07 Novembre 2023

“Io sono un enorme luogo comune”. Emanuel Carnevali, il poeta maledetto

Manolo, il maudit. Perché questo, soltanto questo, sembra essere Emanuel Carnevali per quanti lo conoscono e lo frequentano: il poeta maledetto, l’irregolare, il ribelle: maledetto, come hanno voluto la storia e il misconoscimento, la riscoperta e il culto.

E allora maledetto, d’accordo. Perché come può non esserlo uno che nasce – nella Firenze del 1897 – da genitori già separati, che perde la madre per droga quando ha undici anni e che a sedici deve letteralmente implorare il padre – «per dormire tu sai ch’io mi adatto molto volentieri. Una branda, un materasso messi in qualsiasi posto mi sono più che sufficienti» – di dargli un giaciglio e due lire perché possa finire la scuola?

Maledetto eccome, se pochi mesi dopo aver ottenuto il reintegro nella casa paterna rovescia una volta di più il tavolo e fugge in America – è l’aprile del 1914 – dove tra lavori precari e amori instabili, tra fierezza di sé e brama di riconoscimento diventa del tutto insospettabilmente poeta, poeta americano e poeta tra i più in vista di quel rinascimento modernista incarnato dalla rivista «Poetry»?

Maledetto senz’altro, se al culmine di questa repentina parabola, tra il 1921 e il 1922, comincia ad avere un breakdown dopo l’altro, fino ai tremori e alla diagnosi terribile – encefalite letargica – che lo costringe a rientrare in Italia e a passare gli ultimi vent’anni di vita dentro e fuori alberghetti e sanatori, tra allucinazioni sempre più roventi e tentativi disperati di nuove cure, scrivendo come può e quando può – mai del tutto dimenticato dagli «amici americani», tra i quali Ezra Pound.

Maledetto, allora, nessuno lo neghi e nessuno gli tolga questo quarto di nobiltà. Maledetto, sì – ma prima e al di qua del maledettismo: poeta. E proprio per rispetto alla sua storia, alla sua persona e alla sua arte bisognerà bene cominciare, a più di ottant’anni dalla sua morte, a lasciare da parte la vita storta e i suoi accidenti – ché quale vita non è storta, e perché una vita storta dovrebbe dare patenti d’artista – per concentrarci una buona volta sui talenti di Carnevali e sulla responsabilità con cui li ha trattati.

Ecco, allora, perché riprenderlo oggi, perché parlarne ancora, perché ritradurre – come ho di recente fatto con l’antologia Finché Dio ci vede (Ares, 2023) – parte dei versi già noti in Italia e una buona manciata di inediti riemersi l’anno scorso dagli archivi grazie alle edizioni Sublunary Press di Seattle. Perché Carnevali sarà pure maledetto, ma è soprattutto poeta e – al di là degli esiti discontinui – poeta di vaglia.

Un poeta che ha una visione del mondo, che guidato da questa visione osserva il mondo e affina il suo criterio, in un circolo virtuoso – quello che dovrebbe essere il fondamento di ogni azione artistica – di visione, riconoscimento, cognizione e revisione. E una scrittura che si muove sul crinale tra l’adesione al mondo così com’è e la nostalgia di un mondo più vero, di un eden mai vissuto ma fortissimamente presentito.

C’è una lettera del 1917 in cui Carnevali, descrivendo a Waldo Frank la profonda impressione fattagli dalle prime cento pagine del suo romanzo The Unwelcome Man, tocca tutti i punti più caldi della sua voragine esistenziale e del suo tradursi in scrittura: la mancanza di una base sicura, la società come consesso fondato sul luogo comune, il compito dello scrittore come baluardo contro l’inautentico:

“I ragazzi sensibili scappano dal vuoto con mezzi quasi miracolosi e sono certo che molti non possono scappare… In effetti, Quincy [il protagonista del romanzo, ndt] non può… Io non sono il ragazzo del vostro libro, ma sono molto simile a lui… La mia infanzia è stata molto più brutta della sua e mi viene in mente adesso che non ho mai vissuto, amato o detto ciò che volevo dire…”

(A Waldo Frank, estate 1917)

Avere finalmente una voce e una voce sincera: ecco per Emanuel il fascino della poesia. Perché la vita non è vita se non è in comune, ma la vita in comune si comunica per mezzo di frasi fatte. E a questa divaricazione, a questa dicotomia tra il comunicarsi parole e il comunicarsi l’anima, la poesia permette di rispondere:

“Per quanto complicate le cose che si aggirano nell’anima dell’uomo il suo parlare è sempre piano e apparentemente senza senso. È una triste verità. Impareranno mai gli uomini a dire altro che frasi fatte? Gli artisti hanno imparato, immagino. Io non ancora, del tutto rovinato come sono dalle conversazioni per luoghi comuni con amici e famiglia eccetera eccetera”.

