19 Febbraio 2024

“Occorre avere un’anima che soffra”. Le lettere di Emil Cioran

La promessa è sgargiante. Gallimard ha appena mandato in orbita libraria un volume che raccoglie le “lettere scelte” di Emil Cioran. Il titolo, Manie épistolaire, è noto ai ‘cioraniani’: così s’intitola un testo di Cioran uscito, in origine, nel 1985, ripreso nel 1993 sulla “NRF”, ripubblicato come Ouverture di questa recentissima pubblicazione. Cioran, tra l’altro, si dilegua parlando di Madame du Deffand, leggendaria scrittrice di lettere, sovrana dei salotti francesi del Settecento: all’audacia dell’intelligenza costei fondeva la bellezza, rapace. Sorprende sempre che Cioran, pensatore eremita, sia affascinato da figure pienamente ‘mondane’: il dionisiaco si stempera nel mondato, nel verbo affettato, affetto da tonsura. Essere nel mondo dandogli scacco matto.

In Italia la storia fascinosa di Madame du Deffand è narrata da Benedetta Craveri, per Adelphi, che è poi l’editore italiano di Cioran. In verità, Cioran ci informa che sono le donne le più sagaci scrittrici di lettere: verbo che s’insinua nei labirinti della carne, pagina fitta di frasi-rettili (il ‘rettilineo’ è quoziente virile). Da tempo, la donna ha smesso la superiore attività epistolare per ‘fare carriera’, come un uomo qualsiasi. Tagliamo corto: in Italia il testo di Cioran, Mania epistolare – di cui qui si dà altra traduzione – è stato tradotto da Raoul Bruni nel 2007 in un libro edito da Il Notes Magico, Mon cher ami. Lettere a Mario Andrea Rigoni.  

Torniamo a noi. Così dice la ‘quarta’ del libro appena stampato da Gallimard:

“Selezionate dalle diverse migliaia dell’archivio personale di Cioran, le centosettanta lettere qui riunite, per la maggior parte inedite, sono indirizzate alla famiglia e agli amici, in Romania e poi in Francia, a coetanei e lettori. In particolare, incontriamo Aurel, il piccolo fratello seminarista, Mircea Eliade, Carl Schmitt, Jean Paulhan, François Mauriac, María Zambrano, Samuel Beckett, Armel Guerne, Roland Jaccard, Clément Rosset ma anche la “Zingara”, la sua ultima storia sentimentale”.

Il libro è opera d’archivio di Nicolas Cavaillès, scrittore, che per la “Bibliothèque de la Pléiade” ha curato le opere di Cioran. “Quasi due terzi di queste lettere sono inedite in Francia”, dichiara nella nota editoriale: dato che alimenterà i desideri dell’editoria nostra, che ha sviscerato in lungo e in largo l’opera di Cioran, pubblicandone finanche le frattaglie. In questo repertorio minimo abbiamo tradotto una lettera giovanile: Cioran ha 19 anni e narra il proprio sentimento d’insensatezza – il destino di essere un feroce contemplativo, un vampiro – a Bucur Ţincu (1910‑1987), saggista rumeno, all’epoca studioso e amico del lunare Emil. In Italia, parte delle lettere ‘rumene’ di Cioran sono state tradotte da Mimesis come Lettere al culmine della disperazione (2013).

