13 Dicembre 2023

Non so fare altro che consumarmi. Leggere Emmy Hennings

Cosa fa lei?
Nulla.
Faccio piovere la vita su di me.

Rahel Varnhagen

Vivere

Una società si rivela non tanto tramite leggi scritte, ma piuttosto tramite quelle non scritte che si rispettano senza esserne consapevoli. In ogni epoca e in ogni cultura è possibile rilevare una scala di valori di base che guida il modo di pensare e, conseguentemente, di comportarsi dei suoi membri. Alcune parole chiave come vita, morte, uomo mettono in chiaro questi principi che regolano, a un livello molto profondo, la psicologia individuale e i rapporti sociali.   

Il significato della vita umana, nel corso dei secoli, ha subìto notevoli cambiamenti. Oggi, quasi automaticamente, la associamo ad un impegno personale assai pesante: fare qualcosa della propria vita e quindi ottimizzare se stessi, sono gli imperativi che guidano il nostro mestiere di vivere fin dalla prima infanzia. Sembrerebbe che la relazione tra l’io e la vita sia determinata più che altro dall’idea che si debba riuscire a dominare la vita – una specie di nemica innata! – per potersi inserire in una fitta rete costituita da famiglia, relazioni sociali e lavoro.

Vita, insomma, non tanto come invito ad una esplorazione liberatoria, ma come faccenda da essere sbrigata nel modo più efficace possibile.

Nel mondo secolare è l’uomo stesso ad essere l’unico responsabile delle sue sorti: il successo, il fallimento o semplicemente il grigiore della nostra esistenza non sono più degni di essere né condannati né salvati da alcun dio. Riducendo la vita umana all’economia delle sue prestazioni, lo si priva di una dimensione fondamentale: quella della meraviglia.

Per Emmy Hennings (1885-1948), donna decisamente non del nostro tempo, tutto è meraviglia. Scoprire se stessa significa per lei conoscersi tramite i rapporti con gli altri e con tutto ciò che il mondo offre. Nulla è troppo piccolo per non essere considerato parte integrante del tutto: una fitta rete di segni e significati che costituisce una specie di mappa di tutto ciò che vive. In questa ottica paritaria, decisamente non utilitaristica, il rapporto tra l’io e il mondo appare come dialogo incessante, come coro di voci armoniche e dissonanti da ascoltare e meditare senza pregiudizi.

Emmy Hennings vuole sperimentare la vita in tutte le sue sfaccettature – pronta a farsi sorprendere e perfino sopraffare dagli eventi. Appena ventenne, spinta dal desiderio di avventura, parte dalla sua città natìa con una compagnia di teatro itinerante. Vivere per lei vuol dire essere in movimento, inventarsi nuova giorno per giorno: in senso concreto e metaforico. È importante, in questo contesto, sottolineare la sua provenienza sociale assai modesta. Alla sua epoca – siamo all’inizio del Novecento – non era scontato che una donna della sua classe pretendesse di più di una vita all’insegna del sacrifico, della rinuncia e della sottomissione alla volontà di un marito-padrone. Non esistevano modelli femminili da seguire perciò il fatto di partire senza aspettative precise e senza sapere cosa l’avrebbe aspettata, era dovuto non soltanto alla sua natura curiosa, ma anche alla necessità interiore ad uscire dalla città piuttosto provinciale in cui era cresciuta.

L’idea del rischio non la spaventa, essendo l’ignoto, in tutta la sua ambigua potenzialità, la sua linfa vitale. La domanda che Emmy Hennings si pone non è tanto cosa lei potrà fare della sua vita, ma piuttosto cosa la vita farà di lei.

*

Chi sono io?

Emmy Hennings è la donna del forse, del non lo so, del sì e no.

Nata figlia di un marinaio a Flensburg, nel nord della Germania, vicino al confine con la Danimarca, dopo la scuola dell’obbligo e in attesa di sposarsi lavora, com’è solito per le ragazze della sua estrazione sociale, come domestica. Non avrà mai una vera e propria professione, se non, come dice lei stessa, quella di vivere e, cioè, di rendersi permeabile a tutto ciò che le succede. Per mantenersi farà quello che le capita: la venditrice ambulante, la soubrette, lentraîneuse,la prostituta d’occasione e, più tardi nella vita, l’operaia e l’affittacamere. Non ha idea di dove vuole arrivare, ma forse proprio per questo riesce ad arrivare un po’ ovunque: in basso e in alto dove non esistono categorie prestabilite e dove non valgono le regole della società borghese. 

Per molti anni girerà con delle compagnie teatrali itineranti, incarnando ruoli che si ispirano alla bella donna spregiudicata che lei, in quegli anni, indubbiamente è. Bella e spregiudicata, ma anche lunatica, inaffidabile, imprevedibile. Presente e assente al contempo. Ansiosa di vivere tutte le esperienze con l’audacia dell’avventuriera nata, che non accetta l’idea del limite.