(A Waldo Frank, estate 1917)

L’atteggiamento di Carnevali verso il luogo comune è tuttavia ambivalente. Se da un lato, infatti, la sua inettitudine a reggere la pur minima convenzione lo spinge di continuo a denudare un re che non solo non è più vestito, ma nemmeno sta più nella sala del trono, dall’altro una sorta di istintiva percezione della bontà del luogo comune, o quanto meno della sua umana necessità, gli ispira una nostalgia e un desiderio di appropriarsene. Perché il luogo comune è l’espressione del common sense, in fondo, e il common sense è a sua volta l’espressione di un sentire consimile, di una consimile appartenenza. Dei non rari componimenti in cui il concetto di luogo comune viene lambito, ce n’è uno, rimasto inedito fino all’autunno del 2022, quando le meritorie edizioni Sublunary di Seattle lo hanno riesumato insieme a numerosi altri, in cui questa ambivalenza è ben illustrata:

Io sono un enorme
luogo comune che rotola
sulle vostre delicate miniature.
Sono un’enorme signora dai piedi così grossi che non può che calpestare i vostri fiorellini.
Sono un’enorme signora che piange sincera come può sulla morte dei bei fiori che i suoi piedi distruggono.

(Dico l’uomo che ha ritrovato intere le sue membra carnali ed esatte)

Un senza patria in cerca di una patria, insomma, ma senza la speranza di una patria. Perché in fondo Emanuel, lungo tutta la sua epopea americana, non proverà mai davvero ad affrancarsi dalla condizione dei beggars, di quegli accattoni e mendicanti che affollano le strade di New York e di Chicago, le sue strade, e di cui si farà cantore, in una sorta di whitmanismo alla rovescia – per cui l’assorbimento nei suoi versi della quotidianità delle metropoli e della povera gente che vi si affaccenda assumono i tratti dell’impossibilità piuttosto che dell’opportunità, dell’inautenticità piuttosto che della genuinità.

L’America idolatra il lavoro, e chi come Emanuel non ce l’ha o non è capace di tenerselo è tagliato fuori da quel luogo comune tanto avversato e al contempo tanto amato. È così che New York, con la sua caotica tentacolarità, si mostra come «una città che vive / di lavori / per gente più forte di me; / di impegni / per una coscienza diversa / dalla mia» (Il furfantello dell’Ovest di Synge).

Né seguire i rituali laici del vivere civile può bastare a colmare il divario tra la figura che si vorrebbe essere e la malapercezione di sé che si vive: 

Nondimeno eseguirò anch’io il rito
di purificazione – lavarmi…
Oh, acqua cara… caro, caro sapone…

Ma poiché sono povero
nessun rito potrà ripulirmi;
in questa stanza affollata
ogni cosa mi tocca,
mi imbratta.
Cominciare una giornata
sentendosi sporco
è andare in guerra
senza crederci.

(Il giorno d’estate – Mattino)

Ci ritroviamo ancora una volta di fronte al cliché del poeta dannato, all’albatro capace di librarsi con eleganza ammirevole in volo, ma goffo e impacciato quando gli tocca zampettare sul pontile. Epperò, se una differenza c’è in questo ennesimo luogo comune che conforma la vita di Carnevali, è l’assumere questa goffaggine come punto di partenza e non come punto di arrivo. Emanuel non cede mai all’orgoglio della superiorità morale: lui vuole stare nella società, lui sente che l’artista ha un ruolo nella società, per incompreso che possa essere. È su questa convinzione che si immola, non su una volontaria separazione dalla borghesia. Per quanto lo critichi, per quanto ne critichi stilemi e meccanismi, Carnevali aspira alla considerazione e al riconoscimento del corpo sociale. È precocissima la sua coscienza di un’etica della scrittura, come ci mostra ancora la lettera a Waldo Frank:

“E c’è ancora un’altra cosa: sono convinto che un autore faccia sempre del bene o del male al mondo con la sua opera: che un autore ha, non può non avere, un significato etico e risultati conseguenti. È un assioma che i libri FANNO”.

(A Waldo Frank, estate 1917)

E le altrettanto precoci invettive verso i colleghi di Others, così profondamente vere da convincere Williams a chiudere la rivista, si concentrano non tanto sulla artificiosità della loro poesia, quanto sul fatto che una poesia meramente artificiosa non faccia che autoisolarsi ed estraniarsi dal rapporto con la società, non assolvendo così al suo compito nel mondo:

“Io non capisco e non capirò mai ciò che voi, amici, intendete quando parlate di nuove espressioni, nuove immagini, originalità. Ciò di cui godo, l’immagine, mi ripaga. Ho bisogno dell’immagine per dire a me stesso che ho visto chiaramente, ma voglio vedere chiaramente per dei fini ulteriori. (…) Io voglio essere ciò che al mondo manca. Se possibile, la bellezza che è l’uomo contro la bruttezza che è l’uomo; se possibile, tutto ciò che al mondo manca veramente. Se il mondo va inevitabilmente verso il nulla, io sarò il solo che ha fatto obiezione, che ha troppo amato la vita per vederla così diffamata, violata e disonorata per amore di un mondo… che va verso il nulla. Se il mondo inconsciamente marcisce, allora sarò l’unico essere cosciente che rifiuta di riconoscere il marcio”.

