01 Ottobre 2019

“Io costeggio l’amore, da tanto tempo vivo dimenticata – nella poesia”: vorrei accarezzare la povertà di Else Lasker-Schüler

Vorrei essere lì, vicino a lei, a Zurigo, su quella panchina. Lei dorme, levo le foglie dai capelli, chissà se una carezza facilita i sogni o ne fuga il ferro. “Fugge nell’aprile 1933, senza portare con sé nulla, e nei primi mesi vive a Zurigo in assoluta indigenza, dormendo addirittura ‘vicino al lago, sotto un albero’ e sulle panchine (venne anche arrestata per vagabondaggio)” (Maura Del Serra).

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Il gesto della poesia, spesso, coincide con la caduta, con l’abbandono abbacinante, radicale sradicamento. Che qualcuno ti sollevi – o ti sommerga – è inessenziale.

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Secondo Karl Kraus era “la più grande poetessa lirica che la Germania abbia mai avuto”; Gottfried Benn la considerava “l’incarnazione lirica dell’elemento ebraico e di quello tedesco in una sola persona”. Per troppo tempo anche io mi sono dimenticato di Else Lasker-Schüler, nata 150 anni fa. Come mai? Perché è proprio dei santi l’annientamento, i giusti precipitano nel retro del ricordo – quando accadono, va a testa sotto la Storia. Sono come esuli, esiliati in una ispirazione di diamante.

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Questa poesia contiene tutta Else, con micidiale esattezza.

Io costeggio l’amore nel lume del mattino,
da tanto tempo vivo dimenticata – nella poesia.
Me l’hai detto una volta.

Io so il principio –
non so oltre di me –
ma mi sentii singhiozzare nel canto.

Nel tuo viso il sorriso propizio degli immortali,
quando tuffasti e innalzasti le genti nel salmo
d’amore della nostra melodia.

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Di Else, tra i grandi poeti del secolo, sbriciolata fino all’estremo verso, in Italia, ovvio, c’è pochissimo. Tradotta da Giuliano Baioni per Nuova Accademia nel 1963, la sua opera è raccolta in un libro fondamentale – ma parziale – da Giuntina in Ballate ebraiche e altre poesie (1985; 1995; per la cura di Maura Del Serra). Il resto – La gatta rossa per Sellerio, le lettere a Franz Marc per Einaudi – è sparso, parziale, spesso introvabile.

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Torno a Else da una feritoia, attraverso una storia che ha il clangore di una parabola. La racconta la grande poetessa Lea Goldberg in un libro benedetto (su cui tornerò), che raccoglie le Poesie di Avraham Ben Yitzhak (Portatori d’acqua, 2018). “Andammo al caffè Zikhl. E non appena fummo entrate, vidi Else Lasker-Schüler seduta a uno dei tavoli. Il locale era pressoché vuoto e lei sedeva al suo solito posto, grigia come un pipistrello, piccina, indigente, chiusa in se stessa… La spaventosa miseria, la folle solitudine della grande poetessa. Non avrei dovuto anch’io essere povera, abbandonata e quasi bandita, se non avessi mentito a me stessa sempre, se non avessi peccato nei confronti della verità, della purezza, della poesia? Quel suo stare seduta in quel modo, così tremendo, non era forse il simbolo di tutte le esistenze fatte di ingiustizia, condotte da noi, gli altri, gli scrittori di versi a volte altisonanti?”. Lea Goldberg sancisce una affinità tra purezza e povertà, tra poesia e monastero; anzi, tra poesia e indigenza. Come se la poesia, verso per verso, rubasse tutto al poeta, gli sottraesse tutto – una maledizione in oro.