Così Cavaillès ha raccontato il libro

“Cioran aveva diciannove anni quando scrisse la prima di queste lettere, settantanove quando firmò l’ultima; la tensione della corrispondenza accompagna la sua vita nelle tre lingue che praticava (romeno, tedesco, francese), dai grandi tormenti del giovane filosofo transilvano al lungo epilogo degli anni della vecchiaia parigina, passando per i tempi più crudi del suo itinerario spirituale, prima e dopo l’esilio. Selezionate da un corpus di diverse migliaia di lettere personali, le lettere qui presentate – indirizzate a familiari, amici, colleghi, lettori e critici – mostrano Cioran in quasi tutte le età della sua esistenza: spesso lo sorprendono nella postura paradossale di un pensatore ritirato, eppure coinvolto nelle disavventure dei suoi contemporanei, partecipe dei loro fallimenti, spesso avvicinati ai propri. Alcune pagine toccano il cuore della coincidentia oppositorum che “squartava” questo singolare nichilista: la lettera al giovane fratello, ad esempio, nella quale il “discepolo dei santi” usa tutte le sue energia per deviarlo dal sentiero religioso; oppure la confessione del 1947 in cui l’eremita del Quartiere latino afferma, nel pieno di una svolta personale e sentimentale, “io non sono più me stesso”; il pollo inviato dal settantenne a una giovane donna per farle vivere una nuova primavera; oppure le consolazioni a cui il cantore della disperazione ricorre per sollevare il morale a se stesso e al prossimo”.

Che oggi alla lettera, vergata sulla balaustra del destino, si sia sostituita l’immediatezza del whatsapp, la formalità di una mail, l’eloquio incivile di un commento social è segno dello stadio umano che stiamo attraversando.

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Mania epistolare

Avendo avuto la buona sorte di non essermi mai impratichito in una professione né impegnato in libri seri, negli anni ho sempre goduto di un’enorme quantità di tempo, favore riservato, in linea di principio, ai clochard e alle donne. I clochard aumentano di numero, ma non si degnano di scrivere; quanto alle donne, ora preferiscono andare in ufficio, infernali cretine. La lettera è sotto minaccia, perché sono loro a eccellere in questo genere. Oggi non potremmo immaginare una Mme du Deffand, se non la più grande certamente la più profonda tra gli scrittori di lettere. Cieca, insonne, dettava a notte fonda le proprie missive alla segretaria: i prediletti destinatari erano Voltaire e Walpole. Nulla di più acuto è stato detto sulla più devastante delle esperienze: quella della noia, il privilegio di colui che gode di tutto il proprio tempo. Annoiarsi è una tortura ben più dolorosa della fatica, foss’anche quella patita in miniera; noia vuol dire registrare il nulla che cova in ciascun istante con la certezza che il prossimo riserverà un nulla ancora più cupo.

La lettera, conversazione con l’assente, rappresenta il maturo evento della solitudine. Cercate la verità di un autore nella sua corrispondenza più che nella sua opera. L’opera, la maggior parte delle volte, è una maschera. Nietzsche, nei suoi libri, recita un ruolo, si erge a giudice, a profeta, attacca amici e nemici, si pone, superbamente, al centro dell’avvenire. Nelle sue lettere, al contrario, si lamenta, fa il miserabile, l’abbandonato, il malato, il povero tapino, tutto l’opposto di quello che appare nelle sue implacabili diagnosi e vaticinazioni, veritiera somma di diatribe.

Mi è impossibile rileggere i romanzi di Flaubert; le sue lettere, invece, sono ancora vive. Non possiamo dire, tranne tragiche eccezioni, la stessa cosa di quelle di Proust, esasperanti fino all’impossibile, insopportabilmente compiacenti, scritte da un uomo di mondo che ha voluto a tutti i costi celare le tracce della propria vita. Non sono mai stato tentato di rileggerle, mentre gli ultimi due volumi della “Recherche”, Il tempo ritrovato – gli scritti più sottili e commoventi sull’ignominia dell’invecchiare – li leggo e li rileggo con avidità quasi convulsa.

Lasciamo i grandi esempi. In questo dominio dove l’indiscrezione è la regola, ciascuno ha avuto esperienze personali ed è legittimo parlare di sé senza necessariamente cadere nel peccato d’orgoglio. Avendo il vantaggio, come ho detto, di vivere nell’ozio, ho scritto un numero considerevole di lettere. Per la maggior parte, sono perdute, soprattutto quelle della mia giovinezza. Se lo deploro, non è per il loro valore oggettivo ma perché soltanto attraverso di esse potrei riscoprire chi ero prima del mio arrivo in Francia, all’età di ventisei anni. In mancanza dell’unico mezzo per ricostruire quel personaggio, ne serbo un’immagine astratta.