(Max Bodenheim, Alfred Kreymborg, Lola Ridge, William Carlos Williams)

Emanuel ci lascia nell’autunno del ’42. Dopo di allora, l’oblio. In America, un nome tra gli altri di una stagione un tempo fiorente; in Italia, un poeta di cui mai, di fatto, nessuno ha mai saputo che fosse esistito. In famiglia, un dolce Lete che lo lascia tra i nomi da non pronunciare. La sua riscoperta è un movimento carsico di appassionati, studiosi e cultori che si riconoscono nei suoi versi, nella sua vicenda, nel suo disperato ma indomabile desiderio di adesione alla vita, di benedire e non maledire, come dice il salmo:

Volevo maledire i miei occhi encefalitici,
ma non maledissi nulla, perché il mattino
era bello e avevo pace nel cuore.

(Castelli sulla terra – Le montagne)

Un movimento carsico che dura da più di quarant’anni, da quando Adelphi nel 1978 ne pubblicò per la prima volta l’opera in Italia, e che di passaparola in passaparola è arrivato a oggi, a noi che stiamo qui e ora, a noi che proviamo a ritradurlo e a riproporlo per afferrarlo un po’ di più – e che forse ci crediamo, o forse no, ma in fondo sì, che abbia una volta di più ragione Emanuel. Che il fondo della vita stia nel non riconoscere il marcio, nell’obiettare a un mondo che corre verso la rovina – nell’ammirare Dio, che porta a termine ogni cosa.

In questo caldo muoio
ma potrebbe andare peggio.

Amo mia moglie,
ma dovrei amarla di più.

Sì, amo il mio tesoro – ma il suo amore non è universale.
Una parola basta per descriverla, ma non so quale.

Tutto è più breve di qualcosa d’altro:
Tutto è più come-Dio di qualcos’altro.

C’è una competizione nel caos,
il che è piuttosto sciocco.

Io sono incerto come un ramo di salice curvo
che fa cenni all’acqua.

Ammiro il diavolo che lascia le cose a metà.
Ammiro Dio – che finisce ogni cosa.

(Quasi un Dio)

Daniele Gigli

*Giovedì 9 novembre alle ore 18,30, presso la sede delle Edizioni Ares (via Santa Croce 20/2, Milano) e in diretta Facebook, Daniele Gigli dialogherà con Francesco Napoli e Alessandro Rivali su Emanuel Carnevali e la sua poesia

***

Artistique

With my hands I made a vase
of your neck and chin.
With my hands I put the flower
of your head
in the vase.

*

Artistique

Con le mani ho fatto un vaso
del tuo collo e del mento.
Con le mani ho messo i fiori
del tuo capo
nel vaso.

******

The day of winter – Morning

Without ambition
uncovering putrified –
green-blue, blue-black, gray-green –
thick toxic clouds’ bodies,
the man has come back.
(Inexplicable
stubbornness!)

I was telling myself sometime ago:
when a lake
sees a sky –
that is love;
and thus
when two eyes
see two eyes –
that is love.

Nothing sees anymore,
ashes cover everything.

Love is gone and we’re all here which means
that it isn’t a matter of love.

*

Il giorno d’inverno – Mattino

Senza ambizioni
scoprendo putrefatti –
verde-blu, nero-blu, grigio-verdi –
i corpi spessi e tossici delle nubi,
l’uomo è tornato
(inesplicabile
ostinazione!)

Mi dicevo qualche tempo fa:
quando un lago
vede un cielo –
quello è amore;
o quando
due occhi
vedono due occhi –
quello è amore.

Nessuno vede più,
la cenere copre tutto.

L’amore è andato e noi stiamo tutti qui, il che vuol dire
che non è una questione d’amore.

*****

Not that anyone will ever really understand

Not that anyone will ever really understand
(do I really understand?)
But
look here, I am a lump of badly shaped flesh
which
for all our ugliness suffered
which
with all the dreams of perfection
was lit.
Now, I stand and will stand till I live
screaming!
May be you who sleep
will awake a moment
may be death will stop
reigning so damnably
peaceably
among you,
for a moment.

*

Non che qualcuno capirà mai davvero

Non che qualcuno capirà mai davvero
(io davvero capisco?)
ma
guarda qui, sono un grumo di carne malfatta
che
per tutta la nostra bruttezza ha sofferto
che
da ogni sogno di perfezione fu
illuminata.
Ora sto e starò su finché vivo
gridando!
Forse voi che dormite
vi sveglierete per un momento
forse la morte la finirà
di regnare così dannatamente
pacificamente
tra voi,
un momento.

*Traduzione di Daniele Gigli

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