la sua presenza
e quindi l’utilità del tentativo
di dare un significato al tempo”.

Ecco: bisogna scrivere per dare un significato al tamburo che batte, cioè al mondo e allo scandire del mondo e del tempo che è dentro di noi, che pure è insensato.

Rosetta Flaiano, in una delle poche interviste rilasciate dopo la morte del marito, si lamenta che Flaiano sia spesso ricordato e letto (o sfogliato) non tanto come un vero scrittore bensì come un battutista più o meno mordace, negandogli ogni profondità che non sia ridanciana o “cattiva” o caustica o epigrammatica, comunque laterale, mentre – come raccontano bene Renato Minore e Francesca Pansa in Ennio l’alieno – il suo stile e la malinconia, nei romanzi e nei racconti e negli appunti e nei testi teatrali, nelle rare e magnifiche poesie e talora nelle sceneggiature, è altro, è racconto e visione e desolazione e rimpianto di ciò che non è mai stato o di ciò che non si ripeterà, è il tempo che diventa un fiume immemore di sguardi e attimi irripetibili (“Di tutto un grande amore / di tutto un mare di particolari voluttà”) e che trascina via con sé la scrittura, la parola, l’infanzia e la morte e l’impossibile nostalgia di ciò che non siamo riusciti a essere, il pensiero cosmico dello scrittore che fugge o nega se stesso e che non scrive, che non vuole ricordare, riviversi, se non frammentariamente, perché “scrivere è così difficile”, diceva Flaiano, e perché “scrivere spaventa”. Quindi ci si ripara nella battuta, nel fulminante aforismo, proteggendo con lo spirito il proprio complesso e indefinito e indefinibile io, divenendo così uno “scrittore satirico”, per gli altri, magari pure divertente.

Perciò Un marziano a Roma non poteva avere successo, non poteva semplicemente “piacere”, essere applaudito, giacché, nella triste parabola di un uomo-marziano-profeta che approda sulla Terra e viene prima celebrato e poi frainteso e infine ignorato e deriso (“Perché ridevano? Perché sono così spietati? Perché volevo amarli? Perché mi abbandonano?”), c’è il tragico destino del Poeta, che è altro da ogni uomo e che pure all’umanità, agli altri, appartiene, che l’umanità, la propria fragile e insensata e dolcissima e sofferta umanità, racconta, deve continuare a raccontare.

Kunt è il Marziano che è ormai divenuto Ennio Flaiano agli occhi degli altri, uno straniero al mondo che non può più vivere e che pure vive, uno scrittore che non può più scrivere e che tuttavia scrive. “Viviamo o ci sembra di vivere?” si chiede, nell’ultimo quadro della commedia.

“Ora la stanchezza si insinua in noi come un ladro deserto. Che guaio. Ora l’amore è fastidio, il vivere una certezza che peggiora, il sonno un agitarsi tra larve senza luce, e il giorno arriva, per ricominciare tutto daccapo. Dovrei rivedere i miei appunti…”

Non ci sono speranze, per il Marziano, per Ennio Flaiano; tutto è già deciso nell’attimo stesso della nostra nascita (o venuta al mondo, cioè atterraggio a Roma) e la scrittura, la parola, non salva, semmai fissa e addolcisce l’inenarrabile presente, la voluttà del poter essere vivi e l’incanto dell’errore, sebbene a niente valga dibattersi e sbagliare ancora e ancora e vivere davvero né tantomeno scrivere, continuare a scrivere e a illudersi di potersi salvare, magari accettando il gioco e la noia e la ripetibilità dell’esistenza, perché “la strada da percorrere è già tracciata nelle sue linee essenziali”, e perché non c’è nessuna libertà o scelta o salvezza possibile e tutto dell’Uomo è già da sempre e per sempre definito, parole comprese, poesia compresa.

Da ultimo rimangono i ricordi, gli affetti, come il volto di una madre o di una moglie o di una figlia malata e amata, la piega di un labbro ritrovata in altri volti, in altri affetti, la spirale logaritmica degli errori che si succedono nel tempo e che con il tempo e attraverso il tempo ci accompagnano, fino alla cosiddetta “fine”, la reale morte che improvvisamente e incredibilmente avviene (“e infine la sorpresa che stia davvero accadendo/ e la preoccupazione dei cassetti lasciati in disordine/ e il desidero di non scendere vestito nella cassa”) e che lascia spazio ad altre vite, ad altri corpi e ricordi e sbagli e incanti che a loro volta moriranno, che a loro volta nel tempo si esauriranno.

Renato Minore e Francesca Pansa hanno scritto un libro importante per gli amanti di Flaiano e non solo, volto a salvarlo dalle “retoriche zuccherine” o ridanciane che talora accompagnano la sua figura e la sua opera, da coloro che lo ritengono poco più di un battutista e che ne ignorano la malinconia e il coraggio e soprattutto la dignità, perché Flaiano è stato uno scrittore dal valore ineguagliato, di grande dignità. Ennio l’alieno è una biografia letteraria ma anche un libro di critica, un libro di affetto ma anche un libro di rigoroso studio, e siamo grati a Pansa e a Minore per averlo saputo – da scrittori e da poeti – sognare e scrivere.

Gruppo MAGOG