Sarebbe stato facile perdersi in quegli ambienti pseudo-artistici, in cui una donna si considerava esclusivamente l’oggetto del desiderio maschile, un giocattolo usa e getta senza identità propria. Eppure, per via della sua capacità di sottoporsi ad una spietata introspezione, Emmy Hennings riesce, di volta in volta, a stabilire il giusto equilibrio tra il suo essere protagonista e osservatrice. Né si vergogna, né si giustifica, né reclama una sorte migliore per sé. Per quanto possa cadere in basso, chiede pur sempre di essere considerata un essere umano. E non lo chiede soltanto per sé, ma per tutti quelli che vivono disprezzati al margine della società e che, a differenza sua, non sono all’altezza delle proprie esperienze e quindi non sono in grado di raccontarsi.

Solidarietà. Comunanza tra gli uomini – e, in senso più ampio, tra tutto ciò che vive – è un sentimento che sembra si sia perso sulla strada verso un mondo illuminato in tutte le sue parti, pulito da ogni residuo di sporcizia e ottimizzato in tutti gli aspetti quotidiani della convivenza sociale. In un mondo, però, dove non c’è più bisogno dell’altro, in cui l’altro diventa una specie di altro assoluto, è impossibile riconoscere se stessi. È nei bassifondi della società, tra gli umiliati e offesi di questa terra, che Emmy Hennings trova il vero significato della parola compassione.

Una vita sulla soglia, sempre in pericolo di cadere definitivamente.

Verso il 1909, entra in contatto con gli ambienti della bohème letteraria, facendo, in breve tempo, quel salto di qualità che le permette di sperimentare tutte le sfumature del suo talento. Non si esibisce più nei varieté, ma nei migliori cabaret di Monaco e di Berlino. Come musa e amante di importanti scrittori e poeti dell’epoca lei stessa comincia a scrivere.

Nonostante la mancanza di educazione formale, si nota fin da subito una freschezza di stile e la rara capacità di raccontare la vita in tutti i suoi aspetti senza abbellirla.

Le sue condizioni di vita sono ancora precarie, ma sarà l’incontro con lo scrittore Hugo Ball (1886-1927) a dare una svolta definitiva al suo destino. Non tradirà mai la sua natura trasgressiva, ma l’amore per questo uomo, apparentemente il suo opposto, sarà da ora in poi per sempre il centro della sua vita.

Insieme a lui si aprono orizzonti del tutto inaspettati.

Prima a Zurigo, dove nel 1916 fondano il Cabaret Voltaire, un importante punto d’incontro del movimento d’avanguardia DADA, poi ad Agnuzzo, un piccolo paese sopra il lago di Lugano, dove la coppia prende dimora dopo il distacco dal movimento e dove lei, anche dopo la morte prematura del marito, rimarrà per il resto della sua vita.

Corpo e anima.

Edonismo e spiritualità.

Già nel 1911, pur continuando la sua vita da girovaga, Emmy Hennings si è convertita al cattolicesimo. La sua fede è ingenua e senza secondi fini. Come una bambina si rivolge a Dio nel modo più diretto e personale. Sebbene l’approccio al cattolicesimo di Ball fosse molto più intellettuale, è proprio la fede che unisce queste due persone apparentemente così diverse per natura e formazione. Delusi entrambi dalla superficialità degli ambienti artistici, praticano – sia per convinzione che per necessità – uno stile di vita spartano, quasi monastico. Per lei, Hugo Ball è l’uomo con cui posso pregare mentre, per lui, lei è l’amore. Niente spiegazioni.

Quasi da un giorno all’altro la vita di Emmy Hennings si trasforma radicalmente, eppure, viste da vicino, le sue due vite, quella prima e dopo l’incontro con Hugo Ball, sembrano espressioni estreme della stessa ricerca di verità.

Da una parte e dall’altra.

Da una parte, la loro esistenza, senza reddito fisso e senza prospettive future precise, è segnata da inimmaginabile povertà, dall’altra dal lavoro letterario molto intenso di entrambi. Mentre Hugo Ball si dedica agli studi teologici – in particolar modo alla mistica cristiana – Emmy comincia ad elaborare il suo passato a livello letterario. Conducono una vita piuttosto solitaria, più congeniale sicuramente a lui che a lei, abituata alla frenesia della precarietà.

Tuttavia, proprio in questi anni, nasce una importante amicizia, quella con Hermann Hesse che è un vicino di casa, fuggito anche lui dalla Germania negli anni dopo la fine della Prima guerra mondiale. Uniti dallo stesso desiderio di trovare nuove forme di spiritualità, e, conseguentemente, di vita alternativa, questa amicizia è altrettanto preziosa per tutti e tre: per Ball e Hesse come possibilità di scambio intellettuale tra pari, per Emmy come riferimento letterario e umano di tipo paterno. La sua ammirazione per Hesse è incondizionata, mentre lui apprezza in lei l’immediatezza di un intuito infallibile: È totalmente impossibile ridurre questa vita (quella di EH) ad una formula razionale.

