Riecheggia nell’aria da settimane lo stonato ritornello che canta di un auspicato ritorno alla normalità. Con il sottinteso, tragicomico, che per l’agognato ritorno a siffatto status quo bisogna affidarsi alla tecnologia, perché il nostro futuro dipende dalla tecnologia, la nostra felicità dipende dalla tecnologia, il mondo intero dipende dalla tecnologia. E chi se ne fotte che non solo Dio, ma anche l’anima, la cultura, la ricerca dell’infinito e dell’inferno, dei fantasmi e dei demoni siano morte: importa solo che in tutte le nostre strade ci sia la fibra.
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Di solito rifuggo il mondo lì fuori (o qui fuori), perché non m’appartiene e mi dà la nausea. Ma poi un sorriso mi pervade quando mi rendo conto che il mondo lì fuori (o qui fuori) è talmente scontato, banale e previsto, che non vale la pena nemmeno lasciarsi intaccare o deprimere. E quindi, questo desiderio di ritorno ‘alla normalità’, quando la normalità (nella sua sana accezione) la si è persa da decenni, diventa ai miei occhi l’ulteriore manifestazione di pochezza dell’umana specie. Così come questa delirante aspirazione e assuefazione alla tecnologia e alle macchine quale unica salvezza. Senza il minimo dubbio che dietro l’angolo ci sia solo e soltanto una dissipatio. C’è Guido Morselli che annuisce, qui accanto a me; ma è Emil Cioran, che mi tende la mano. A cui tendo la mano.
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Mi indica il suo memorabile scritto La caduta nel tempo (edito da Adelphi, sia sempre lode a Calasso), lo prendo dalla libreria e ne colgo dei sanguinosi stralci: “Se il ‘progresso’ è un male così grande, come mai non facciamo nulla per disfarcene senza ulteriori indugi? Ma noi vogliamo il bene? O non siamo piuttosto destinati a non volerlo realmente? Nella nostra perversità, quel che cerchiamo e inseguiamo è il ‘meglio’: ricerca nefasta, del tutto contraria alla nostra felicità. Non ci si ‘perfeziona’ né si progredisce impunemente. Sappiamo bene che il movimento è un’eresia; e proprio per questo ci tenta, ci avventiamo su di esso e, irrimediabilmente depravati, lo preferiamo all’ortodossia della quiete. Eravamo fatti per vegetare, per dispiegarci nell’inerzia, non per perderci nella velocità. (…) Avemmo dovuto, pidocchiosi e sereni, limitarci alla compagna delle bestie, marcire ancora accanto a loro per millenni, respirare l’odore delle stalle piuttosto che quello dei laboratori, morire delle nostre malattie e non dei nostri rimedi, girare attorno al nostro vuoto e sprofondarvi dentro dolcemente. All’assenza, che avrebbe dovuto essere un dovere e un’ossessione, abbiamo sostituito l’evento: ora, ogni evento ci intacca e ci corrode, poiché non si produce se non a scapito del nostro equilibrio e della nostra durata. Più il nostro avvenire si restringe, più ci lasciamo cadere in ciò che ci rovina. La civiltà, che è la nostra droga, ci ha talmente intossicati che il nostro attaccamento ad essa presenta i caratteri di un fenomeno di assuefazione, mescolanza di estasi e di esecrazione”.
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Cioran sembra aver scritto queste parole domani. Parole che fra decenni, fra secoli, saranno ancora visionarie. Parole che rimangono e rimarranno inascoltate. Il progresso, la tecnologia, tutti gli orpelli inutili spacciati (il verbo è quanto mai voluto) quali necessari. Bisogna rifarsi ancora a Emil, autore sempre poco letto e sempre più necessario: “La civiltà ci insegna come impadronirci delle cose, mentre dovrebbe iniziarci all’arte di privarcene, giacché non c’è libertà né ‘vita vera’ senza il tirocinio dello spossessamento. Io mi approprio di un oggetto, me ne considero padrone, in realtà ne sono schiavo, come sono schiavo dello strumento che fabbrico e maneggio. Non c’è nuova acquisizione che non significhi una catena in più, un fattore di potenza che non sia causa di debolezza. (…) Tutto ciò che possediamo o produciamo, tutto ciò che si sovrappone al nostro essere o da esso precede, ci snatura e ci soffoca”.
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Non vivrò abbastanza decenni per vedere deragliare questo treno in corsa. Ma cercherò di viverli, questi decenni, cercando di affrancarmi dalla ‘normalità’. Perché, per chiudere ancora con Cioran: “Come guarire dall’ossessione dell’assoluta ‘normalità’? Come fare per essere un salvato o un decaduto qualunque? La nullità, l’abiezione, qualsiasi cosa, piuttosto che questa perfezione malefica!”.
Cosimo Mongelli