Un diamante con molteplici, variegate sfaccettature: così Virginia Woolf descriveva la personalità, un insieme frastagliato, mai univoco, sempre in movimento.
Lo stesso si può dire di Emily Dickinson, che ancora oggi continua a offrire al lettore sciami di ritratti interiori.
Emily bambina cacciatrice di dolcezze.
La scolara disubbidiente, “indipendente come un sole”.
L’amante delle nuvole, di giardini e animali.
L’incantatrice di suoni in ascolto dei “pianoforti dei boschi”.
La figlia arrendevole custode della Homestead.
La vestale della parola che trascrive i “bollettini dell’immortalità”.
Il fantasma bianco della leggenda.
La “cometa solitaria” tesa all’altrove.
L’esploratrice del “mistico territorio” della passione, dell’amore umano.
E di amori Emily Dickinson ne ha avuti molti. Per la poesia, per gli amici e la cognata Sue, “noi due, gli unici poeti”, per il giardino di casa in cui intravedeva foreste, per l’amatissimo nipote Gilbert, morto bambino, per gli uomini che sono entrati nella sua vita per aver colpito la sua immaginazione. Per loro Emily ha respirato e ha scritto, lettere e versi.
Come sottolinea appropriatamente Bacigalupo nella nota introduttiva Amore ad Amherst, nella strategia amorosa di Emily Dickinson, “moglie-musa segreta” (p. 4), è presente una forte componente di “gioco letterario” (p. 6). Così è con l’affascinante amico giornalista e viaggiatore Samuel Bowles, a cui Emily invia versi sconcertanti, insieme conoscenza dell’abisso e proiezione in parole della passione immaginata:
Title divine – is mine! The wife – without the Sign! Acute Degree – conferred on me – Empress of Calvary!
Ho un titolo divino la sposa senza il segno! Acuto onore a me accordato, imperatrice del Calvario! (p. 120)
Versi che travolgono come una bufera, di chi scrive fuori da ogni norma: per la violenza dei sentimenti, anche solo sognati, per le immagini, per la punteggiatura anarchica e il ritmo insieme convulso e dolente. L’amore sembra essere un “bottino ultraterreno”.
Il gioco di maschere continua con il pastore Charles Wadsworth, “il mio pastore, il mio Filadelfia”, forse il destinatario delle strepitose “Lettere al Maestro”: entrambi sono contemplatori di cieli, corteggiatori di nuvole e fiori. Quando lo sente predicare, mentre è ospite di cugini a Filadelfia, per Emily è una sorta di rivelazione. Conia dunque il mito della “Margherita”, che corteggia il sole aspettando la notte. Oppure si fa lei stessa corolla:
I hide myself within my flower, That fading from your Vase, You, unsuspecting, feel for me – Almost a loneliness.
Io mi nascondo nel mio fiore, perché quando appassisca nel tuo vaso, senza saperlo tu provi per me quasi una solitudine. (p. 107)
E più intenso che mai il “gioco letterario” continuerà con l’ultimo amore per il posato, maturo giudice Lord, “il mio Salem”. A lui Emily scrive lettere dense di passione, per lui scandisce il “mistico territorio” dell’amore con accenti che sfiorano il silenzio, si fa ascetica, monaca, sposa reale e purissima. Misura la gioia degli amanti sul passo del paradiso:
“questa notte vorrei che la mia guancia si consumasse nella tua mano. Accetterai lo spreco? – gli scrive – La notte è il mio giorno preferito…”.
Quando il “pieghevole corteggiatore che vince alla fine”, la morte, le porta via Otis pochi mesi dopo il piccolo Gilbert, Emily si ferma, sgomenta, come le sia stato sottratto il suo mondo di segni: “Sapessi pregare, l’intuito mi guiderebbe a intercedere per il suo piede, ma sono pagana…”.
Rimasta sola, è tentata di lasciarsi andare, come il pettirosso che lascia il nido vuoto dopo che il compagno è scomparso. La sua poesia sconfinerà sempre più con l’arcano, in un enigmatico scambio d’indizi, una ricerca di tracce, suoni, ombre:
You left me – Sire – two Legacies – A Legacy of Love A Heavenly Father would suffice Had He the offer of –
You left me Boundaries of Pain – Capacious as the Sea – Between Eternity and Time – Your Consciuousness – and Me –
Tu mi lasciasti, amore, due retaggi: un retaggio d’amore che appagherebbe anche il Padre Celeste, se a lui venisse offerto;
e mi lasciasti regno di dolore capaci come il mare, fra l’eterno ed il tempo la tua presenza e me. (p. 85)
Anche lo stile, sempre conciso, si fa più scarno, scava l’essenza.
La scrittura di Emily, distante pochi decenni dai romantici inglesi, è l’espressione della modernità di un’America che ha già creato il proprio “mondo nuovo” in letteratura, in poesia, nel gusto e nella sensibilità.
Come scrive Massimo Bacigalupo, “alla musica onirica dei Sonetti di Shakespeare e di Keats, le cui sillabe sembrano sciogliersi sulla lingua comunicando l’estenuarsi del desiderio, Dickinson risponde con la sua prosa asciutta, prodotto […] di un fai-da-te della campagna americana, come una trapunta, un utensile degli shaker, una torta allo zenzero” (p. 8):
The Soul selects her own Society – Then – shuts the Door – To her divine Majority – Present no more –
L’anima sceglie i suoi compagni E poi chiude la porta; la sua divina maggioranza estranei non sopporta. (p. 43)
La lingua nobile delle traduzioni di Margherita Guidacci e Ariodante Marianni rende elegante incisività a queste Poesie d’amore. In filigrana, resta la luce accesa dall’anima di Emily, l’orma di lei sul prato della Homestead, il suo viaggio alla velocità delle stelle:
The Poets light but Lamps – Themselves – go out – The Wicks they stimulate If vital Light
Inhere as do the Suns – Each Age a Lens Disseminating their Circumference –
Accendere una lampada e sparire – Questo fanno i poeti Ma le scintille che hanno ravvivato –
Durano come i soli – Ogni epoca una lente Che dissemina La loro circonferenza –