Abitavo in una cittadina di provincia, scrivevo a un’amica di Bucarest, attrice e… metafisica, lunghe lettere sulla mia condizione di folle senza follia, che è appunto lo stato di chi è disertato dal sonno. Ebbene, deve avermi detto, qualche anno fa, di aver gettato nel fuoco, per una sorta di terrore tutt’altro che metafisico, le mie elucubrazioni epistolari. Così, è scomparso l’unico capitale documento sui miei anni infernali. I cinque libri che ho scritto in rumeno a quell’epoca, mi sono più o meno estranei, li trovo vivaci e illeggibili.

Infine, i libri sono accidenti; le lettere sono eventi: da qui la loro sovranità. Molto più delle nostre, contano però quelle che riceviamo. Quando, nel 1949, pubblicai Précis de décomposition, la mia prima opera in francese, nella mansarda di un hotel del Quartiere latino, ricevetti da una sconosciuta una lettera esaltata fino al delirio, che mi fece dire: “Dunque, procedere a scrivere è inutile. La tua carriera è terminata”. Sperimentai un senso di apogeo e di fine. Febbricitante, con il cuore in subbuglio, uscii per strada, incapace di restare solo. La mia esistenza da eterno studente acquistò un senso. L’autrice di questa lettera, una provinciale piuttosto giovane, che incontrai più tardi una volta soltanto, mi raccontò alcuni dettagli inauditi sulla sua vita che mi è impedito rivelare.

Al fannullone, lo scambio epistolare dona l’illusione dell’attività. Niente lo lusinga quanto depositare una lettera alle poste. Per molto tempo ho intrattenuto una corrispondenza del tutto inutile con una schiera di squilibrati. Ma è con le donne, tuttavia, più o meno squilibrate, che lo scambio epistolare serba un sapore intenso, dacché non sai mai dove andrà a parare. Da oltre un anno, una signora mi rivolgeva regolarmente elogi smisurati, ditirambi che mi facevano impallidire di vergogna. Non la conoscevo, non avevo alcuna voglia di conoscerla. Un pomeriggio, in preda a un eccesso di cupa malinconia, ho sentito il brusco desiderio di udire aggraziate bugie, rassicuranti, capaci di disancorarmi dagli insidiosi e convincenti argomenti con cui disprezzavo me stesso. Chiamai la signora. Fu sorpresa: la voce avviluppata, irresistibile. Le dissi che sarei stato felice di chiacchierare un po’ con lei. Un’ora dopo era davanti alla mia porta. Quando la vidi, mi misi a ridere: lei non sembrò turbarsi. Era una vecchia, arcigna, piccola, quasi nana, abbigliata in modo stravagante, con occhiali neri. L’ho fatta entrare, l’ho lasciata parlare. In piedi, per quattro ore, mi ha raccontato tutta la sua vita, con gesti e dettagli (non dimenticò nulla, neppure la prima notte di nozze), con un inatteso talento e un linguaggio a tratti raffinato, a tratti crudo, che mi ha fatto passare dallo sgomento alla tenerezza, dal disgusto alla complicità.

Che peccato che sia il solo a sorbire tale meraviglia e tale orrore!, mi dicevo. Inutile precisare che restai muto tutta la sera. Perché ho assistito a quella insigne esibizione? A causa della morbosa curiosità che nutro verso gli altri esseri, per la mia mania di scrivere lettere e di rispondere a chi me le invia.

Ora non posso più contare su questa mania. Mi ha abbandonato, e tale diserzione mi insegna, ben più dei sintomi di ogni altra sorte, che d’ora in poi debbo accontentarmi di un vile ruolo da sopravvissuto.