Dopo la morte di Hugo Ball nel 1927, Emmy Hennings di dedica quasi esclusivamente al lascito del marito, cercando di promuovere i suoi scritti e i libri che lei stessa scrive in memoria di lui. Di tanto in tanto fa qualche viaggio in Italia e in Germania, ma Agnuzzo, quel piccolo paradiso fuori da mondo scoperto insieme a Hugo Ball, rimane il centro della sua vita: un luogo sicuro in una vita sempre incerta, segnata da costanti difficoltà economiche e crescenti problemi di salute.

Eppure, Emmy Hennings non si abbatte. Continua a scrivere e, per mantenersi, si adatta alle necessità del momento, accettando, come ha sempre fatto, i lavori che le capitano senza lamentarsi.

Nella misura possibile, non smette a lottare per una vita autonoma, all’insegna della libera ricerca di verità profonde.

Nel 1948, a 63 anni, muore di polmonite.

Poco prima aveva annotato nel suo diario:

“Non mi si deve rimproverare, perché ho tentato di accendere qualche stella in questo mondo. Non avevo delle cattive intenzioni. Che Dio mi protegga, spero che non mi capiti mai di dover usare la lingua degli uomini sani. La nostra vita, la si può raccontare solamente in sogni confusi”. 

*

Il marchio di fuoco

“Quando sto alla finestra penso che la parte superiore, cuore e petto, appartengono a Dio, quanto alla parte in basso, se la prenda pure il diavolo”.

Dagny, la protagonista del Marchio di fuoco, è Emmy Hennings.

La sua inquietudine, la sete di vita e la ricerca di una dimensione più spirituale rispecchiano le esperienze autentiche dell’autrice. Non a caso, questo diario, una specie di confessione, è il primo libro che scrive dopo essersi trasferita, nel 1920, ad Agnuzzo insieme a Hugo Ball. In questo senso è la testimonianza, allo stesso tempo, di una fine e di un inizio.

Con tenera spietatezza rievoca le tappe di una vita spericolata senza filo conduttore che, tuttavia, mira, con tutto quello che fa e subisce, a trovare il significato nascosto dell’esistenza umana.

Il marchio di fuoco è un libro sulla prostituzione, eppure non ha nulla di voyeuristico. L’io narrante, l’alter ego di Emmy Hennings, fa la vita non perché è costretta, ma perché sente un’attrazione irrefrenabile per quel mondo proibito, in cui il principio della compravendita appare in tutta la sua brutale chiarezza. Attraverso il suo corpo, l’unica merce che ha da vendere, la protagonista smaschera i meccanismi della società borghese che classifica l’uomo in base alla sua utilità. In fondo, quel mondo segreto, disprezzato e rinnegato dai benpensanti, funziona secondo le stesse leggi che governano la società a modo: da una parte ci sono quelli che tramite il loro potere d’acquisto si assicurano una posizione privilegiata, dall’altra l’esercito dei perdenti che lotta, ognuno come può, per la mera sopravvivenza.

Attraverso dei piccoli frammenti di vita, l’autrice ci accompagna in un mondo che nella letteratura non esiste per il semplice motivo che i suoi protagonisti, almeno in epoche passate, non ebbero la possibilità di far sentire la loro voce. Con gli occhi al contempo ingenui e acuti di Dagny possiamo vedere quelle persone che – per dirlo con le parole di Bertolt Brecht nell’Opera da tre soldi – stanno al buio e che di solito non possiamo conoscere: dei miserabili, sfruttati e incapaci di prendere in mano la propria vita, eppure, in quanto sognatori dello stesso sogno di bellezza e interezza, nostri fratelli.

Emmy Hennings ci racconta il mondo del Tingeltangel in modo vivace e senza giudizio, sempre pronta a cogliere non soltanto lo squallore e la bassezza, ma anche i momenti di inaspettata umanità e solidarietà tra i protagonisti.

Ciò che la distingue da loro è l’occhio vigile di chi vive e, al contempo, si osserva vivere:

“Che io possa essere consapevole della mia vita, che mi possa sentire, percepire nello spazio, tenermi, mantenermi, questa è la mia professione”.

In questa prospettiva, Il marchio di fuoco è molto di più di un semplice diario: è un libro in cui la vita osserva se stessa al lavoro, senza sciogliere l’inevitabile contraddittorietà, senza pretendere di trovare una risposta definitiva e, nonostante tutto, senza perdere la speranza. Per quanto lontano dal nostro mondo e dal nostro modo di percepire la realtà, in fondo, facciamo parte anche noi di quel grande teatro itinerante dove alla fine si salvano tutti – o nessuno.

Stefanie Golisch

*Stefanie Golisch ha curato il libro di Emmy Hennings, “Il marchio di fuoco”, per le Edizioni saecula, 2023

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