Fu una rivelazione, l’idea, finalmente, di essere approdato al libro assoluto, con tutte le assoluzioni. Era nella libreria di mia cugina, Daniela, quindici anni più grande. Non so come fosse finito lì. Lo ammirai per qualche settimana. Poi, dopo una gita dalla zia, mossa faina, sollevo la maglia, ingabbio il tomo, lo porto a casa.
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Il libro era adornato da tavole essenziali che raffiguravano poeti in estasi, imbarbariti dalla quiete dei sensi, al cospetto di paesaggi vertiginosi, rocche micidiali, fiumi di metallo, simili alla sapida spada di un khan, alberi tentacolari, la luna, a perforare il quadro. Le trecento poesie T’ang, stampate in origine nel 1961, da Einaudi, avevo rubato la terza edizione, del 1981, “ristampa identica alla precedente”.
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Nostalgia, fatalità, la natura che incombe, delicata e feroce, la guerra oltre la barriera dell’orizzonte, l’incontro impossibile: questi sono i temi dei grandi poeti dell’era T’ang (per lo più, il nostro VIII secolo), rappresentati dal talento siderale di Li Po, Wang Wei e Tu Fu su tutti. “Nell’ultimo addio, di chi muore, la voce si spegne in gola./ Tra vivi, il distacco s’allunga in angoscia./ Nel Chiang-nan, nella terra ulcerata di malaria/ sei nell’esilio silente.// Amico, ma sei venuto dentro il mio sogno,/ immagine del ricordo nostro, che lungo indugia./ Tempo la tua non sia sembianza di questa vita”, canta Tu Fu, in una delle poesie più delicate e note, Sognando Li Po. Tutto, qui, ha la ferrea potenza di una lama, la naturalezza dell’acqua.
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Giocavo, poi, a indossare la vita dei poeti minori, laterali, tra le oscurità. Come Kao Shih, che “si dedicò alla poesia solo dopo i quarant’anni” e “potè attingere, per i suoi versi, all’esperienza acquistata in terra di frontiera”, o Meng Hao-Jan, “artista non scaltrito dalla vita pubblica”, che “trovandosi in casa di Wang Wei e sopraggiungendovi l’imperatore Hsüan-tsung (713-756) sarebbe fuggito a nascondersi sotto il letto dell’ospite. Chiamato poi a comparire e richiesto d’un saggio della sua poesia, avrebbe recitato, tra l’altro, ingenuamente: Povero fui d’ingegno, mi respinse il Fulgido Signore! Queste parole, denunciando l’incomprensione del sovrano, furono giudicate irriverenti e gli valsero lo sdegno imperiale”.
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Amavo il genio devoto e anarchico di quei poeti, la loro ingenuità e il fatto che in Cina, in un’epoca lontana, esistessero università dedite alla poesia, si acquisivano meriti sociali e politici se si era un ottimo poeta… La poesia era una delle doti necessarie all’uomo compiuto, la più importante. Sognavo – già – una vita di vagabondaggi, assecondando, come i miei mitologizzati poeti, una vita all’ombra dei versi, inseguendo lo scintillio scivoloso dell’intuizione lirica.
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Nel 1943, poi, l’imperiale Eugenio Montale aveva già ‘sdoganato’ il genio dei poeti cinesi. Le Liriche cinesi erano stampate da Einaudi per la cura di Giorgia Valensin: “…è un lampo di madreperla che illumina una tragedia troppo più che individuale per suggerirci parole di quaggiù. Attraverso secoli di guerre, di flagelli, di carestie e di orrori, questi pochi poeti, questi in realtà numerosissimi poeti che si contano per dinastie… si sono trasmessi il fior di giada dell’arte loro, l’hanno elaborata e perfezionata, adorna di sensi e soprasensi, di parallelismi concettuali e di acuzie tecniche, hanno compiuto insomma prima di noi tutto il ciclo evolutivo e involutivo ai quali ci han reso familiari, in pochi secoli, le maggiori letterature dei nostri paesi”, scrive il Montale sornione.
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Sedotto dalla poesia dell’antica Cina (“Vedo nella sera le oche selvatiche volteggiare in fila./ Le foglie cadono, da alberi a me stranieri./ La lampada è fredda. Sto solo, nella notte.//… Da tempo dimoro alla macchia dentro la capanna./ Quanti anni ancora darò qui della mia vita?”: questo, struggente, è Ma Tai), c’impiegai un tot a farmi la vera domanda. Ma… chi ha tradotto quei poeti? Voglio dire. Di poesia cinese io so nulla, l’ideogramma, per me, è l’anagramma di un enigma, va da sé che nella bellezza della poesia traspaia traslucido il talento del traduttore.
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Martin Benedikter. Questo il nome – esotico sommato all’esotico – del traduttore di genio (“Io sarei contento se la parola specchiasse la immediatezza della sua fonte cinese”), capace di effondere nebbie liriche perfino nell’introduzione al testo. “Le trecento poesie T’ang formano un’antologia esemplare che la prefazione dice compilata negli anni dell’imperatore Ch’ien-lung (1736-1795) dell’ultima dinastia mancese, da un certo Heng T’ang t’ui shih, l’Eremita dello Stagno di Loto, personaggio non meglio identificato”.
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Cercai di capirci. Benedikter è tra i pionieri della sinologia, è altoatesino, cresce nella cerchia dell’immenso Giuseppe Tucci, e insieme a Lionello Lanciotti – altro mirabile studioso di cultura cinese – fa il viaggio in Cina nel 1957, “Fummo ricevuti da personaggi politici importanti, tra cui l’allora ministro della Cultura Popolare, un uomo di politica, ma anche di grande sapienza; morì due anni dopo in un incidente aereo di ritorno da Mosca. Ci portarono a vedere il sito in cui avevano ritrovato il Sinantropus Pekinensis, e visitammo molte città, una ventina circa”, ricordò Lanciotti qualche anno fa. L’Accademia Roveretana degli Agiati lo descrive così: “Come sinologo (arrivato a fama mondiale) si dedicò con competente rigore filologico alla traduzione in italiano e tedesco di alcuni romanzi e soprattutto di molte liriche, dando dimostrazione di rara aderenza al testo e squisita sensibilità verso il messaggio poetico originario”. Benedikter ha diretto prima la scuola media poi il Liceo scientifico di Bressanone, ha fondato scuole medie a Brunico e a Vipiteno, dimostrandosi un eccezionale didatta; occupò la cattedra di sinologia a Napoli, nel 1968 preferì quella di Padova. Benedikter muore nel 1969, era nato nel 1908, il 10 settembre.
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Le trecento poesie T’ang sono il capolavoro di Benedikter, una traduzione che è ancora ineguagliabile: è lui, Martin, che ha inventato una lingua, in Italia, per quei poeti cortigiani o eccentrici vissuti 1300 anni fa. L’evento linguistico mi commuove. La biografia di Benedikter è scarna e oscura rispetto alla luce che ancora emana dal suo lavoro: per me la poesia cinese antica è rappresentata da lui, dalle sue scelte verbali, dalla sua perizia nell’uso degli aggettivi. Per me Benedikter raffigura un’epoca, una letteratura, in un continente così lontano. Ci vorrebbe un Borges per immaginare quell’uomo che a Bressanone, mirando la Valle Isarco, s’immagina di vagare tra le lande cinesi, e tra le ombre tirolesi vede monaci taoisti, ascolta dispute confuciane, è sorpreso dall’assalto di guerrieri ribelli. (d.b.)