“Sul monte” (Mt 5, 1) Gesù detta i suoi comandamenti: nuovi, cioè compiuti, più radicali del decalogo. Gesù è verbo che sigilla la legge compiendola (“Non crediate che sia venuto ad abrogare la legge e i profeti; non sono venuto ad abrogare ma a compiere”, Mt 5, 17). Prima di lui, la legge è lettera aperta, prassi che s’impantana nel legalismo. Incorporarsi alla Legge significa fiancheggiare Dio; seguire Gesù vuol dire obbligare Dio al gesto, prepararne l’azione. Gesù è legge, sequela che porta alla morte – alla morte della legge, cioè all’utopia preadamitica. Gesù è per tutti ma lo seguono in pochi, perché per seguirlo occorre abbandonare le proprie abbordabili abitudini, tutelate dalla legge, e vivere nell’incertezza, nel cuore dell’insicuro, nell’incauto e nel suo incanto, senza tutele, allievi del tormento, calamitati da una scelta che scardina.
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Nel mondo ebraico la Legge va percorsa – i Profeti la aggiornano alla giustizia di Dio. La parola divina è asserzione che la parola umana devia nell’interpretazione.
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Le cosiddette ‘beatitudini’ sono maledizione sulla faccia del mondo. Il cristiano non risponde alla legge degli uomini, s’incunea nella legge di Dio, cioè nel paradosso.
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“Se la destra ti scandalizza, segala, gettala via. Ti conviene perdere un arto piuttosto che tutto il corpo vada alla Geenna” (Mt 5, 30). Padre Sergij, protagonista di uno dei racconti più belli di Tolstoj, realizza il precetto, arso dal desiderio per una donna. “Adesso vengo da voi, proferì e aperta la porta, senza guardare verso di lei, passandole accanto andò nel vestibolo, dove di solito spaccava la legna, trovò a tastoni il ceppo su cui spaccava la legna, e la scure, appoggiata alla parete. Adesso, disse, e prese la scure nella mano destra, mise l’indice della mano sinistra sul ceppo, sollevò la scure e lo colpì sotto la seconda falange. Il dito saltò via più facilmente di quanto non avvenisse con legni di quello stesso spessore, si rigirò nell’aria e cadde, con un suono molle, prima sull’orlo del ceppo e poi a terra” (la traduzione è di Igor Sibaldi). Il genio letterario di Tolstoj sta nella descrizione del dito mozzato che fa le capriole in aria, certo – ma soprattutto nella parola spessore. La carne si lacera e si corrompe facilmente rispetto al legno, alla rettitudine dell’albero. Il genio morale accade dopo: “Lui alzò verso di lei gli occhi, che risplendevano d’una soave luce gioiosa”. Padre Sergij ha un “volto impallidito”, sbiancato dal dolore, ma il gesto, come il delirare in un inno, gli dora il volto, lo fa giusto. Giusto di una giustizia spietata.
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D’altronde, “Sia il vostro dire: Sì, sì, no, no. Nel di più di questo alligna il Maligno” (Mt 5, 37). Il Maligno giace nelle interpretazioni, nelle note, nelle discussioni – l’intellettuale è fautore del male, dice Dostoevskij. Nelle questioni spirituali bisogna gettarsi, in prima linea, con una affermazione raddoppiata, con una rinuncia decisa.
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Nel Primo Testamento “giustizia e diritto” sono uno (Gn 18, 19); il profeta non è un legislatore, riporta al verbo originario chi trasgredisce. Ghevurah – o Din – è un attributo di Dio, la Giustizia, che corrisponde alla Sua mano sinistra. La Giustizia è gemella di Misericordia, Chessed, che si esercita nella mano destra. Nei Vangeli, la giustizia non è per gli uomini ma per l’uomo – l’uomo è tribunale a se stesso, la giustizia ne torchia e raffina le intenzioni. Non si migliora – lo spirito non è atletica, sfoggio in palestra – non ci si ‘eleva’: bisogna uscire fuori di sé, scuoiati, per dare spazio a Dio.
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La giustizia umana, quando va bene, tutela i molti ma non corrisponde a tutti: è l’esito di un compromesso. La giustizia non è assolutamente giusta, perché l’uomo fallisce – la giustizia è l’esercizio, condiviso, di una forza: è un ‘potere’, il potere giudiziario. È la giustizia di una parte che si dice “per tutti”. Pur vivendo nel migliore dei mondi giudiziari possibili, si obbedisce ad altro – le legge, parola umana – per il bene di tutti. La legge esiste per consolidare il caos: l’uomo, da solo, non sa esimersi dalla sopraffazione. L’uomo è cattivo. La giustizia divina riguarda te, intimamente, reclama una adesione radicale: alla legge non si obbedisce, si pratica, come stare dentro la nenia di una preghiera.
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“A prescindere dalla legge, la giustizia di Dio si è rivelata”, dice Paolo (Rm 3, 21). Tra legge e giustizia si pone una distanza; la giustizia di Dio non c’entra con la legge umana – trascende i precetti.
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“Amate i nemici, pregate per chi vi perseguita” (Mt 5, 44); “Amate i vostri nemici, benedite chi vi maledice, pregate per chi vi infama” (Lc 6, 28). Al contrario, il Salmo 137 contiene l’orazione tremenda: “Beato chi afferra i tuoi neonati/ e li sfracella contro la pietra”. Non si prega per il nemico, si spera nello sterminio dei figli del nemico, nello sradicamento. Il Salmista benedice chi sfracella sulla pietra i figli del suo nemico; il cristiano si sfracella davanti al nemico.
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“Poiché si deve essere ‘perfetti come il Padre’ (5, 48), l’adempimento del precetto dev’essere sovrabbondante, fino ad abolire la necessità della codificazione – morale o rituale non importa – che lo delimita e per ciò stesso ne consente un’osservazione minima legalmente sufficiente… Il precetto evangelico di amare i nemici e di pregare per i persecutori non è la rivelazione di una ‘morale superiore’ capace di far regnare la pace e la fratellanza tra gli uomini: è la proclamazione dell’estremo grado di persecuzione che devono subire i servi del Signore, fino a quando la loro umiltà sarà stata tanto umiliata da strappare il tessuto del mondo provocando la vendetta di Dio” (Sergio Quinzio).
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Tutti ingiustificatamente giusti annientano ogni legge in una adesione superiore, vivendola fino allo zero. Feroce ribaltamento di ogni valore: non ho bisogno della legge perché ne sono l’apice, l’inesorabile.
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Il cristiano trasgredisce, la trasgressione porta la legge nell’ingiustificato: non esiste eguaglianza ma particolarità, non c’è condono ma perdono, non c’è assoluzione ma assoluto, non ci sono assolti ma prescelti. “Se la vostra giustizia non abbonda superando quella degli scribi e dei farisei, vi è precluso il regno dei cieli” (Mt 5, 20).
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La giustizia di Gesù non è quella del mondo – egli muore in seguito a un processo ingiusto. Trasgredire vuol dire “andare al di là”, quindi “eccedere i limiti ordinari e convenevoli di chicchessia”. Si eccede vivendo nell’eccezione – una eccezionalità tra luce e sottosuolo. Trasgredire: abitare l’innaturale, l’immondo – al di là del mondo. (d.b.)
*In copertina: il “Salvator Mundi” secondo Jan van Eyck, 1440