Emil Cioran

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A Bucur Ţincu, 2 novembre 1930

Caro amico,

ti scrivo queste righe da un café qualunque della capitale, perché a casa mia fa freddo e, malato come sono in questo momento, non riesco più a leggere, soprattutto al freddo. La biblioteca è chiusa di domenica, dunque sono costretto a perdere tempo, lo sguardo fisso nel vuoto, come le persone indolenti e senza valore che si impigliano nel vanto della malinconia e giocano con la contemplazione esistenziale.

Il fatto che la vita non mi offra nulla di consono alla condizione borghese né alcun confinamento in un quadro rigido e indistruttibile, tale da farmi perdere ogni presa diretta con la realtà, questo fatto, dico, presenta, per me, a parte i soliti inconvenienti, alcune caratteristiche di una feconda vitalità. Se posso accordarmi un merito, una qualità personale, questa è la mia viva sensibilità alla realtà, dovuta all’eliminazione di tutte le illusioni. Non ammetto per me alcun ideale, alcun sogno, alcuna esaltazione. Trovo che l’osservazione realistica dell’esistenza sia più sublime della sua puerile esaltazione.

Non riesco a inscrivermi nel tipo attivo e passionale; preferisco il contemplativo e il freddo. Alcuni discettano che è brutto essere così. Poco m’importa, perché a me sta bene. E poi, in nome di quale fatalità fedifraga dovremmo recluderci nella struttura di un carattere specifico? Per me, tutto si riduce alla comprensione della vita. Ora, per questo, occorre menare un’esistenza meno borghese, avere un’anima in tormento, che soffra, che soffra con insistenza, un’anima che vive la sua vita intera guardandola etc.

Ti ho già detto che il mio ideale sarebbe un’antropologia che non comprenda soltanto dati scientifici, ma anche e soprattutto un tentativo di caratteriologia. Questo è un desiderio che al momento mi è impossibile realizzare; occorre una ricca esperienza di vita per tentare una simile impresa. Ad oggi, mi preoccupano i problemi di filosofia pura: lo spazio, il tempo, il caso, il numero etc., che mi sono particolarmente simpatici. Ho rinunciato categoricamente a ogni filosofia sentimentale, a questioni frammentarie e sterili che conducono soltanto al lamento e all’esclamazione patetica. La materia “arida” acquista un contenuto vibrante, nel continuo confronto. Per me, il modo migliore di vincere la malinconia è ricorrere a problemi astratti e impersonali. Questo è un ammirevole metodo per superare le asperità della vita e dimenticare ciò che manca alla propria esistenza individuale. La filosofia come l’ho praticata finora, non è propriamente filosofia. Dire della vita che è dinamismo, tensione, slancio, che è buona o cattiva, non è filosofare. Si tratta di semplici esclamazioni o apprezzamenti che dovrebbero essere permessi soltanto al termine di alcune indagini. Se la vita ti disgusta, non dovresti ricorrere a Baudelaire, ma a uno studio di Leibniz sull’estensione, per esempio, alla critica del principio di causalità di Hume, oppure, se vuoi qualcosa di più interessante, agli argomenti di Zenone contro il movimento.

Parlo per esperienza personale. Come puoi combattere la tristezza con la tristezza, come puoi lottare contro di essa con la poesia? Per quanto sembri paradossale, devo dirti che a mio avviso le persone tristi dovrebbero concentrarsi sulla matematica e abbandonare la poesia. Soltanto l’oggettività della matematica può superare il soggettivismo dell’ispirazione poetica o il lirismo della tristezza; per questa ragione, ho smesso, molto tempo fa, di leggere libri che trattano di problemi sociali, che mi consegnano all’anarchia totale. Un giorno riprenderò anche tali letture. Ma prima devo chiarire alcune cose nel dominio della metafisica, che mi ispira diversi dubbi e il cui avvenire è del tutto problematico. Ciò di cui ti chiedo di parlare, nelle lettere, riguarda piuttosto le persone, i tuoi intimi orientamenti in ambito filosofico. Come vedi, ho rinunciato alla teoria in favore del dettaglio che, se non è importante, è per lo meno interessante.

Con amicizia,

Emil Cioran

Gruppo MAGOG