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Lea Goldberg decide di regalare delle viole a Else, la grande poetessa desolata. Che gesto arcano: regalare ciò che muore a una creatura che muore, l’ultimo urlo di vita. “Comprai un mazzetto di violette, e con passo incerto e la sensazione di avere il viso in fiamme per l’emozione e l’imbarazzo, come una liceale, mi accostai a Else Lasker-Schüler e le porsi le violette. Lei alzò appena il capo, e il suo sguardo percorse il mio volto come se fosse la superficie di un oggetto fastidioso. ‘Questo è per voi’, le dissi. La sua voce bassa, che pareva provenire da un altro mondo, impregnata di una qualche forma di avversione, mi apostrofò: ‘Che volete da me?!’. ‘Questo è per voi’ ripetei. E lei esclamò di nuovo, ancora più risentita: ‘Che cosa volete da me?!’. Allora balbettai con voce fioca: ‘Amo le vostre poesie’. Il suo viso si aprì e s’illuminò, negli occhi le passò un dolce lampo di comprensione, tese la mano e prese le violette senza una parola di ringraziamento. Scappai via in tutta fretta, ma la mia amica di tanti in tanto sbirciava verso quel tavolo e mi riferiva: ‘Non fa che annusarle e sorridere, annusarle e sorridere’”. Non l’uomo, ma la poesia risveglia Else – per la poesia si accetta anche il morbo del niente. Di lei disse quell’altro poeta spiritato dal nulla, Avraham, “È ormai talmente sprofondata nel pozzo che non può più sfiorare con la punta del dito la superficie dell’acqua”.

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Nata da ebrei – il bisnonno fu rabbino – in Germania, scrisse in tedesco: nel 1939 il definitivo viaggio in Palestina, muore a Gerusalemme nel 1945. Quasi che nel suo destino si compisse lo sfascio della Storia – le storie ebraiche redatte in tedesco volgono il massacro in patto: “Vogliamo conciliarci la notte,/ se ci abbracciamo, non moriamo.// Cadrà una grande stella nel mio grembo”.

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Il primo marito, Berthold Lasker, medico, era fratello di Emanuel, tra i più grandi giocatori di scacchi di ogni tempo (fu campione del mondo dal 1894 al 1921, quando lasciò il titolo a Capablanca). Il matrimonio, contratto nel 1894, durò pochi, tormentati anni – Else disse che il figlio Paul, nato nel 1899, non era di Berthold, l’aveva avuto da un “greco e principe”, Alcibiades de Rouan. Abituata a vivere sull’onda del poema, Else si risposta nel 1903 con lo scrittore Georg Levin – ma divorzia dieci anni dopo. Vive da amazzone (“famigerate le mises stravaganti ed orientaleggianti di hippy ante litteram dalla figura efebica, capelli corti, lungo bocchino, pantaloni da odalisca, bracciali e cavigliere a profusione, vistosi anelli di latta o di vetro colorato”), senza altro impegno che la poesia. Ha rapporti intellettuali con Oskar Kokhoschka, Karl Kraus (che chiama “Il Dalai Lama”), Gottfried Benn (“il Nibelungo”), Franz Marc (“Il cavaliere azzurro”), Georg Trakl (“Il cavaliere d’oro”). Qualcuno, sempre, la sostiene, dandole casa, soldi. Nel 1927 le muore il figlio adorato, Paul, e muore anche lei, continuamente – dal 1933 è in fuga dalla Germania, “viene minacciata e percossa dai nazisti durante le apparizioni in pubblico”. Ha rapporti, dall’esilio, in Svizzera prima poi in Palestina, con Klaus e Heinrich Mann, “ma si accentuano le amarezze della povertà e dell’isolamento: i sionisti la ostracizzano per il suo atteggiamento ecumenico e filo-arabo, coerente col sogno di integrazione fra ebrei, arabi e cristiani” (Del Serra).

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Il poeta non ha altra scaltrezza che scaraventarsi, dall’eccezionale munge ciò che lo distrugge. (d.b.)

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Al trasfigurato

Amaro e scarso era il mio pane, morto –
ed ambra l’oro
delle mie guance.

Con le pantere striscio
nelle tane la notte.

È tanta la mia pena nel dolore
crepuscolare… seppure le stelle
mi scendano a dormire nella mano.

Del loro lume tu ti meravigli –
ma la pena
della mia solitudine t’è ignota.

Le belve per le strade
hanno pietà di me; quell’ululare
suona infine amoroso.

Ma sfuggito alla terra, presso il Sinai
trasfigurato tu sorridi –
lontano estraneo passi oltre il mio mondo.

Else Lasker-Schüler

da Else Lasker-Schüler, “Ballate ebraiche e altre poesie”, a cura di Maura Del Serra, Giuntina, 1995

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